Una politica del digitale per il Mezzogiorno
di Andrea Gumina
Le politiche di coesione del nostro paese sono state storicamente fallaci,
principalmente per due motivi: il primo riguarda la capacità di
programmazione e di spesa dei nostri policy maker. In questo senso, il
gruppo di Miccichè ha ottenuto risultati gratificanti, coadiuvando le
Regioni nel raggiungimento del pieno utilizzo delle risorse messe a
disposizione nel primo triennio del QCS 2000-2006. Il secondo ordine di
problemi riguarda, invece, la finalizzazione della spesa, cioè il suo
utilizzo intelligente, adeguato quindi ad apportare positivi cambiamenti
nella produttività totale dei fattori delle aree più arretrate. Sotto
quest’altro aspetto, in effetti, i risultati sembrano essere tutti da
verificare: anzitutto, perché non c’è mai stata una cultura del
risultato – cioè perché nessuno si è mai preoccupato di analizzare se
e come l’intervento pubblico si sia tradotto in una crescita coerente e
di lungo periodo del territorio; secondariamente, perché non si è mai
disposto di una struttura in grado di programmare, al di fuori della
carta, azioni coerenti con una politica industriale che valorizzi le
competenze e le risorse – naturali e intellettuali – delle zone
depresse.
Alla vigilia della riprogrammazione degli interventi finanziati per il
trienno 2003-2006, vale la pena riflettere sulla finalizzazione di un’adeguata
dose di risorse per lo sviluppo di un vero settore ICT nel Mezzogiorno.
Gli interventi dovrebbero mirare a creare i presupposti per una crescita
di PMI ed imprese sociali tecnologiche, ed in seconda battuta, a
consentire la localizzazione di grandi imprese del settore. Dal punto di
vista economico, gli effetti sarebbero decisamente notevoli, perché mai
come oggi le ICT promettono di pervadere l’intera gamma delle attività
umane: dall’education alla salute, passando per l’e-democracy ed il
settore industriale. Godere di un diffuso e capillare settore dell’innovazione
tecnologica comporta riflessi particolarmente elevati sul produttività
del paese. E’ indubbio, difatti, che sia oggi proprio la competitività
immateriale a innalzare permanentemente il sentiero di sviluppo di un’area.
La creazione di distretti tecnologici nel Sud dovrebbe divenire un vero e
proprio obiettivo di politica economica per il governo. Il modello da
applicare sarebbe ovviamente quello “a rete”, in grado cioè di
valorizzare le sinergie tra mondo produttivo, università, pubbliche
amministrazioni: oltre a garantire la diffusione più ampia possibile
delle conoscenze, questo modello è l’unico in grado di consentire un
mix adeguato di intervento pubblico e di intrapresa privata. L’Action
Plan di e-Learning può rappresentare un punto di riferimento nell’attuazione
di queste politiche: il mix pubblico-privato si basa sulla concorrenza di
strumenti a fondo perduto, finanziamenti a tasso agevolato, investimenti
privati. Da questo punto di vista, il parco di strumenti a disposizione è
quanto mai vasto: iniziative comunitarie, fondi strutturali (FESR e FSE),
cofinanziamento nazionale, finanziamenti del Fondo Europeo per l’Innovazione
(BEI) possono da un lato essere adeguatamente “messi a sistema” con
politiche per il marketing territoriale; dall’altro possono costituire
un volano per lo sviluppo di nuova imprenditoria locale e per la nascita
di “centri di competenza” sulle numerose criticità dell’Information
Society.
In tale quadro, il dipartimento delle Politiche di Sviluppo e Coesione
può giocare un ruolo di grande rilievo – il suo ruolo – nel
coordinare verso un obiettivo comune e “strategico” le policy di PA
centrali e locali, e anche nel rilanciare quello sviluppo dal basso che
dovrebbe garantire una collaborazione tra tutti gli attori del sistema
economico. Il Sud può trovare nell’economia digitale un volano di lungo
periodo, per la crescita di un comparto industriale ad elevata
competitività e per la valorizzazione di numerose risorse umane presenti
sul suo territorio: per far questo, però, serve una regia efficace dell’intero
intervento. Sarebbe un passo in avanti importantissimo per il nostro paese
– che definirebbe una linea chiara per riguadagnare il suo gap di
competitività – e per un’Europa che, sin dal vertice di Lisbona,
sostiene, finora solo a parole, di voler divenire la più grande economia
della conoscenza al mondo.
11
aprile
2003
a.gumina@libero.it
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