Sindacati: quando l'intolleranza alimenta il terrorismo
di Pierpaolo La Rosa

Sono passati ormai quattro anni da quando Massimo D’Antona cadde a Roma sotto i colpi delle nuove Brigate Rosse. Un vero e proprio campanello d’allarme, quello suonato il 20 maggio del 1999 in occasione dell’assassinio del giuslavorista, consulente dell’allora ministro del Lavoro, Antonio Bassolino. Poi, l’anno scorso, la morte di Marco Biagi: un altro studioso, anche lui impegnato sul delicato terreno delle riforme. Come se questo non bastasse, si sono poi aggiunte le tensioni fra i tre sindacati confederali, mai così divisi nella loro storia. L’ultimo di una lunga serie di episodi riguarda il referendum sull’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori di metà giugno. Il copione è il solito: da una parte la Cgil, dall’altra Cisl e Uil. Un clima torbido, pesante, culminato nell’ultimo periodo con intimidazioni continue che hanno avuto come bersaglio la Cisl e il suo segretario generale, Savino Pezzotta. 

L’accusa? Aver assunto, in buona sostanza, un atteggiamento filo-governativo. “Aggressioni incomprensibili”, sbotta il diretto interessato, che mette le cose bene in chiaro: “Se qualcuno pensa che la mia organizzazione si arrenda, si pieghi, non faccia il suo mestiere, sbaglia. Anzi: questi gesti ci rafforzano nel nostro impegno”. Certo, l’atmosfera nelle fabbriche non è esattamente delle più piacevoli e il numero uno del sindacato di via Po ne è cosciente: “Ci sono stati degli episodi di intolleranza ingiustificabili”, afferma. “Capisco il dissenso e la dialettica – fanno parte della democrazia – quello che non comprendo è l’intolleranza, il considerare un nemico chi ha una idea diversa dalla tua. Noi non lo abbiamo mai fatto”. Chiaro il riferimento a quella Cgil che troppo spesso ha alzato il livello della polemica. Ma, chiediamo, questa situazione non potrebbe alimentare ulteriormente proprio il terrorismo? Pezzotta invita alla cautela ed aggiunge: “E’ chiaro che in un simile contesto, caratterizzato da turbolenze, i terroristi possano inserirsi”. 

L’appello finale, insomma, è uno solo: abbassare rigorosamente i toni anche perché, spiega il leader sindacale, “io so ben distinguere tra le parole e i gesti. Quando però le parole superano un certo livello, poi non si sa mai cosa possano suscitare. Se noi tutti fossimo un po’ più calmi, probabilmente qualche sconsiderato non verrebbe indotto in tentazione”. Sulla stessa lunghezza d’onda il segretario generale della Uil, Luigi Angeletti: “In Italia dobbiamo imparare una cosa difficile. Bisogna stare attenti alle cose che si dicono, agli aggettivi che si usano, sapere soprattutto che c’è una linea che separa la critica – che è il sale della democrazia – dalle ingiurie. Queste ultime sono un metodo di lotta politica assolutamente incompatibile con una società democratica”. “Anche nei conflitti intersindacali – conclude – occorre tener presente che esiste tale distinzione e che troppo spesso viene superata”. A buon intenditor, poche parole.

23 maggio 2003

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