Per fortuna andavamo al ristorante...
intervista a Lino Jannuzzi di Eugenia Roccella

Non potrò, in questa intervista, fingere imparzialità, nascondermi dietro domande asettiche. Intanto perché con i racconti di Lino Jannuzzi, e su Lino Jannuzzi, io ci sono cresciuta. E poi perché fin da bambina, quel gruppo di ex ragazzi tirati su a pane e goliardia, tutti provinciali di belle speranze venuti ad arricchire la capitale, a me sembrava la quintessenza del fascino intellettuale, un modo di concepire la politica, e anche solo la conversazione, che non ho più ritrovato in alcun luogo. Non sapevo bene cosa significasse quella sigla, Ugi, che ricorreva nei loro discorsi; capivo, però, che definiva il loro modo di stare insieme, di lanciarsi strali acuminati e ironie imperdibili, di separarsi e ritrovarsi di continuo, accomunati da qualcosa che poteva essere lacerato molte volte senza distruggersi definitivamente. 

Mio padre, Franco Roccella, in quel gruppo ha sempre occupato un ruolo in ombra ma centrale, essendo stato la vera fucina di pensiero dell’Unione goliardica dei tempi d’oro. Marco Pannella giganteggiava, fisicamente e caratterialmente; l’unico a seguire con incrollabile ostinazione il suo percorso, la sua avventura umana totalmente calata nella politica. Poi c’erano Sergio Stanzani, Gino Giugni, Gino Roghi, Giorgio Festi, Alberto Spreafico, molti altri. E naturalmente, Lino Jannuzzi. Oggetto, bisogna dirlo, di accuse roventi e difese appassionate. Mio padre si collocava, con qualche momento di irritazione, dalla parte delle difese appassionate. Non entrerò nell’infinita catena di aneddoti: Lino che fa il delegato vietnamita a un congresso socialista: le sarabande di fuochi d’artificio ai convegni dell’Ugi; l’attacco a cavallo contro la Repubblica di San Marino; le scommesse arrischiate; le mille imprese spavalde o ribalde (a seconda di chi le narra e le commenta). Per le leggende rimandiamo alla bibliografia apposita, Jannuzzi raccontato da se medesimo, ma trascritto da Mattia Feltri con penna felicemente ironica e spudoratamente agiografica. La storia delle avventure del nostro eroe, impreziosite dal controcanto delle vignette di Vincino, è stata prima pubblicata a puntate sul Foglio, poi, per gli amici, anche in volume. Eppure, nonostante la fama, certamente meritata, di guastatore, a me Lino è sempre parso un vero saggio: caldamente partecipe, dietro lo schermo del suo esibito disincanto, delle vicende del mondo; cultore della famiglia, e, a modo suo, fedele alle cose che contano. Di sicuro, è un grande giornalista. Lo è stato fin dai tempi dello scoop sullo scandalo Sifar, quando ancora scriveva sull’Espresso; poi con la breve ma intensa stagione di Tempo illustrato, e ancora come direttore di Radio radicale, con gli emozionanti fili diretti insieme a Leonardo Sciascia, per trattare la liberazione di Mario D’Urso. Lo è oggi più che mai, di fronte a una magistratura che, oltre a tenere sotto costante minaccia i politici, mette in crisi la libertà di stampa grazie a processi per diffamazione con richieste di risarcimento miliardarie. Jannuzzi è sempre lì, ironico ma puntiglioso baluardo anti-giustizialista. Meno male che c’è. 

Tu come sei approdato all’Unione Ggoliardica italiana?

Io arrivai attraverso le feste della matricola, poi a Bologna conobbi Sergio Stanzani, Bobo Rossi, e soprattutto Franco Roccella. Sono entrato nell’Università di Napoli a 17 anni, nel ’44, quando c’erano ancora gli americani, anche se stavano per andarsene. Però non ero presente quando ci fu l’incontro di fondazione dell’Ugi, a Venezia, nel ’46. Ma Franco mi aveva già dato il preambolo, l’avevo letto.

Ti riferisci alla famosa dichiarazione stilata dai cosiddetti Prìncipi della Goliardia, quella che inizia con “Goliardia è cultura e intelligenza, è amore per la libertà e coscienza della propria responsabilità...”. Quel testo chi l’ha scritto?

Franco Roccella.

Solo lui?

Solo lui. Noi eravamo rozzi, incolti... forse l’unico oltre Franco che non fosse un ignorante era Bobo Rossi.

E Pannella?

Uh, Pannella era il più ignorante di tutti.

Qual era, nell’immediato dopoguerra, la situazione politica nell’università, quanto contavano il peso e la presenza dei partiti?

Nell’università non c’era granché nei primissimi anni, anche perché i partiti non avevano modo di manifestarsi, non essendoci ancora le elezioni universitarie. C’erano le sinistre, il Cudi, cioè i comunisti e i socialisti insieme, ma anche loro si organizzarono seriamente solo in vista delle elezioni. C’era la Fuci, l’organizzazione cattolica, l’unica che non fosse stata sciolta durante il fascismo. E poi c’erano le associazioni goliardiche, con gli ordini goliardici e i loro rituali. Ma era tutta una cosa informe, in cui si coabitava disordinatamente, tanto che al congresso studentesco internazionale di Praga la delegazione italiana non era divisa per partiti, e si spaccò proprio lì, mi pare nel ‘47. A Praga la parte maggiore nel provocare la rottura, la fece Bobo Rossi. La Fuci e i Goliardi si separarono dai socialisti-comunisti del Cudi, e questo preparò la strada alla nascita dell’Ugi.

E’ stato questo il passo decisivo verso la creazione degli organismi di rappresentanza degli studenti, la cosiddetta democrazia universitaria?

Ma, sai, è stato un cammino molto lento, faticoso. Ci fu una prima riunione a Roma, in cui si decise di organizzare elezioni democratiche, per avere una rappresentanza; preparammo le elezioni attraverso moltissime riunioni, ma gli studenti che vi partecipavano rimasero sempre una minoranza. Fino a quel momento le elezioni si erano svolte, in modo molto approssimativo, all’interno delle associazioni goliardiche. Ci fu una notevole resistenza tra il ’46 e il ’48, quando facemmo l’Unuri, il parlamento universitario: in molte università non si riuscì ad organizzare le elezioni. Molti di noi non erano affatto d’accordo, ritenevano che questo processo avrebbe necessariamente portato i partiti dentro le università. Direi che il punto di svolta fu il congresso di Perugia, nel ’48, in cui fu costituito l’Unuri. Tra l’altro lì arrivarono, con una folta delegazione che nessuno si aspettava, radicata soprattutto nel Sud, anche quelli Fuan.

Perché c’era tra di voi questa diffusa e ostinata volontà di tenere i partiti fuori dall’università?

La tesi dei puri era di ripristinare l’associazionismo universitario pre-fascista, non per fare finta che non fosse successo niente, ma per tornare a una visione libera della cultura, del suo valore autonomo. Era in fondo una riscoperta, dopo gli anni del fascismo, della libertà della critica e del pensiero, una libertà che aveva certamente un significato politico, ma fuori dai partiti e dalla disciplina dei partiti. La presenza dei partiti era vista, al contrario, come un rischio di condizionamento e colonizzazione, in opposizione a questa nostra idea dell’indipendenza intellettuale. 

Ma di fatto voi avete creato le condizioni per l’ingresso della politica nell’università, nonostante gli slogan anti-partito e le preoccupazioni per la libertà della cultura.

No, ti sbagli. Noi non volevamo portare la politica nell’università, nei nostri scritti non c’era mai la parola “politica”, non apparteneva al nostro linguaggio: se rileggi i documenti dei Goliardi, vedrai che non ce n’è traccia. Noi parlavamo solo di libertà della cultura, ma certo di una cultura profondamente legata al senso della responsabilità civile. Si era creato un divario, perchè con la caduta del fascismo noi avevamo scoperto la libertà attraverso la cultura, mentre fuori dalle università molti l’avevano scoperta attraverso i partiti: la differenza era notevole. Tra gli studenti c’era chi sosteneva: se le facessero loro (cioè gli studenti legati ai partiti) le elezioni, noi ci teniamo la nostra vita associativa. Ma così facendo noi saremmo stati penalizzati, non fosse altro che nelle questioni economiche; insomma non avremmo avuto una lira e nemmeno qualche forma di riconoscimento. Il nostro ragionamento invece era: dobbiamo sviluppare le posizioni anti-ideologiche e antipartitiche essendo però presenti nell’organizzazione della rappresentanza. Tanto più che alle prime prove elettorali dimostrammo di essere forti almeno quanto l’Intesa, che riuniva la Fuci, l’azione cattolica e il movimento giovanile della Dc.

Oggi però questa impostazione si leggerebbe in termini di antagonismo tra politica e società civile.

L’idea di rappresentare la società civile non c’era affatto, perché noi, come ti ho detto, rimanevamo dentro una definizione di libertà e autonomia del discorso culturale. La scelta anti-partitocratica, invece, era consapevole.

Si è detto, e scritto, che l’Ugi è stato il luogo privilegiato di formazione della classe dirigente del dopoguerra. Secondo te questa interpretazione è vera?

Con molte limitazioni. Intanto era un modo di formazione che fu sconfitto, perché poi la crescita politica e i posti di potere passarono attraverso i partiti. Pannella direbbe, forzando le cose, che l’unica forma di continuità con l’Ugi è il Pr; ha sempre sostenuto questa tesi, anche se, naturalmente, gli attuali leader del Pr non sanno nemmeno che l’Ugi è esistita. In realtà lui è stato il più coerente, perchè alla metà degli anni Cinquanta è tornato alla polemica anti-ideologica iniziale, esasperandola. Nonostante fosse il presidente dell’Unuri, cominciò a dire: nell’Ugi devono entrare tutti, cattolici, comunisti, non ce ne frega niente. Naturalmente finì che così morì l’Ugi, perché i partiti ormai c’erano davvero, e aprire voleva dire perdere quella condizione di particolare autonomia di cui godevamo. Ma anche dopo, nel Pr, lui ha sempre sostenuto questa tesi, infatti si è inventato le doppie tessere.

Pannella cita continuamente anche un altro slogan che ha caratterizzato il periodo iniziale della Goliardia: “non l’unità delle forze laiche, ma l’unità laica delle forze”.

Quello era uno slogan di Franco Roccella per far capire come l’Ugi, che spesso veniva sommariamente identificata come la rappresentanza dei partiti laici (con l’aggiunta dei socialisti, che a un certo punto si erano staccati dal Cudi) non fosse assolutamente questo. L’unità laica delle forze rimandava di nuovo a una priorità culturale (la laicità) rispetto alla logica partitica (le forze laiche). D’altronde non c’era proporzione tra la nostra forza nell’università e quella nel paese dei partiti laici, molto più ridotta. 

Cos’è che provocò la rottura del vostro gruppo, alla fine?

Pannella dette la scalata all’Ugi contrapponendosi a Franco Roccella, proprio su quello slogan, utilizzato, come ti ho detto, in forma estremistica. Franco continuava a dire: sì, figurati, te l’ho insegnata io l’unità laica delle forze. Noi all’università siamo la prima, al massimo la seconda forza, e fuori saremmo niente se ci limitassimo a rappresentare la proiezione studentesca dei tre partiti laici. Ma da qui a far entrare tutti ce ne corre, l’apertura si rovescerà fatalmente nel suo opposto, una paralisi inconcludente. Infatti i comunisti, che nell’università, dopo l’abbandono dei socialisti, erano ridotti al lumicino, annusarono la possibilità di salvarsi e si precipitarono ad entrare. I cattolici invece risposero con un pernacchio, e così, con l’entrismo comunista, si dissolse tutto. Franco invece era favorevole alla costituzione di un’associazione di laureati dell’Ugi, che fosse un ponte verso il dopo università, sostanzialmente allo scopo di portare il progetto elaborato all’interno dell’Ugi fuori dall’ambito studentesco, riversandolo nella politica. 

C’è un saggio di Giovanni Orsina che analizza lo scontro interno al vostro gruppo in questa chiave. Sostiene che quelli che volevano costituire l’associazione dei laureati, dopo aver portato «i partiti fuori dall’università», avrebbe voluto portare l’università, cioè l’Ugi, e soprattutto la sua elaborazione teorico-politica, dentro i partiti. Quello che ricordo io, sono certe interminabili polemiche sulle cause della dispersione del gruppo. Mio padre sentiva la pena di un’occasione mancata: aveva l’idea che un nucleo così compatto, con un progetto culturale e politico originale, avrebbe potuto esercitare un peso condizionante nei confronti dei partiti.

Forse aveva ragione, ma noi eravamo tutti stanchi, dopo tanti anni di goliardia e di impegno universitario. Solo Marco aveva la forza personale, la cocciutaggine necessaria ad andare avanti. E lui invece era contrario a un’ipotesi di questo tipo, e accusava Franco, sotto sotto, di voler svuotare l’Ugi con l’associazione laureati, magari per portare il gruppo nel partito socialista. Ma la verità vera, secondo me, è che non ci voleva nessuno.

Allora l’idea dell’Ugi come laboratorio della classe dirigente del dopoguerra è solo un mito?

Certo, c’è stato Craxi che è diventato segretario del Psi e poi presidente del Consiglio, e poi altri socialisti, De Michelis e più tardi anche Martelli; qualche laico come Del Pennino, e il giovane La Malfa, il cui padre era notoriamente uno dei nostri santi protettori. C’è stato anche qualche democristiano importante, soprattutto nell’era Zaccagnini... benché i migliori fra i cattolici fossero, secondo me, quelli della prima ondata: Galdo, Agostino Greggi... C’è stato persino qualche comunista “prestato” all’Ugi: pochi ricordano che fu Achille Occhetto a sciogliere l’organizzazione comunista universitaria per entrare nell’Ugi, anche se certo non è mai stato un goliarda. Mettendo tutti questi nomi in fila, è nata una leggenda. Eppure, alla fine i nomi davvero importanti saranno al massimo una mezza dozzina. Capisco che se uno dice: il capo dei comunisti, il capo dei socialisti, il capo dei repubblicani, il capo dei radicali, qualche vice capo democristiano, l’elenco può fare impressione.

Sarà solo un’impressione, però ammetti anche tu che i nomi non sono da poco. Ma almeno quest’idea di una diffusa rete di rapporti che nel tempo è rimasta in piedi, è vera?

C’è la sensazione che siano passati tutti di là perché ci siamo dispersi in un arco politico vasto, ma non si è mai trattato di una massoneria, e men che meno di un gruppo di potere, almeno per quelli della nostra generazione.

Ci sono stati però molti professori universitari, avvocati, professionisti... anche questa è classe dirigente.

In questo senso sì, ma non siamo mai stati un clan, una mafia, perché ognuno continuava il suo percorso individuale, senza fare riferimento al gruppo. Non c’era un senso di appartenenza paragonabile all’Opus Dei, alla massoneria, nemmeno a Comunione e Liberazione, dove lottano duramente all’interno ma poi prevale lo spirito di corpo... Certo c’era amicizia, consuetudine, i percorsi si sono incrociati più volte, magari per caso, come per me con il Psi, seguendo alla fine la strada che aveva imboccato Franco. Ma il gruppo si è diviso, perché c’era stata una comunanza esistenziale ma non ideologica; siamo andati in partiti diversi, per strade diverse, e abbiamo sempre avuto atteggiamenti di critica esplicita, di opposizione netta, anche molto dura, l’uno nei confronti dell’altro.

Fammi qualche esempio. 

Per esempio con Pannella. Il gusto della critica, e forse anche della presa in giro, che avevamo sviluppato, era così forte che non ce ne risparmiavamo nessuna. Ci spingeva l’entusiasmo per la scoperta della democrazia, che includeva i giochi, i procedimenti, i meccanismi della politica, persino i suoi più bassi trucchi... Ti racconto un episodio che Marco non mi ha mai perdonato. Al congresso del Partito radicale...

A quale congresso e a quale Partito radicale ti riferisci?

Al partito di Pannunzio, naturalmente. Di congresso veramente importante, dopo la scissione dei liberali, ce n’è stato uno solo, qui a Roma, perché poi un anno dopo Pannunzio sciolse il partito, e Pannella si fregò il simbolo e lo riaprì. Doveva essere il ’61. In quel congresso io feci saltare Pannella e tutti i suoi... mi dispiacque solo per il povero Mauro Mellini. Perché con quel sistema elettorale la schiacciante maggioranza la prendeva la lista dei capi, il gruppo di Pannunzio, Libonati, ecc. e la minoranza toccava certamente alla sinistra di Marco. Io, che a quel congresso ero schierato su tutt’altre posizioni da quelle di Marco, faccio un po’ di conti. Oltre a me c’erano Giovanni Ferrara e Stefano Rodotà, e dovevamo essere eletti nella lista di maggioranza. Mi accorgo subito che Pannunzio aveva molti più voti di quelli che gli servivano, e gli propongo di fare una lista di disturbo, facendomi prestare un po’ dei suoi voti in soprannumero, solo per fregare Pannella. Così ci furono due liste di minoranza, e loro – Pannella, Bandinelli, Spadaccia e gli altri – furono estromessi dal Consiglio nazionale... non ebbero nemmeno un seggio. 

Posso capire che ci sia stata una punta di risentimento...

Non lo feci in una chiave di potere, non era certo un partito di governo, era un piccolo partito d’élite. Era un puro gioco politico, in una dimensione di assoluta minoranza, ma per Pannella era importante... se Pannunzio non avesse poi sciolto il partito, lui non so cosa avrebbe fatto. Questo per dirti che come coesione di gruppo lasciavamo un po’ a desiderare, erano rapporti individuali, liberi in modo anche feroce.

Con Marco Pannella però tutti voi, anche tu, vi siete ritrovati mille volte insieme e mille volte l’uno contro l’altro.

Lui poi fece una lunga traversata del deserto, fino agli anni Settanta. Devo dire che almeno in un’occasione ho rimediato, perché nelle elezioni del ’75 il quoziente per far scattare i seggi gliel’ho dato io: cosa che naturalmente lui non ha mai voluto riconoscere. Il quorum che gli serviva lo prese a Roma e nel Lazio, e lo prese perché io allora ero uscito dall’Espresso con una quindicina di giornalisti, e avevamo fatto Tempo illustrato. L’operazione era stata possibile grazie a Giacomo Mancini, il giornale era nato per appoggiare i socialisti, e noi scatenammo una campagna furibonda: ogni settimana una bomba sui diritti civili, contro il compromesso storico, pubblicità alle iniziative radicali... Vendevamo sulle 100.000 copie – il che significa che sei letto più o meno da mezzo milione di persone – e i nostri lettori erano concentrati soprattutto a Roma e nell’Italia centrale; fummo decisivi per l’ingresso in Parlamento di Pannella e dei suoi.

Secondo te, l’elaborazione culturale, il progetto laico e liberale dei Goliardi, che eredità ha lasciato nella politica italiana?

La verità è che nonostante la diaspora, l’omogeneità culturale era forte, questo sì: la mia cultura è quella di Marco Pannella e di Franco Roccella. Siamo sempre rimasti dentro un filone storico molto ben definito, che è quello sostanzialmente liberale, o se vuoi liberal-socialista, anche se la dizione non mi piace, è equivoca. Certo, Marco, poi, è un guru, uno che stravolge il senso di quella cultura. Se, come lui ha sempre detto, il partito deve riprodurre in piccolo l’organizzazione sociale ideale, deve essere cioè un concentrato di libertà... be’ tu capisci che siamo fritti. Ti rendi conto della situazione che una proiezione del genere produrrebbe se realizzata: la Rai come radio radicale, e forse nemmeno, visto che adesso manda in onda le sedute del Parlamento perché se no non gli darebbero i soldi per campare... Insomma, se affermi che l’Ugi ha formato la classe dirigente laica, considerando gli esiti di impronta religiosa (diciamolo pure tra virgolette) del suo più diretto erede, Pannella, vedi che ti imbatti subito in forti contraddizioni.

Tu come riassumeresti, allora, il contributo dato dalla Goliardia alla politica e alla cultura italiana?

Direi che siamo più vicini al vero se ci limitiamo a constatare che l’Ugi ha fornito una rispettabile presenza di classe dirigente a vari livelli – in percentuale sempre minoritaria – e ha distillato nel sangue di tutti noi, in dosi molto diverse, gocce di laicismo: non puoi andare oltre. Forse si potrebbe fare un altro discorso: ma gli altri che hanno fatto, di più e di meglio? Cosa hanno prodotto quelli che hanno preso il potere per cinquant’anni, o quelli che hanno monopolizzato l’opposizione per cinquant’anni? E qui bisogna ammetterlo: hanno fatto molto meno e molto peggio di noi, almeno in termini di qualità e di durata culturale.

Proviamo a dare qualche spiegazione. Sul piano culturale, tu dici, l’Ugi ha prodotto solo una minoranza di qualità, senza riuscire a influenzare la politica vera, e nemmeno le generazioni studentesche, perché il liberalismo, il laicismo, sono stati fuori gioco per tanti anni. La cosiddetta democrazia studentesca è stata falciata in pochi mesi dal ’68 e dall’ideologia marxista. Nella società italiana, e persino nell’università – dove pure i professori provenienti dalla vostra esperienza erano in numero considerevole- non avete lasciato grandi tracce... spiegami perché.

Non so se ricordi la classificazione che faceva Benedetto Croce: c’è la grande cultura, fatta da pochi, c’è lo sterminato analfabetismo – chiamiamolo così – e poi c’è la mezza cultura, che ha un peso enorme; nell’ambito della mezza cultura i partiti, e soprattutto il Pci, si sono presi tutto il prendibile.

E’ per questo che avete perso la battaglia culturale?

Sì: noi non avevamo la mezza cultura. Avevamo punte di grande cultura, e poi la massa degli ignoranti, come ti ho detto all’inizio; il “genuino”, come diceva Croce, che metteva le mani avanti: per carità, con la mezza cultura mai! Posso dialogare con gli analfabeti, ma con la mezza cultura mai. Le grandi intelligenze, naturalmente, erano minoranza, e sono state marginalizzate; gli analfabeti sono stati facilmente vinti, schiacciati, o ridotti al silenzio dal “culturale” (Scelba, che li chiamava così, non aveva poi tutti i torti).

Però, dopo tanti anni di messa al bando, la cultura liberale è riemersa, come se avesse vissuto sott’acqua, fino ad essere accusata di una nuova egemonia, di costituire un “pensiero unico”. I comunisti sono stati costretti a mascherare le proprie origini, tutti hanno dovuto rileggersi certi autori, fare i conti con il liberalismo.

E’ vero. Tutto questo però è stato determinato in gran parte dal crollo della Prima Repubblica, dal modo in cui i giudici hanno fatto piazza pulita dei partiti; bisognava inventarsi una cultura che non fosse stata coinvolta nel crollo. Poi è stato determinato dalla situazione economica internazionale, che spingeva in direzione reganiana, liberista, mentre questo Paese in trent’anni di Dc era stato quasi completamente “irizzato”; e poi, ancora, è stato determinato dalla cultura delle televisioni private... cioè da Berlusconi.

Non ti pare che abbia agito anche un filo sotterraneo di continuità, che nel lungo periodo ha dato i suoi frutti?

Ma sì, però questo alla fine succede sempre...

Non tanto. Pensa alla Dc: ha avuto tanto potere, è stata tanti anni al governo, e poi la cultura cattolica ne è uscita a pezzi. Voi invece siete stati emarginati, ma alla fine la cultura liberale ha vinto.

Guarda, la Dc ha dato fin troppo per quello che era... fin troppo! Gli esponenti politici del mondo cattolico erano di gran lunga più colti, più capaci dei loro esponenti culturali. 

Forse la conclusione è proprio questa, che la loro cultura l’hanno interpretata tutta in chiave politica.

Sì, tutto quello che hanno realizzato di buono l’hanno fatto in politica. De Gasperi prima di tutto, e poi anche una certa sinistra, non quella della base, piuttosto quella cresciuta intorno a Donat Cattin, che da una parte era vicina ai sindacati, ma dall’altra era molto autonoma.

Insomma, tu non vedi nella cultura politica attuale una grande eredità dell’Ugi?

Se devo essere sincero, no.

Come al solito sei molto riduttivo: a sentire te non facevate politica, cultura nemmeno perché eravate una massa di ignoranti, clan per carità, perché eravate degli individualisti... praticamente l’Ugi era solo un circolo d’amici per andare al ristorante!

E’ così. Certo, ci sono stati quelli che hanno studiato, hanno fatto i professori, hanno scritto libri... ma la maggior parte di noi, quello che ha imparato in quel periodo l’ha imparato nei ristoranti. Noi li chiamavamo taverne per fare finta di essere gli eredi degli “scholari” della tradizione medievale. Ma su questo non ci sono dubbi di sorta: per fortuna abbiamo vissuto insieme... per fortuna.

9 maggio 2003

e.roccella@katamail.it

(da Ideazione 2-2003, marzo-aprile)