Dal Psi al nuovo riformismo
intervista a Fabrizio Cicchitto di Antonio Carioti

Fra le tante bizzarrie della vita politica italiana, una riguarda gli ex elettori del Psi, il più antico partito della sinistra, che oggi in grande maggioranza votano per una formazione come Forza Italia. Ma secondo il vicecapogruppo “azzurro” alla Camera dei deputati, Fabrizio Cicchitto, si tratta di un fenomeno del tutto spiegabile, benché all’apparenza paradossale. Proprio Il paradosso socialista (Liberal Edizioni, Roma, 2003, pp. 210, euro 11) s’intitola il saggio che l’esponente di Forza Italia ha dedicato alla questione. Nel ricostruire polemicamente le vicende del movimento operaio, partendo dagli albori del Psi per arrivare ai giorni nostri, Cicchitto dà conto anche del suo percorso personale, che lo vede oggi al fianco di Silvio Berlusconi dopo lunghi anni passati da dirigente e parlamentare socialista, per giunta nei ranghi della sinistra interna che faceva capo a Riccardo Lombardi. Insomma, gli spunti di riflessione non mancano.

Lei traccia un quadro assai conflittuale dei rapporti tra Psi e Pci, con i comunisti protesi costantemente ad asservire, se non a distruggere, i socialisti. Eppure la sinistra italiana è stata unita sia nella lotta al fascismo che nella difesa della classe lavoratrice.

A livello politico, se andiamo a ripercorrere tutti i momenti cruciali dalla fine della prima guerra mondiale in poi, vediamo che la lacerazione è sempre stata molto profonda, anche nelle fasi di collaborazione. Naturalmente, durante il fascismo, la linea dei fronti popolari, adottata dai comunisti al VII Congresso del Comintern nel 1935, era molto meglio di quella precedente, che bollava la socialdemocrazia come “socialfascismo”. Ciò consentì un avvicinamento tra Pci e Psi. Ma nello stesso periodo a Mosca si scatenava il terrore, con i grandi processi. E il fattore decisivo nell’orientare le scelte dei comunisti italiani restava la volontà dell’Urss, tanto che la politica dei fronti popolari venne poi rovesciata con il patto Molotov-Ribbentrop. E lo scontro con i socialisti si fece di nuovo molto duro.

Però in seguito l’unità venne ritrovata e la lotta partigiana vide socialisti e comunisti combattere insieme.

Certo, ma solo perché Hitler nel 1941 aveva aggredito l’Urss. In realtà le esigenze sovietiche hanno pesato enormemente su tutte le fasi unitarie della sinistra italiana, fasi che peraltro i comunisti hanno sempre pilotato strumentalmente a proprio vantaggio. Nel 1946 il Psi raccolse più voti del Pci, ma fu proprio il successivo Fronte popolare che consentì a Togliatti, anche grazie a un’accorta gestione delle preferenze nelle elezioni del 1948, di assumere l’egemonia sulla sinistra e di ridurre i socialisti al vassallaggio.

Dunque a suo avviso la scissione di Livorno creò a sinistra una frattura incomponibile?

Nel 1921 il Partito comunista d’Italia nacque con l’esplicita intenzione di liquidare i socialisti, su una piattaforma a sinistra di quella del Comintern. Solo più tardi il gruppo dell’Ordine Nuovo, guidato da Gramsci, si spostò su posizioni meno oltranziste, nel timore di subire una sconfessione da Mosca. Ma l’antagonismo verso il Psi non diminuì. Alla morte di Turati, Togliatti lo definì “l’uomo più corrotto del socialismo italiano”. E ingiurie altrettanto gravi venivano rivolte a Nenni ogniqualvolta assumeva posizioni sgradite al Pci. Nel dopoguerra, esaurita la stagione del frontismo, il Psi dovette subire attacchi molto duri nel 1956, a causa dell’Ungheria. Quando poi, negli anni Sessanta, i socialisti scelsero il centro-sinistra, Togliatti tenne una posizione articolata, ma intanto l’Urss provvedeva a fomentare, con generosi finanziamenti, la scissione del Psiup.

Prima di affrontare il tema del centro-sinistra, soffermiamoci su Carlo Rosselli. Lei lo indica come una figura alternativa alla sinistra illiberale, ma alcuni studiosi vedono in Giustizia e Libertà e nel Partito d’Azione, cui addebitano moralismo giacobino e subalternità al Pci, gli antesignani degli attuali girotondi. Che ne pensa?

Per me Rosselli è un punto di riferimento ideale, ma evidentemente fu un uomo della sua epoca, che non si può certo ridislocare ai tempi attuali. Detto questo, la storia del giellismo e del Pd’A è molto più complessa di come a volte la si presenta. Tra Gobetti e Rosselli, per esempio, c’è un abisso. Il giovane torinese era un brillante giornalista, ma senza una vera profondità di elaborazione culturale, e in sostanza accettò l’egemonia di Gramsci. Invece il socialismo liberale di Rosselli è straordinariamente innovativo: in lui troviamo il riconoscimento della funzione imprenditoriale, il rifiuto dello statalismo, una critica radicale del comunismo e del massimalismo. Tutte componenti estranee al socialismo frontista. Non a caso Rodolfo Morandi, forse il fautore più convinto del frontismo, in polemica con Lombardi, che veniva dal Pd’A, usò nei suoi confronti il richiamo a Giustizia e Libertà come se fosse un insulto.

Insomma, il mondo genericamente definito come azionista era in realtà molto variegato.

Non c’è dubbio. C’è stato un azionismo di sinistra decisamente giacobino, che su alcuni temi era più estremista dei comunisti, ma anche un azionismo di destra, comprendente uomini come Ragghianti, Paggi, Tino e La Malfa, che è stato ingiustamente dimenticato. Lo stesso Norberto Bobbio ha dimostrato per lungo tempo una notevole autonomia culturale rispetto al Pci, anche se poi sul piano politico ha finito per caratterizzarsi come una sorta di indipendente di sinistra. 

Veniamo al centrosinistra degli anni Sessanta. Lei lo rivaluta come un periodo riformatore importante, ma secondo altri proprio allora crebbero a dismisura l’intervento della mano pubblica in economia e la lottizzazione partitocratica, con tutti i relativi malanni.

E’ una vicenda complessa. In realtà il capitalismo italiano si è sempre distinto per la sua allergia al mercato e la tendenza a farsi assistere dallo Stato. L’Iri nacque sotto il fascismo per rimediare ai disastri dell’industria privata e la stessa storia si è ripetuta parecchie altre volte (vedi Egam ed Efim). Le origini di Tangentopoli non risiedono nel centro-sinistra, ma vanno ricercate nell’operato di Valletta, presidente della Fiat, e di Mattei, fondatore dell’Eni. Comunque non si trattava di un fenomeno criminale, ma di un sistema in cui tutti erano implicati. Se il potere economico privato l’avesse rifiutata, Tangentopoli sarebbe stata liquidata in fretta. Invece l’ha accettata pienamente per molti anni e solo dopo Maastricht ha parzialmente cambiato rotta.

A parte le riflessioni storiche più generali, non pensa che misure come la creazione dell’Enel avessero un evidente segno dirigista?

La nazionalizzazione dell’energia elettrica non fu una scelta contro il mercato, ma un modo per rompere un monopolio privato che soffocava l’economia italiana. Tant’è vero che fu sollecitata da un liberista adamantino come Ernesto Rossi. Se andiamo a leggere i suoi scritti e quelli di Luigi Sturzo negli anni Cinquanta, troviamo già la denuncia di Tangentopoli. Una denuncia che nessuno, tanto meno i magistrati, prese allora in considerazione.

Torniamo al giudizio sul centrosinistra. Perché fallì?

Quella formula nacque sulla base di valide ipotesi riformiste. Oltre alla nazionalizzazione dell’energia elettrica, furono messe in cantiere la riforma urbanistica, quella dei patti agrari, un intervento di controllo sulla Federconsorzi, l’istituzione delle Regioni. Ma la spinta innovatrice si esaurì presto. Paradossalmente il governo più attivo fu quello guidato da Fanfani tra il 1962 e il 1963, che si reggeva sull’astensione dei socialisti. Fanfani è stato un grande uomo di governo, ma un pessimo leader di partito, mentre Moro, al contrario, dava il meglio di sé alla testa della Dc e il peggio alla guida dell’esecutivo. Quando i due si scambiarono le parti, i progetti riformatori vennero soffocati. Con Moro alla presidenza del Consiglio e i dorotei egemoni nella Dc, tra il 1964 e il 1968, si attuò una stabilizzazione moderata all’insegna dell’immobilismo. E ciò contribuì alla successiva esplosione della contestazione giovanile e del massimalismo operaio, con tutti i guasti che ne sono derivati.

Ad affossare le ambizioni riformatrici del centro-sinistra concorse anche la vicenda De Lorenzo dell’estate 1964. Lei che giudizio ne dà?

Evitiamo di mitizzare quegli eventi. Non ci fu un tentativo di colpo di Stato, ma un “tintinnare di sciabole”, una manovra attuata dal presidente della Repubblica, Antonio Segni, e da una parte dei dorotei per indurre il Psi a più miti consigli. Il generale De Lorenzo si prestò, ma per fini di carriera: non ambiva certo a prendere il potere. Risulta poi dall’archivio Mitrokhin che sulla vicenda s’innestò un’operazione del Kgb, che venne a conoscenza di tutto e fece filtrare alcune informazioni, poi sfociate nella denuncia pubblica di Scalfari e Jannuzzi, per destabilizzare i servizi segreti italiani.

Esaurito il centrosinistra, negli anni Settanta ci fu una forte avanzata del Pci, mentre i socialisti sembravano allo stremo. Eppure Craxi riuscì a invertire la situazione. Come mai però il suo disegno finì anch’esso per naufragare?

Bisogna distinguere tre fasi nella parabola craxiana. La prima va dalla sua elezione a segretario del Psi, nel 1976, fino al momento in cui assunse la presidenza del Consiglio, nel 1983. In quel periodo Craxi si contrappose con successo alla teoria e alla pratica politica del compromesso storico, ponendo in evidenza le ambiguità e le aporie del berlinguerismo, oggi ammesse anche da molti post-comunisti. La seconda fase s’identifica con l’esperienza di governo, che vide il leader socialista gestire il sistema ad alto livello, ma senza riuscire a cambiarlo in profondità. Craxi aveva colto sin dal 1979 la necessità di una grande riforma delle istituzioni, per evitare il rischio che si affermasse una deriva, tipicamente andreottiana, volta alla gestione del potere fine a se stessa. E negli anni di Palazzo Chigi seppe rappresentare il vento di modernizzazione che spirava nella società.

Tuttavia già allora il rapporto di Craxi con Andreotti, in precedenza aspramente polemico, divenne sostanzialmente collaborativo. Non era una contraddizione?

Bisogna considerare che nella Dc, con la segreteria De Mita, era emersa una linea di netta contrapposizione al Psi. E Craxi dovette cercarsi degli alleati tra i democristiani. I suoi referenti principali erano Forlani e Donat Cattin, ma ovviamente doveva fare i conti anche con Andreotti. Tra i due si creò una convergenza, ma non vi fu mai una sintonia profonda, come i fatti successivi dovevano dimostrare.

Che cosa avvenne dopo il 1987, quando il leader socialista lasciò Palazzo Chigi?

Cominciò la terza fase del craxismo, su cui occorre svolgere un’analisi critica. Divenne preminente, per il leader socialista, l’obiettivo di tornare alla guida del governo, dove in effetti aveva fornito un’ottima prova. Tuttavia la sua fissazione finì per determinare un clamoroso paradosso. Craxi era stato il primo a intuire che il sistema aveva bisogno di incisive innovazioni, ma in quegli anni apparve il più strenuo conservatore di un assetto ormai in piena crisi. Ciò lo espose all’uso politico della giustizia.

Molti gli rimproverano di non aver colto la portata di novità come la caduta del Muro di Berlino e la trasformazione del Pci in Pds.

Non sono d’accordo. A parte il fatto che, anche se avesse commesso l’errore di sottovalutare gli eventi del 1989, ciò non giustificherebbe il trattamento feroce cui fu sottoposto da parte dei postcomunisti, Craxi tentò al contrario di perseguire l’unità della sinistra. Ricordo che all’ultimo Congresso del Pci, tenuto a Bologna nel 1990, si presentò con un atteggiamento di totale apertura, mandando bigliettini a tutti gli oratori. Ovviamente pensava a una sinistra unita che lo riconoscesse come leader. Ma s’illudeva: mai e poi mai gli eredi di Berlinguer, che lo aveva sempre contrastato con estrema durezza, avrebbero potuto accettare la sua leadership. Infatti il Pds respinse gli inviti di Craxi e, abbandonata l’originaria matrice comunista, puntò ad occupare lo spazio politico dei socialisti, cavalcando l’onda del circuito mediatico-giudiziario.

Nelle vicende di Tangentopoli c’è anche la spiegazione della sua scelta di aderire a Forza Italia. Come interpreta gli eventi del biennio 1992-93? 

Operarono diverse componenti. Un fattore importante furono i vincoli di Maastricht. Probabilmente Andreotti e De Michelis, protagonisti del negoziato che condusse all’accordo sulla moneta unica, non si resero conto del mutamento radicale che il trattato comportava. Lo comprese invece Guido Carli, che si domandava se vi fosse in Italia la consapevolezza della rivoluzione così avviata. Infatti Maastricht costringeva il capitalismo italiano a fronteggiare la concorrenza mondiale senza più poter contare sulla svalutazione della lira per recuperare competitività. Contemporaneamente la fine del blocco sovietico faceva diminuire l’interesse verso l’Italia di ambienti americani inclini a sostenere le forze moderate in funzione anticomunista (in particolare la Cia), mentre cresceva l’attenzione di settori più propensi a una dura lotta antimafia (cioè l’Fbi). In queste condizioni una parte rilevante del mondo finanziario decise di chiudere il sistema di Tangentopoli e diede via libera a pezzi della magistratura perché procedessero in tal senso.

A questo proposito si è parlato insistentemente di “toghe rosse”. Lei è d’accordo?

Solo in parte, perché parteciparono all’operazione anche pubblici ministeri di destra, come Piercamillo Davigo e Marcello Maddalena. Ma certo il loro attivismo s’intrecciò con le aspirazioni della corrente di Magistratura democratica, che da tempo coltivava il progetto di una trasformazione rivoluzionaria del sistema. Basta leggere i documenti di Md o il libro del suo dirigente Giovanni Palombarini, Giudici a sinistra, per constatare che essa si considerava un vero e proprio soggetto politico, in lotta contro l’equilibrio di governo vigente. Questa teorizzazione finì per incrociarsi con la crisi del sistema e determinò l’esplosione dell’inchiesta Mani pulite.

Se però la crisi era strutturale, in qualche modo un cambiamento era inevitabile.

Sì, ma poteva avvenire in modi diversi. Il superamento di Tangentopoli e l’apertura dell’Italia alla concorrenza potevano essere il frutto di una grande intesa consociativa fra tutte le forze politiche e sociali, che avrebbe dovuto prevedere un’amnistia. Un’altra ipotesi poteva essere la palingenesi, con la disfatta di tutti i partiti coinvolti nel finanziamento illecito. Ma in tal caso doveva perire anche il Pci-Pds, che non solo aveva ricevuto fondi dall’Urss, ma era ampiamente compromesso, attraverso le cooperative rosse e i loro spregiudicati affari, nella spartizione dei grandi appalti riguardanti le opere pubbliche. Invece, a un certo punto, la magistratura, sia perché alcuni settori al suo interno erano legati a Botteghe Oscure, sia perché capiva di non poter fare tabula rasa dell’intera classe politica, scelse di salvare i postcomunisti.

Quindi secondo lei ci fu una sorta di patto tacito tra il Pds e i pubblici ministeri più impegnati nelle inchieste sulla corruzione?

E’ dimostrato dai fatti. Quando D’Alema, con la Bicamerale, cercò di scrollarsi di dosso l’egemonia della magistratura politicizzata e di stipulare un patto con Berlusconi, venne tirato bruscamente per la giacca da Gherardo Colombo, che parlò di una Seconda Repubblica “fondata sul ricatto”. E la Bicamerale saltò.

Però in quella stessa legislatura la Costituzione venne modificata per introdurre il “giusto processo”.

Fu l’unica riforma approvata, dopo il fallimento della Bicamerale e uno scontro vivace in Parlamento. Ma il disegno originario di revisione costituzionale venne affossato dal veto della magistratura, tanto che D’Alema a un certo punto, per aggirare l’ostacolo, tentò vanamente di scavalcare Berlusconi e accordarsi con Fini, che sulla giustizia era più malleabile.

In effetti, se è vero che il Pds strumentalizzò Mani Pulite, nel periodo 1992-93 la Lega e il Msi-An non furono da meno.

Lo so bene. Furono una sorta di “ragazzi del coro”. C’era in quel momento una pulsione giustizialista nei missini e nella Lega, anche se non avevano alcuna connessione organica con settori della magistratura, tanto che poi Bossi subì un violento scappellotto per i famosi 200 milioni ricevuti dalla Montedison.

Scappellotti però ne ricevette anche il Pds. Primo Greganti, ad esempio, fece diversi mesi di carcere. 

Finirono in galera numerosi esponenti pidiessini di secondo piano, spesso individui onesti sul piano personale, perché il loro partito era implicato nel sistema delle tangenti. Ma nei confronti del Pds non venne mai applicata la logica adottata nei riguardi della Dc e del Psi, per cui i leader di maggior spicco “non potevano non sapere” del finanziamento illecito. La gestione delle inchieste giudiziarie sui postcomunisti è stata straordinariamente garantista. Mi guardo bene dal contestarla: rilevo però che un analogo garantismo non è stato usato verso altre forze. E aggiungo che, se davvero il finanziamento del Pci-Pds fosse stato quasi del tutto regolare, non si capirebbe perché i Ds, dopo Tangentopoli, abbiano dovuto licenziare un esercito di funzionari e alienare gran parte del loro patrimonio immobiliare, compresa la sede di Botteghe Oscure.

Passiamo a Berlusconi. Che cosa ha rappresentato Forza Italia per voi socialisti, dopo la bufera che aveva annientato il Psi?

Con Tangentopoli finisce la storia della sinistra italiana tradizionale, perché i postcomunisti, avvalendosi di Mani Pulite, procedono a eliminare i socialisti. Si tratta di un dato indiscutibile: basta rileggersi che cosa diceva all’epoca Violante. Per un altro libro che sto preparando, dal titolo La sinistra autoritaria, sono andato a rivedermi le annate dell’Unità dal 1992 e il 1994 e le posso assicurare che sono un esempio eloquente di uso politico della giustizia. Finito il comunismo, i suoi eredi italiani non sono divenuti socialdemocratici, ma hanno inventato una miscela infernale di giustizialismo e massimalismo, con lo scopo primario di liquidare il Psi. A quel punto la discesa in campo di Berlusconi ha messo un sasso nell’ingranaggio del sistema autoritario che stava nascendo. E non a caso la maggioranza dell’elettorato socialista, senza che ci fossero indicazioni politiche in tal senso, ha votato per Forza Italia sin dal 1994.

Però all’epoca Berlusconi si presentava come alternativo a tutto il vecchio sistema dei partiti. 

C’è stata una prima fase nuovista di Forza Italia, che ha aggregato gli elettori, ma non molti quadri di matrice socialista. In seguito, dopo il ribaltone, a quel forte elemento di novità, di cui comunque l’Italia aveva bisogno, si sono affiancate altre caratteristiche, che hanno dato al partito di Berlusconi una fisionomia più precisa. E’ una forza dotata di una leadership carismatica. Sul piano sociale è interclassista, perché non aggrega solo le partite Iva, ma anche settori di lavoro dipendente. Inoltre è pluriculturale: al suo interno convivono filoni differenti, come quello cattolico, quello socialista riformista e quello laico liberale. 

Tuttavia nel complesso Forza Italia appare un movimento di matrice liberal-moderata, che infatti aderisce al Partito popolare europeo. E in fatto di bioetica si richiama in prevalenza alla tradizione cattolica. Non siete un po’ a disagio, voi socialisti, in una collocazione del genere?

I problemi certamente esistono. Sulla bioetica abbiamo rivendicato e ottenuto libertà di voto in Parlamento, tant’è vero che in tema di procreazione assistita io mi sono espresso in modo difforme rispetto al disegno di legge approvato dalla maggioranza. Il discorso dei collegamenti all’estero è più complesso, ma bisogna tener conto che l’Internazionale socialista è in preda a una crisi involutiva, tanto che Tony Blair si trova pressoché isolato rispetto alla deriva massimalista dominante. Quanto al Ppe, non è più una formazione democristiana, ma raccoglie un po’ di tutto. In Forza Italia convivono moderatismo e riformismo, sia pure con qualche difficoltà. Ma di gran lunga peggiore è la situazione dei riformisti all’interno dell’Ulivo, dove sono ostaggio del movimentismo e dei girotondi. D’altronde il sistema elettorale maggioritario porta tutti a dover mediare le proprie posizioni con i rispettivi partner di schieramento.

Che cosa pensa dei socialisti aderenti all’Ulivo, che rivendicano anch’essi l’eredità di Craxi?

Non voglio aprire polemiche. Il meccanismo maggioritario costringe a scelte obbligate. Ma se noi abbiamo dei problemi, loro devono convivere con chi Craxi l’ha fatto secco. E’ un’alleanza che può reggersi solo sulla rimozione del passato, da una parte e dall’altra. Però è difficile dimenticare che, dieci anni fa, gli scalmanati che tiravano le monetine a Craxi, davanti all’Hotel Raphael, venivano da una manifestazione convocata appositamente a piazza Navona, che dista due passi, su iniziativa di Achille Occhetto. Senza contare poi che nell’Ulivo l’uso politico della giustizia è tuttora una pratica corrente.

Lei rimprovera alla Casa delle Libertà un’eccessiva timidezza. Che cosa deve fare per darsi un profilo più netto?

I problemi della maggioranza non derivano dalla divisione in falchi e colombe di cui si parla all’esterno. Soffre piuttosto di continuismo e di un certo complesso d’inferiorità. Com’è noto, l’establishment tradizionale sta dall’altra parte, ma è sbagliato rimanere in soggezione rispetto a quel mondo, i cui gravi limiti sono evidenti. Bisogna avere il coraggio di compiere scelte radicali: sulla giustizia ci vuole una riforma a tutto campo; in materia economica bisogna realizzare appieno il programma di governo. Purtroppo la congiuntura internazionale non è favorevole e l’Ulivo ci ha lasciato in eredità un grosso buco nei conti pubblici, senza contare le conseguenze dell’11 settembre. Ma credo che si possa fare molto di più per rilanciare lo sviluppo e inaugurare un’incisiva stagione di riforme.

12 settembre 2003

(da Ideazione 4-2003, luglio-agosto)