Diario di uno scrutatore
di Giuseppe Mancini
Afa, carte, timbri e passatempi; più qualche sparuto elettore. Il caldo
insopportabile del 14, 15 e 16 giugno, giorni deputati allo svolgimento
dei referendum sull’estensione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori
e sull’abrogazione della servitù d’elettrodotto, è stato la costante che
ha accompagnato le operazioni dei seggi elettorali in tutta Italia. I
rimedi, fantasiosi e tecnologicamente avanzati: chi ha sfoggiato
ventagli multicolori, souvenir di un recente viaggio a Siviglia; chi ha
posizionato in posti strategici una batteria di ventilatori, ad alto
potenziale refrigerante; chi ha addirittura dotato la propria sezione di
climatizzatore, che ha stupito e attratto le forze dell’ordine
boccheggianti. E tutti – presidenti, segretari, scrutatori, personale di
sorveglianza – hanno trasformato l’ampio e iperventilato corridoio in
zona franca intersezionale – ognuno con la sua sediolina – in cui
combattere il caldo e la noia.
Noia derivata, principalmente, dal sistema antidiluviano alla base di
tutte le operazioni della sezione: carta, cartacce, buste di carta,
timbri, firme, scatole, urne di cartone – mentre in Brasile, nei
villaggi della foresta amazzonica, già è stato introdotto il voto
elettronico e via satellite. Migliaia di schede da autenticare, il
sabato: e l’esperienza e la creatività per escogitare i più efficienti
sistemi di firma e timbratura, nella frenetica competizione per
conquistare prima possibile la doccia di casa. Poi le lunghissime ore da
passare al seggio, che basterebbero a far votare diecimila persone: tra
timbri, ancora timbri, firme, verbali e duplici copie. Poi lo spoglio,
farsesco, tutto di corsa e senza gli occhi inquisitori dei
rappresentanti di lista, perché il quorum non era stato raggiunto: sì,
no, sì, sì, sì (inutili sì!), bianca; insieme a chi, per distinguersi,
ti manda a quel paese. E sempre timbri, firme, moduli, tabelle, pacchi,
pacchetti, buste e bustoni: poi una rapida consegna di chiavi e
scatoloni, per la seccata soddisfazione di tutti.
Noia combattuta con sistemi di fortuna, con intraprendente megalomania,
con orgoglioso infantilismo. Dal cruciverbone sulla lavagna al torneo di
backgammon, dal calcetto in corridoio al ping-pong, dalla degustazione
di tè alla pizzata collettiva, fino alla visione televisiva dei gran
premi di motociclismo e formula1. Se ne è accorto lo sventurato votante
che si è presentato al seggio mentre il telecronista annunciava: “si
accendono le luci…”; il presidente non ha potuto che dirgli, con le
schede già in mano: “un attimo, vediamoci la partenza del gran premio”;
e l’elettore, dopo aver assistito ai primi tre giri e aver votato, ha
ricevuto la sua tessera elettorale debitamente timbrata e ha salutato
con un disarmante “buon divertimento”. Ma tutti quelli che si sono
presentati durante lo svolgimento della corsa sono stati ben felici di
essere aggiornati sulle vicende ferrariste. Tanto, ai pochi votanti
delle sorti dei referendum non interessava granché: la maggior parte
sono venuti a votare per abitudine, altri (i giovani) per la curiosità;
molto pochi i rifondati comunisti e i cigiellini anti articolo 18: si
riconoscevano facilmente, dalla smorfia di delusione all’apprendere i
dati sull’affluenza. Un voto inutile, tre giornate inutili passate al
seggio, qualche centinaio di euro in tasca, l’arrivederci alle Europee:
afa, carte e timbri saranno gli stessi; gli elettori molti di più: si
tornerà a comportarsi da persone serie. Nella speranza che l’istituto
del referendum venga profondamente rivisto: perché così com’è proprio
non funziona.
20 giugno 2003
giuse.mancini@libero.it
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