Una ripresa strategica?
di Domenico Mennitti

“Il governo gode di ottima salute”. Lo ha sostenuto impavido a luglio, mentre imperversava la bufera interna, Silvio Berlusconi senza far fatica per fronteggiare obiezioni. Maroni, il ministro chiamato a trattare la delicata materia della riforma previdenziale, nel giorno della più aspra polemica diagnosticò per la compagine governativa un malore leggero, una “febriciattola”; e Fini, offeso perché non gli avevano consentito neppure di varcare la soglia della cabina di regia, si affrettò ad assicurare che l’esecutivo non correva rischi. Convennero persino D’Alema e Rutelli. Intervistati a Londra, durante una pausa dei lavori del vertice mondiale dei progressisti, pronosticarono crolli e precipizi, ma ammonirono gli italiani a non considerare prossima la caduta del governo. Rutelli, in particolare, teorizzò la strategia della pazienza: “non domani, dopodomani forse…”. Mai la politica italiana ha attraversato una fase di stallo così unanimemente condivisa: Berlusconi è essenziale alla sopravvivenza del sistema realizzatosi negli ultimi dieci anni. Il centro-destra ed il centrosinistra gli sono tributari della loro sopravvivenza: il primo per stare in piedi, il secondo per stare insieme. Ove dovesse uscire di scena il leader di Forza Italia, la Casa delle libertà perderebbe la ragione positiva di una convivenza palesemente difficile e l’Ulivo quella negativa del nemico comune da combattere. Questa situazione ha affermato una interpretazione fatalistica del quadro politico, considerato espressione di uno stato di necessità che per ora non si può ipotizzare di rimuovere, prescindendo dall’evoluzione del dibattito politico, dalla possibilità di dare soluzione ai problemi e dalla indispensabilità delle riforme invocate.

Durante la Prima Repubblica le turbolenze della maggioranza investivano immediatamente i governi che, infatti, cadevano e, salvo casi eccezionali, si ricostituivano rapidamente. I ricorrenti passaggi di mano consentivano ai partiti di distribuire il potere nell’arco di una legislatura fra più protagonisti e più correnti, una elasticità che contribuì alla tenuta complessiva del sistema. Elemento di instabilità per il paese, questo meccanismo si rivelò valvola di sfogo per i partiti che allora svolgevano un ruolo pregnante al punto che l’equilibrio dei loro rapporti prevaleva rispetto a quello delle istituzioni. I governi reggevano sin quando scorreva ordinaria la dialettica fra i partiti; appena il tono della contrapposizione si alzava, il riflesso istituzionale era automatico. Fu consuetudine così radicata nel costume politico da sopravvivere alla fine del proporzionale. Per due legislature, infatti, dopo il 1994 questa consuetudine è rimasta vigente con l’autorevole consenso della massima carica dello Stato, che ha legittimato ribaltoni e cambi di governo nonostante le nuove regole, sia pure imperfette, indicassero chiaramente che il balletto non era più ammissibile per via della preventiva indicazione del premier e della maggioranza. Dal 2001 almeno su questo piano c’è un po’ più di chiarezza e di coerenza. Sembra bandita la possibilità che si ripeta l’operazione ribaltone e l’idea prevalente è che, se dovesse andare a casa Berlusconi, dovranno seguirlo tutti i parlamentari perché la parola tornerà agli elettori. L’unica anomalia che si segnala riguarda Mastella, che viene dato sempre in procinto di cambiare campo, ma chissà se è vero che da destra qualcuno lo sollecita alla traversata e che egli sia lusingato dell’attenzione.

La certezza che la crisi comporterà lo scioglimento delle Camere esercita una forte pressione sui parlamentari, ovviamente votati all’autoconservazione. In tutti gli ambienti ci sono regole non scritte che non vanno mai in prescrizione: in Parlamento la più importante è che il dissenso si manifesti e si eserciti con l’attenzione di lasciare sempre un margine per il recupero. Se si perde il controllo della polemica, le lacerazioni rischiano di diventare insanabili con la conseguenza della fine prematura della legislatura. Soltanto i grandi protagonisti hanno una visione generale degli obiettivi che lo scontro politico si prefigge di conseguire ed assumono le decisioni proiettandole nella prospettiva dell’interesse complessivo della propria parte ed anche dell’intero paese. La maggioranza dei parlamentari soffre la preoccupazione dell’incertezza dell’esito elettorale e vorrebbe vivere per intero il tempo della legislatura. Insomma dal fronte del Parlamento le spinte alla rottura sono filtrate dagli interessi degli inquilini dei due Palazzi, ma la politica non si svolge solo sul teatrino degli addetti ai lavori: il rapporto che vale è con la grande platea degli elettori. 

E’ qui che si pongono le domande stringenti. Gli elettori si chiedono: è davvero “forte” un governo che si regge sulle debolezze diffuse piuttosto che sulla solidità della sua azione? Gode davvero di “ottima salute” una maggioranza che ha chiesto ed ottenuto consenso per “cambiare l’Italia” e per chiudere il lungo periodo di transizione avviato dieci anni fa e rimasto sostanzialmente al palo? Queste domande vanno responsabilmente poste perché, a nostro avviso, sono preliminari anche rispetto alla valutazione dell’attività del governo, degli impegni mantenuti, delle aspettative deluse, dei ministri bravi e di quelli mediocri. Non siamo dentro la naturale evoluzione di un sistema politico efficiente che gradualmente si rinnova; siamo ancora nella fase della definizione di nuove regole, frettolosamente e parzialmente introdotte a seguito della rovinosa caduta di una organizzazione democratico-parlamentare travolta dalla inefficienza, dalla corruzione e dalla incapacità di rinnovarsi. A questa maggioranza, e soprattutto al leader che la guida, gli italiani chiedono, dopo dieci anni dall’avvio, la conclusione della fase precaria e la costruzione dell’assetto politico-istituzionale con il quale il nostro paese deve affrontare le varie sfide della modernità, peraltro in una dimensione internazionale. I governi debbono fare i conti con tutto quanto sopravviene, che talvolta sfugge a qualsiasi possibilità di previsione (guerre, terremoti, siccità, deflazione: sono termini entrati negli ultimi due anni nel linguaggio corrente perché indicano fenomeni esplosi in ogni parte del mondo), ma la qualità delle risposte dipende dalla solidità della cultura politica che alimenta ed orienta la loro azione.

La maggioranza di centro-destra si è costituita intorno alla figura ed all’iniziativa di Silvio Berlusconi. Quando scese nell’agone politico l’Italia sembrava destinata a caricarsi di una nuova pesante anomalia, nel senso che il comunismo, in rotta ovunque, qui sembrava prossimo al potere. Era il risultato perverso di una pratica consociativa che aveva privato la democrazia dell’essenziale elemento del dissenso. Berlusconi divenne il simbolo del cambiamento: si mise di traverso sulla strada di Occhetto, organizzò il disperso elettorato moderato, vinse le elezioni, formò il governo e poi entrò dentro il tritacarne del sistema parlamentare che aveva conservato intatte insidie e incongruenze. Nel 1996 perse la competizione, ma dopo cinque anni di opposizione ha vinto di nuovo ed ora guida un governo che conta su una maggioranza di dimensioni ampie. Forza Italia, motore dell’aggregazione, ha mostrato però d’essere un partito da risultato, nel senso che si pone l’obiettivo del successo e, grazie alla grande capacità di mobilitazione del suo leader, attrae consensi. Le difficoltà nascono quando deve tradurre il consenso in capacità di governo, in risposte coerenti alla propria natura di partito nuovo, considerato però non più di rottura, come all’inizio, ma di governo. Meglio: di buon governo.

C’è un processo politico, di cultura politica, connesso anche al cambiamento del sistema elettorale, che non si è svolto e che ha ridotto gli spazi di confronto e di partecipazione, esasperando e distorcendo l’idea originaria di partito degli eletti, a suo tempo sostenuta per dare maggiore dignità al ruolo elettivo. Ma Forza Italia fu soprattutto una meravigliosa invenzione per favorire il rinnovamento in un paese che lo scontro ideologico aveva paralizzato: ognuno, senza rinnegare le precedenti militanze, ebbe a portata di mano il mezzo per diventare nuovo e diverso rispetto al passato. Non un partito di ex si ipotizzava, bensì di italiani del tempo nuovo, consapevoli di doversi aggiornare politicamente e culturalmente. Su questa base doveva cementarsi il nuovo partito e la nuova maggioranza: se si procede in ordine sparso è perché, dopo aver gettato le fondamenta, i lavori sono stati sospesi. Si attribuisce la responsabilità della mancanza di stabilità alla legge elettorale maggioritaria senza considerare che non era mai accaduto all’epoca del proporzionale che il governo potesse contare su una maggioranza così vasta. Dichiara nostalgia per il proporzionale persino An che, senza la sua abolizione, starebbe ancora ai margini della politica, impegnata a dare esami ogni giorno invocando dagli altri partiti la certificazione della propria vocazione democratica. Il problema non è tecnico-giuridico, bensì politico-istituzionale e si potrà risolvere solo creando luoghi di confronto, di elaborazione programmatica, di selezione della classe dirigente.

Si comprende in questa situazione perché il governo è alle prese con quotidiane alzate d’ingegno dei partiti alleati e perché vacilli la fiducia di tanti cittadini ch’erano convinti d’aver votato uomini in grado di far funzionare il paese, di renderlo moderno e competitivo. Berlusconi mediti su questo stato di cose e sul fatto che in politica la vera crisi è la paralisi, quella condizione di stallo che tutti giudicano letale e che tuttavia nessuno riesce a rimuovere. Ma non è vero che non si può rimuovere. Il governo può recuperare fiducia puntando sulla soluzione di alcuni grandi problemi, avviando cioè con metodo e determinazione un graduale processo di cambiamento in una società che è molto frammentata e rende dispersivo l’impegno contemporaneo su tutti i fronti disagiati. Ne citiamo due non a caso: la riforma istituzionale e quella previdenziale, nodi che ormai vanno sciolti, rispetto ai quali l’Italia è in ritardo anche nei confronti di paesi europei – Francia e Germania in particolare – che, come noi, debbono adottare misure dolorose per recuperare competitività.

Berlusconi avverte e denunzia la difficoltà di operare dentro un sistema frammentato dalla frenesia della visibilità a qualunque costo e senza la selezione dei temi, ma non deve dimenticare che la sua irresistibile ascesa e la stabilità del suo governo restano strettamente collegate alla convinzione diffusa ch’egli possa dare alla politica quel quid di straordinario per superare una fase di eccezionale emergenza. Perciò alla ripresa l’augurio è che si avvii un percorso definito che in questo momento privilegi obiettivi strategici rispetto a quelli tattici e dia nuovo slancio ad una grande esperienza politica alla quale la realtà impone di rivalutare lo spirito originario. Perché la transizione non s’è compiuta e di transizione che non si compie in politica si può morire.

12 settembre 2003

(da Ideazione 5-2003, settembre-ottobre)