Guerra perenne e terrorismo psicologico
di Cristina Missiroli
Uno spettro si aggira per i campi del luogo-comunismo pacifista. Quello
della guerra perenne, figlia della guerra preventiva. Con la quale - si
dice - gli americani terranno sotto scacco, per chissà quanti decenni,
tutto il resto del mondo. E già si intravedono scenari di bombardamenti a
tappeto su Teheran e Damasco, ma anche sulla Libia e il Sudan. Per non
parlare delle prevedibili vendette americane contro i paesi europei che si
sono schierati contro la guerra. Persino Mario Pirani (complice forse un
cuore che romanticamente continua a battere per Parigi) è caduto nel
tranello. Tanto che, dalle colonne di “Repubblica”, ha lanciato un grido
d’allarme che suona pressappoco così: per esportare la democrazia, gli
americani rischiano di gettarci in un nuovo terrificante conflitto
mondiale.
Per dare corpo alla sua riflessione, Pirani cita un recente articolo di
James Woolsey, ex capo della Cia e oggi membro del Council Defence Board
di Donald Rumsfeld: “Siamo entrati nella quarta guerra mondiale –
sosteneva Woolsey - Più che la guerra contro il terrorismo si tratta di
estendere la democrazia alle parti del mondo arabo e mussulmano che
minacciano la civiltà liberale. E’ certo che questa guerra durerà più
tempo del primo e del secondo conflitto mondiale”. Non c’è dubbio che
l’idea di un nuovo conflitto mondiale faccia accapponare la pelle a
chiunque. Ma, come fa notare lo stesso Pirani, Woolsey parla di “quarta”
guerra mondiale: dopo le prime due e la guerra fredda. Il che vuol dire
che non occorre l’uso effettivo delle armi per considerarsi immersi in un
conflitto. Come per la guerra fredda, la quarta guerra mondiale descritta
da Woolsey non comporta necessariamente la messa in campo degli eserciti.
Almeno dopo questa prima fase irachena. Per quanto suggestiva nell’ottica
degli anti-americani di professione, infatti, l’ipotesi di estendere il
conflitto armato a tutti gli stati canaglia è decisamente al di là da
venire. Non solo per motivi economici (il costo sarebbe altissimo), ma
anche per motivi politici, diplomatici e, persino, elettorali. Per le
democrazie moderne il costo di una lunga guerra, soprattutto non condivisa
dagli alleati, è assolutamente insostenibile. Se gli esponenti della
sinistra apocalittica si degnassero si seguire il dibattito in atto a
Washington e i movimenti (per nulla segreti) della diplomazia americana ed
inglese, forse si tranquillizzerebbero. Ed eviterebbero di seminare un
panico insensato.
Sono proprio i falchi dell’amministrazione americana quelli che oggi
lavorano per cancellare l’immagine imperialista degli Usa che sembra tanto
di moda in Europa. Proprio i falchi vicini al Pentagono non perdono
occasione per spiegare che Washington non ha alcuna intenzione di
colonizzare Baghdad né di seminare il panico in tutto il Medio Oriente.
“Non si può parlare di democrazia per poi fare dietrofront e dire:
sceglieremo noi i leader di questo paese democratico” ha detto qualche
giorno fa Paul Wolfowitz, vice del segretario alla Difesa Usa, Rumsfeld.
Lo stesso Wolfowitz (che i media italiani dipingono come il falco dei
falchi dell’amministrazione Bush) ha spiegato chiaramente al Congresso Usa
che occorre mettere l’Irak in grado di fare da sé il prima possibile.
Dalle colonne del “Washington Post”, un altro falco, Robert Kagan, ha già
spiegato che Bush, dopo aver brillantemente vinto la campagna militare in
Iraq, può vincere anche la pace. Ma solo attraverso un’intelligente
campagna diplomatica. Il che vuol dire prima di tutto non cedere alla
tentazione di imporre uomini di cui si fida in Iraq. Ma soprattutto vuol
dire non cadere nella trappola di punire troppo duramente quei paesi
europei che si sono opposti all’attacco a Saddam. Perché – spiega Kagan -
non è interesse degli Stati Uniti agire per dividere l’Europa, né per
gettare la Germania tra le braccia della Francia, né, tanto meno, rompere
i legami con l’unica democrazia islamica, quella turca. Non è un caso se
la diplomazia inglese e quella americana stiano proprio in questi giorni
lavorando per coinvolgere Siria e Iran nella ricostruzione irachena.
Perché la democrazia (che la sinistra italiana ci creda o meno) può essere
contagiosa.
14
aprile
2003
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