L’Europa cristiana nel cuore di Giovanni Paolo II
di Alessandro Gisotti

Se c’è un simbolo che, anche visivamente, unisce il Vecchio Continente da Lisbona a San Pietroburgo, da Oslo a Palermo, questo è il campanile di una cattedrale. Sarebbe forse sufficiente questa constatazione, verificabile anche dall’osservatore più distratto che si aggirasse nelle contrade più remote dell’Europa, per percepire quanto incomprensibile e stridente risulti l’assenza di un riferimento alle radici cristiane nel preambolo della nuova costituzione europea. Quello per intenderci dove aveva trovato spazio, in un primo tempo, la civiltà greca e romana e, con un salto di secoli, l’Illuminismo. Ma non il Cristianesimo. Una lacuna, che non è questione di secondaria importanza rispetto al pur centrale dibattito sulla configurazione dei poteri dell’Europa a venticinque. 

Non è possibile, infatti, affrontare con sicurezza il futuro, se non si tengono ben saldi i riferimenti al proprio passato, alla propria identità, giacché un popolo senza memoria è destinato a smarrirsi. A ricordare questa verità, tanto evidente quanto scomoda - proprio mentre si muovono i passi conclusivi del processo costituente in seno all’Unione - è intervenuto, con instancabile continuità, Giovanni Paolo II. Che quest’estate ha scandito le domeniche di una stagione calda e annoiata con richiami, riflessioni e appelli indirizzati alla coscienza dei cittadini dell’Europa. Un’insistenza, da qualcuno registrata con fastidio, rispolverando vecchi cliché sull’indebita ingerenza del Papa in territori non suoi. Come se oggigiorno qualcuno potesse affermare di aver contribuito più di Karol Wojtyla alla riunificazione pacifica del Vecchio Continente. 

E come non ricordare che in tempi segnati dalla divisione, da muri fisici e mentali, il Papa polacco parlava, davvero con spirito profetico, di un’Europa “dall’Atlantico agli Urali” e di una Chiesa europea che doveva tornare a respirare con due polmoni? Così, in questi ultimi due mesi, Giovanni Paolo II - negli Angelus domenicali - è tornato a rivolgersi ai cuori e alle menti degli europei, sollevando interrogativi profondi, che riecheggiano e sviluppano il contenuto dell’esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia in Europa. 

Il Papa ha voluto innanzitutto mettere l’accento sulla forza unificante del Cristianesimo, capace di “integrare tra loro diversi popoli”, plasmando la cultura dell’Europa, facendo insomma “un tutt’uno con la sua storia, nonostante la dolorosa divisione tra Oriente e Occidente”. Né ha mancato di evidenziare il rapporto privilegiato tra il Vecchio Continente e la missione della Chiesa. In quanto depositaria del Vangelo, ha affermato, quest’ultima “ha promosso quei valori che hanno reso universalmente apprezzata la cultura europea”, come l’ideale democratico e i diritti umani. Un patrimonio, ha avvertito, che non va disperso, ma a cui anzi bisogna attingere quotidianamente. Va infatti evitato che il processo di allargamento dell’Unione europea riguardi “unicamente aspetti geografici ed economici”, ma si traduca, piuttosto, “in una rinnovata concordia di valori da esprimere nel diritto e nella vita”. Un’Europa che diventi, finalmente, una “sinfonia di nazioni”. Davvero così difficile convenire con queste affermazioni? Eppure già cinquant’anni fa, il “mangiapreti” Benedetto Croce sosteneva, senza indugi: “Non possiamo non dirci cristiani”.

12 settembre 2003

gisotti@iol.it