Referendum, astenuti per cambiare
di Massimo Lo Cicero
Sui temi della riforma del mercato del lavoro si è sviluppata negli
ultimi due anni una lacerante contrapposizione. L’intero paese è stato
costretto ad impegnare la propria agenda politica nel tentativo di
superare il costo sociale che una simile aspra contrapposizione
rappresentava. Se interpretiamo il risultato di scarsissima
partecipazione al voto referendario – e non possiamo fare altrimenti –
come un indicatore dell’attenzione che il paese reale riserva a simili
quesiti, ci accorgiamo che il largo dispendio di energie, e di vite
umane, che è stato assorbito da questo processo potrebbe rappresentare
un clamoroso caso di fallimento. Il livello dei costi non è paragonabile
alla soglia di attenzione che il paese riserva al problema e, di
conseguenza, ne risulta sminuito anche il valore dei risultati. Perché
il valore nasce dalla combinazione tra le risorse assorbite per
ottenerlo – che ne rappresentano il costo reale – ed i benefici che gli
utilizzatori del risultato apprezzano come utilità aggiuntiva. Se questi
benefici, tuttavia, fossero superiori al valore che avrei potuto
ottenere, ed al quale ho rinunciato, per concentrarmi su quello che ho
prodotto, allora dovrei concludere che avrei potuto impiegare meglio le
mie risorse. Insomma, devo considerarmi insoddisfatto se la cosa
ottenuta costa più di quanto io penso che valga e se la cosa ottenuta
avrebbe potuto essere sostituita da un’altra cosa che vale più di quella
che, al contrario, mi ritrovo ad avere.
Ma quale è il punto su cui si sarebbe dovuta verificare una crisi di
civiltà che, invece, si è risolta in una larga disattenzione verso il
problema? Si tratta di un problema assai limitato: un problema di
risarcimento del danno per chi viene escluso dalla propria condizione
lavorativa. L’ipotesi iniziale, la riforma dell’articolo 18, era di
ammettere un risarcimento monetario ma non di garantire la
reintegrazione nel posto di lavoro. L’ipotesi su cui si è votato
domenica, nella generale disattenzione, era che si dovesse estendere la
tutela del posto di lavoro anche a chi lavorava in organizzazioni che
non avessero carattere imprenditoriale e a chi lavorava in imprese con
meno di quindici dipendenti. Troppo poco per parlare di una scelta di
civiltà, come si è fatto: con un chiaro eccesso di retorica. Ed,
infatti, la maggioranza della popolazione ha considerato ridondante
questo interrogativo retorico ed ha omesso di fornire la propria
risposta.
In questo comportamento della popolazione si individuano insegnamenti
sul piano politico ma anche su quello della strategia economica
necessaria per il paese. Il risultato del referendum conferma che la
popolazione può, e deve, in un regime di piena democrazia, oscillare tra
ipotesi più laburiste e protettive dei valori sociali ed ipotesi che
individuano nella libertà individuale la vera radice della coesione
sociale e della crescita economica. Ma che, quando quella protezione si
manifesta come un aggressione squilibrata dei diritti dell’imprese, e
come una tutela forzata della controparte lavorativa, anche l’elettorato
di sinistra rifiuta l’eccesso proposto. E lo rifiuta, ritenendo
ridondante la domanda, sia prima e fuori del ricorso alle urne che
durante il ricorso alle urne.
In termini economici – ed è questo il punto più importante – risulta
confermata una prospettiva assai diversa delle politiche necessarie per
riordinare il mercato del lavoro. Non si tratta di garantire per sempre
una posizione lavorativa, irrigidendo le strutture organizzative delle
imprese e rendendole obsolete economicamente. Si tratta di garantire un
patrimonio di conoscenze e competenze ai lavoratori: perché possano
impiegare al meglio la propria vita, scegliendo tra esperienze di
successo che sono libere di nascere e di morire, insieme con le imprese
che propongono quelle esperienze. Si tratta di garantire una
flessibilità della vita lavorativa e non di creare una flessibilità del
processo lavorativo che premi l’imprenditore all’interno delle mura
della fabbrica. Perché privare l’imprenditore della sua libertà di
cambiare il processo condanna a morte la fabbrica ed espelle il
lavoratore dal processo.
La tutela proposta dai promotori del referendum è una eutanasia, una
dolce morte prolungata, e non una terapia capace di guarire la lenta
crescita dell’economia europea. Questa flessibilità della vita si può
costruire investendo in educazione e ricerca scientifica: senza
aumentare i vincoli sulla gestione dei processi lavorativi. Questa
libertà di vivere si garantisce riprogettando gli istituti della
previdenza sociale e la erogazione dei servizi sociali. L’Italia
ritroverà la crescita se cambia la sua sclerotica organizzazione degli
apparati di Welfare e non se, una volta irrigidita la distribuzione dei
servizi di pubblica utilità, decidesse di ingessare anche le condizioni
per produrre le risorse necessarie ad alimentare il benessere.
Disertando la risposta ad un quesito deformato e ridondante la
popolazione italiana, di destra o di sinistra, laburista o liberale che
sia, ha detto chiaramente che vuole discutere di cambiamenti per vivere
e non di pannicelli caldi per morire circondata dalle illusioni.
20 giugno 2003
maloci@tin.it
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