La devolution che viene
di Beniamino Caravita

L’Italia non è un Paese dalle “pile scariche”. L’Italia delle venti Regioni e delle mille città è oggi un Paese che deve ritrovare il filo di un dialogo che sappia valorizzare al massimo le esigenze e le richieste di autonomia, all’interno di un quadro di solidarietà e di unità nazionale, nella comune casa europea. E a ritrovare le fila di questo dialogo sono chiamati tutti, con l’auspicio che si possa individuare un percorso – che non può che essere quello parlamentare, secondo gli artt. 72 e 138 della Costituzione repubblicana – che conduca all’approvazione, entro la primavera, del disegno di legge “La Loggia”. Così come si attende entro l’anno sia l’approvazione del testo della devolution – secondo le correzioni e precisazioni che si sono evidenziate – che le regole per un effettivo federalismo fiscale, senza il quale – è evidente – l’autonomia non sarà effettivamente possibile. Qualsiasi discussione sull’introduzione in Italia di una riforma federale delle istituzioni deve comunque tener conto di una serie di dati di fatto generali:

– da qualche anno si assiste, in Europa e nel mondo, ad un rilancio di attenzione dei modelli federalistici, non più limitati alle tradizionali esperienze tipicamente federali degli Stati Uniti, del Canada, della Germania e della Svizzera, ma ormai utilizzati come modelli per risolvere situazioni politiche diverse (si pensi alla recente proposta dell’Onu relativa a Cipro); – l’Europa si sta avviando a costruire una Costituzione europea, basata sull’adozione di istituzioni di tipo federale per offrire una casa comune ai popoli, agli Stati e ai cittadini europei; nella stessa direzione, anche se indubbiamente più indietro, si muovono alcune esperienze regionali (Nafta, Mercosur, West Carribean Organisation, Oua, Asean); – nell’ambito dell’Unione europea, la maggioranza degli Stati sta assumendo modelli di organizzazione federal/regionale (non solo la Germania, bensì anche Austria, Spagna, Belgio, Francia, Gran Bretagna, Portogallo e, tra le new entries, la Polonia, hanno un’organizzazione federal/regionale);– in linea generale, nel mondo globalizzato, la gestione politica di alcuni interessi a livello locale rappresenta uno strumento per costruire leadership politiche più vicine ai cittadini, per bilanciare la gestione del potere anche secondo linee verticali, per creare livelli più vicini agli interessi per le decisioni (micro) economiche, per sperimentare modelli alternativi di organizzazione delle politiche sociali.

In Italia, il processo di organizzazione della Repubblica secondo un modello federale, nato inizialmente sotto la forte pressione politica della Lega Nord, si è sviluppato negli ultimi cinque anni, trovando un primo approdo – pur impreciso e insoddisfacente – nella riforma del Titolo V, entrata in vigore ormai quasi un anno e mezzo fa. Occorre allora oggi individuare percorsi che sappiano coniugare gli aspetti positivi dei modelli federali, secondo le esperienze largamente conosciute e sperimentate in altri Paesi, ed evitare le storture che una riforma, importante ma estremamente affrettata e assunta con una risicata maggioranza, ha provocato. E bisogna uscire dalla contraddizione tra attuazione e riforma del Titolo V: completamento, riforma ed attuazione della riforma devono marciare insieme. Nel contesto costituzionale che si va così disegnando la Camera delle Regioni assume un ruolo cruciale, per una molteplice serie di ragioni. E' ormai evidente, infatti, che non è possibile la costruzione di un modello federale di assetti istituzionali se non vi è un organo che operi come cassa di compensazione politica dei rapporti tra Stato centrale ed entità periferiche: i conflitti tra i due livelli, tanto più presenti quanto maggiori sono le interferenze, non avrebbero altrimenti (e nei fatti non hanno!) diverso strumento di soluzione se non il continuo ricorso all’organo giurisdizionale di risoluzione dei conflitti, che assumerebbe un ruolo – al quale non è adatto – di istanza di compensazione politica. 

Altro è se la decisione sui princìpi della legislazione concorrente, ovvero sull’esistenza di princìpi unitari, ovvero sulle modalità di ripartizione delle risorse viene assunta da un organo in cui le entità federate sono presenti (e la decisione rappresenta così il frutto di bilanciamento politico delle posizioni); altro se la decisione su tali aspetti viene assunta da un organo rappresentativo sì dell’intera collettività nazionale, in cui tuttavia le entità federate non sono riuscite a trovare accesso: è evidente che le Regioni più facilmente tenderanno a contestare l’assetto degli interessi così delineato e ad impugnare la decisione e, soprattutto, che il peso del bilanciamento verrà inammissibilmente a gravare su chi dovrebbe invece decidere solo sul rispetto delle regole del gioco.

La costruzione di una delle due Camere come Camera delle Regioni avrebbe poi il vantaggio di ricondurre le decisioni relative agli interessi dei livelli di governo in ambito parlamentare. Per loro natura, i sistemi federali tendono a privilegiare gli esecutivi, nella loro maggiore rapidità di reciproci rapporti e raccordi e nella maggiore elasticità a raggiungere soluzioni consensuali: la creazione di una Camera parlamentare di rappresentanza degli interessi territoriali costituirebbe uno strumento di possibile compensazione della deriva filogovernativa degli assetti federali.

Una migliore articolazione della legge elettorale

Infine, la previsione di una Camera delle Regioni permette di costruire in maniera più equilibrata il parlamentarismo maggioritario. E, invero, la presenza di una Camera non depositaria dell’indirizzo politico – è evidente, infatti, che una Camera delle Regioni non parteciperebbe al rapporto di fiducia con l’esecutivo – renderebbe possibile un’articolazione della legge elettorale in grado di produrre maggioranze parlamentari, mentre un’accentuazione maggioritaria della legge elettorale in presenza di due Camere politiche lascerebbe sempre aperto il rischio della creazione di maggioranze parlamentari divergenti. Dall’altro lato, poi, una Camera non depositaria dell’indirizzo politico non sarebbe soggetta allo scioglimento di maggioranza e entrerebbe a far parte di quegli organi in qualche modo di garanzia all’interno di un assetto più marcatamente maggioritario.

Rimane certo aperta la questione della composizione di una Camera di rappresentanza delle entità territoriali, oltre al problema di come convincere i senatori o i deputati a modificare le regole della propria elezione e delle proprie competenze. Occorre sciogliere il nodo se in una Camera siffatta debbano essere rappresentate le sole Regioni, ovvero anche gli altri enti territoriali e, nel contempo, occorre riflettere sulla questione delle modalità di investitura. Agli estremi vi sono il modello Bundesrat (rappresentanza solo dei Länder, su designazione dei governi regionali), il Senato statunitense (elezione diretta di due senatori in ognuno degli Stati membri) e il modello Senato francese, in cui viene esaltata la componente di rappresentanza dei territori rurali e non urbani. Degna di interesse è la soluzione spagnola, in cui il Senato è composto da due tipi di membri, aventi i medesimi diritti e le medesime prerogative. 208 senatori sono eletti a suffragio universale e diretto, mediante sistema maggioritario, applicato a circoscrizioni provinciali. Le Comunità autonome designano ciascuna un senatore, più un senatore per ogni milione di abitanti (per un totale di cinquantuno senatori così designati). 

Per quanto attiene alle competenze, non vi è dubbio che una Camera così composta dovrebbe pronunziarsi su tutte le questioni che toccano i rapporti Stato-Regioni (legislazione nelle cosiddette materie trasversali, definizione dei princìpi e delle materie, ambito degli interessi unitari, riparto finanziario, esercizio dei poteri sostitutivi, attuazione di direttive comunitarie e di trattati nelle materie regionali, ecc.). Rimane da verificare, da un lato, se attribuire a tale Camera anche altre competenze (revisione costituzionale, poteri sulle nomine, competenza sulle leggi relative ai diritti di libertà, ecc.); dall’altro, come articolare il procedimento nel caso di disaccordo tra le due Camere, se cioè secondo un modello di prevalenza della Camera politica, ovvero inserendo una Commissione comune chiamata a individuare un compromesso accettabile da sottoporre all’approvazione finale.

Il federalismo moderno non risponde solo ad un’esigenza di foedus politico: è strumento di avvicinamento del potere ai cittadini; è funzionale ad una maggiore articolazione dei poteri pubblici; rispecchia un’esigenza di coinvolgimento delle collettività territoriali nelle decisioni economiche e nell’organizzazione dei servizi. Il federalismo moderno, per queste ragioni, non può non essere, nel contempo, liberale e solidale: liberale, perché risponde all’esigenza tipica di questa ideologia della maggiore articolazione possibile del potere; solidale, perché le democrazie moderne non possono non basarsi su elementi di socialità e di solidarietà, inevitabilmente connessi al principio universale di eguaglianza. E' in questo quadro generale, allora, che va inserito il tema della cosiddetta “devoluzione”: sottrarsi a questa scottante problematica sarebbe più facile, ma lascerebbe inevitabilmente insoddisfatti.

Il federalismo, quasi per definizione, non può essere omogeneo; basandosi sulla possibilità di differenziazione, non si può contraddittoriamente pretendere che le differenze siano eguali. Il federalismo non può che essere differenziato e asimmetrico: ma deve rimanere differenza di eguali; e l’asimmetria non deve rompere il foedus. In verità, il vigente Titolo V della Costituzione contiene in sé fortissimi germi di federalismo differenziato: sia nell’art. 116, u.c., laddove prevede la possibilità per le Regioni di ottenere, attraverso un procedimento pur farraginoso, ulteriori competenze; sia, in generale, nello stesso modello fatto proprio dal novello testo costituzionale, nel quale inevitabilmente il plotone delle Regioni si sgranerà tra quelle in grado di attivare e gestire tutte le (amplissime) competenze ad esse attribuite e quelle che dovranno continuare a far leva sull’intervento legislativo statale. Al di là degli scontri di bandiera, la devolution altro non è che la costituzionalizzazione di una procedura più rapida attraverso la quale alcune Regioni potranno attivare competenze più ampie su alcune materie ben definite, ferma restando la necessità di una fase di contrattazione con lo Stato per il trasferimento di risorse e personale, in quadro in cui lo Stato dovrà tenere conto dei vincoli dell’art. 117, comma 2, e dell’art. 119. 

“In cambio”, se la devolution andrà avanti, oltre alla conferma del vincolo anche delle competenze esclusive regionali al principio di unità (art. 5) ed alle competenze statali “unificanti”, contenute nell’art. 117, comma 2, occorrerebbe introdurre meccanismi che garantiscano l’unità nazionale, in particolare correggendo, attraverso un intervento sull’art. 117 o sull’art. 120, comma 2, la vera e propria stortura secondo cui nelle materie di potestà concorrente lo Stato potrebbe, secondo quello che appare finora l’orientamento dominante, dettare solo norme di principio (e non anche norme di dettaglio, ancorché cedevoli) e, in generale, lo Stato non godrebbe di strumenti per attivare politiche unitarie nelle materie di competenza residuale regionale. La parola d’ordine, allora, è: più possibilità di autonomia, nel quadro dell’unità nazionale, alle Regioni su alcune determinate materie; più strumenti allo Stato per garantire, dove occorra, i profili di unità nazionale e quei necessari momenti di solidarietà. 

La ripartizione della potestà legislativa tra Stato e regioni 

In un articolo di oltre cinquant’anni fa, Mortati individuò magistralmente le caratteristiche che devono avere i giudici costituzionali e collegò queste caratteristiche alla composizione prevista dal testo costituzionale (cinque giudici di elezione parlamentare; cinque di nomina presidenziale; cinque provenienti dalle magistrature supreme). Il modello italiano si è sinora, nel suo complesso, dimostrato equilibrato: ma è indubbio che il nuovo sistema costituzionale richiede che la Corte costituzionale, pur se non se ne deve postulare il carattere di Cour d’arbitrage, abbia al suo interno sensibilità attente alla dimensione regionale. Quanti debbano essere i giudici in totale e quanti di provenienza regionale, è questione che potrà essere facilmente risolta successivamente. L’attuazione del Titolo V è doveroso punto di partenza di ogni riflessione sui temi del federalismo: e ciò non solo per ragioni deontologiche (il vigente testo costituzionale va rispettato sino a che non viene riformato), ma anche per ragioni per così dire ontologiche: solo la verifica di quanto non funziona nel Titolo V permette un serio e sicuro intervento (restyling, come usa dire il ministro per gli Affari regionali) sul testo vigente.

Per quanto riguarda l’attuazione, il disegno di legge presentato dal ministro La Loggia e approvato dal Senato rappresenta un importante passo avanti, fissando alcuni princìpi e criteri direttivi nell’interpretazione e applicazione del testo costituzionale. In particolare, la delega al governo per la ricognizione dei princìpi fondamentali nelle materie di legislazione concorrente può costituire un significativo strumento per consentire di definire le regole del gioco in quell’area amplissima coperta dalla legislazione concorrente, ricostruendo i confini delle materie ed effettuando la ricognizione dei princìpi esistenti. Sempre per quanto riguarda l’attuazione non può non essere sottolineato che sono tuttora inesplorati – anche in ragione della difficile contingenza economica nazionale e mondiale – i problemi del cosiddetto “federalismo fiscale” e dell’attuazione dell’art. 119 della Costituzione. I princìpi contenuti nel nuovo testo sono articolati e possono essere variamente modulati e interpretati: ciò che va sottolineato è che, ferme le esigenze di solidarietà, un federalismo senza risorse rischia di innescare un fenomeno perverso in cui i livelli territoriali di governo, non in grado di gestire e costruire politiche economiche e sociali, si limitano ad operare per la preservazione degli apparati. Il principale intervento costituzionale sul vigente Titolo V dovrà riguardare la ripartizione della potestà legislativa tra Stato e Regioni, con particolare riferimento al modello di legislazione concorrente ivi adottato.

Un percorso istituzionale non solo parlamentare

E' ormai critica condivisa quella rivolta al comma 3 dell’art. 117: si tratta, da un lato, di ridurre il numero delle materie di legislazione concorrente, creando nel contempo meccanismi di più netta attribuzione delle competenze a Stato e Regioni; dall’altro, di modificare il criterio di riparto, adottando il modello della konkurrierende Gesetzgebung tedesca, che su di un significativo spettro di materie permette l’intervento legislativo statale (con il concorso del Bundesrat!) ogni volta in cui una disciplina federale sia resa necessaria dalla creazione di condizioni di vita omogenee nel territorio della federazione ovvero dalla tutela dell’unità giuridica ed economica nell’interesse complessivo dello Stato. Altri profili di riforma sarebbero sicuramente degni di attenzione, ma si tratta di aspetti che possono essere affidati ad una discussione più tecnico-giuridica. 

La costruzione di federalismo equilibrato, solidale e funzionante non passa solo per le aule parlamentari. Coinvolge in realtà la stessa organizzazione sociale ed economica del Paese che deve attrezzarsi ed organizzarsi per tener testa alla nuova distribuzione del potere. Ma soprattutto chiama in causa il livello politico regionale. Le classi politiche regionali devono dimostrare di saper gestire i nuovi amplissimi compiti che la riforma del Titolo V ha loro affidato, devono dar prova di essere accurati legislatori, rispettosi delle norme costituzionali e degli obblighi internazionali e comunitari, attenti alle esigenze di solidarietà e di stabilità economica. Devono, soprattutto, svolgere il compito, loro commesso, di scrivere originali, ma nel contempo armonici ed equilibrati statuti regionali, uscendo dal gorgo di un dibattito avvitato solo ed esclusivamente sul rapporto tra presidente e Consiglio: altrimenti, un’altra riforma che toccherà prendere in considerazione sarà quella dell’eliminazione, negli artt 122, 123 e 126, della discrezionalità regionale nella determinazione della forma di governo.

23 maggio 2003

(da Ideazione 2-2003, marzo-aprile)