Le istituzioni da cambiare
di Giorgio Rebuffa

Siamo ormai oltre il decimo anno da quando il crollo delle vecchie classi politiche e la trasformazione del sistema elettorale ha trasformato il tema della riforma della Costituzione in tema politico. Le due ultime legislature si sono annunciate come legislature costituenti ed hanno impostato, con buone intenzioni, seri progetti. Grandi aspirazioni e grandi energie sono però state dissolte, rendendo quello che è stato chiamato “il paradosso del riformatore” (è impossibile che un soggetto costituzionale riformi se stesso), quasi una malattia cronica. E’ inutile chiederci le ragioni del fallimento di queste aspirazioni, anche perché non sono del tutto chiare. E' chiara soltanto la fotografia di un gruppo di giocatori immobili, che dichiarano azioni che poi non sviluppano. Altrettanto chiaro è il fatto che il discorso sulle riforme è divenuto quasi esclusivamente uno strumento della retorica politica, pronunciato più per tenere alta la tensione e gestire la polemica tra le parti, che per riformare. In questo modo nel corso delle due ultime legislature si sono creati equivoci e trappole, rendendo la prospettiva delle riforme costituzionali di scarsa decifrabilità ed incapace di coinvolgere l’opinione pubblica. Naturalmente le prime vittime degli equivoci sono quei dirigenti politici, a destra come a sinistra, che hanno creduto che parlare di riforme fosse la stessa cosa che farle. Le riforme costituzionali fin qui fatte, timidamente e sotto l’incalzare di qualche emergenza, non hanno intaccato il nocciolo della questione, che è quello del rapporto tra Parlamento e governo.

Al punto in cui siamo arrivati, ci sono poche cose da fare. In primo luogo individuare i soggetti che hanno un interesse primario alla trasformazione costituzionale. Gli strumenti normativi più idonei per raggiungere gli obiettivi sono quasi indifferenti, ciò che conta è che i soggetti interessati arrivino alla decisione. Dal punto di vista politico serve che qualcuno si faccia carico della “decisione costituente”. Decisione che – è opportuno ricordarlo – non può essere assunta da soggetti istituzionali, ma da soggetti politici che siano in grado di guidare un Parlamento sui temi delle riforme, più frantumato di quanto sembri, e di rassicurare l’opinione pubblica nei confronti dell’obiettivo della stabilizzazione maggioritaria. E’ ovvio che una razionalizzazione del nostro sistema politico tale da garantire la stabilità (governi di legislatura) e la governabilità – cioè governi che siano in grado di guidare il processo legislativo e non che lo subiscano (come accade ancora oggi) è cosa che farebbe bene a tutti, al di là delle paure, delle grettezze e dei calcoli modesti. Alcuni soggetti avrebbero, però, dal compimento del sistema maggioritario un surDaily di vantaggio politico. Sono quelle forze che dal meccanismo maggioritario traggono maggiore legittimazione perché, almeno formalmente, escluse dai governi della Repubblica, possono credibilmente presentarsi come soggetti dell’alternanza. O forse, più semplicemente, perché il sistema maggioritario fornisce ai dirigenti moderati dei partiti gli strumenti per emarginare le tendenze estremistiche del loro elettorato. Questo discorso riguarda leadership “riformiste” a destra e a sinistra. Gianfranco Fini, in primo luogo, il cui partito dovrebbe essere il massimo fautore della riforma costituzionale, perché dal rafforzamento dello schema bipolare trae solo vantaggi. Ma anche l’ala riformista della sinistra, perché dovrebbe essere chiaro che solo in un sistema maggioritario si riduce il potere di interdizione delle culture massimaliste, particolarmente radicate nel “popolo” di sinistra. Solo attraverso la strada del maggioritario, dunque, si potrebbe compiere la completa trasformazione socialdemocratica della sinistra italiana e finirebbe l’inseguimento delle culture estreme, finalmente chiuse nei loro ghetti. Cosa che, per la verità, sembra lontana dalla realtà.

Posizione a parte è quella del leader della Casa delle Libertà. Questi nel corso dell’ormai lunga esperienza politica è passato dalla “religione del maggioritario” ad una “affettuosa amicizia con il proporzionale”. Su quale sia il filo conduttore di questo percorso si possono avanzare solo delle ipotesi. Probabilmente, c’è che il problema della leadership di Berlusconi è anche quello di trovare il modo di stabilizzarsi, di rendere il proprio consenso sempre meno fluido. E anche per questo il leader di Forza Italia è sottoposto alla tentazione di usare nel modo più incisivo possibile il potere che la sua posizione e la sua storia gli offre: il potere di interdizione. Berlusconi sa che tale potere agisce al meglio in uno schema proporzionale. E per questa ragione, oltre che – come è giusto – per sfruttare convenientemente tutte le opportunità, la sua politica sulle riforme appare mutevole, anche se non del tutto imprevedibile. Ma non è un calcolo personale: è la sua “posizione storica”. Queste ci appaiono, con qualche approssimazione e semplificazione, le linee descrittive del quadro politico italiano odierno. Le riforme dovrebbero servire a correggere difetti e a curare patologie di un sistema che pare invece molto resistente ad autoriformarsi. Le malattie del nostro sistema politico sono infatti antiche e perciò da lungo tempo diagnosticate e conosciute. La prima e più grave di queste patologie riguarda il rapporto costituzionale tra maggioranza e governo. Le norme della Costituzione del ’48 si sovrappongono a prassi che hanno radici profonde e antiche. Sono le prassi di assemblee parlamentari frammentate che ricattano ed intralciano l’esecutivo, e che hanno reso deboli i governi della Repubblica, ma anche quelli dell’età liberale. Il risultato è che tra maggioranza e governo non vi è coincidenza, ma tensione e quasi conflitto. La preoccupazione prioritaria di ogni esecutivo diventa così quella della mediazione all’interno della propria maggioranza. Così – detto incidentalmente – accade anche per il governo di Berlusconi.

La seconda patologia è quella della stabilità, solo parzialmente rimediata dalle modifiche elettorali degli anni ’90. Dopo il mutamento della legge elettorale, la stabilità è diventata soltanto più probabile, non ancora garantita: nessun governo è costituzionalmente sicuro di potere durare una legislatura. Terza antica patologia è la concentrazione normativa che affanna Parlamento, governo ed organi costituzionali. Il risultato delle mancate riforme è continuamente visibile. L’invenzione della finanziaria, alla fine degli anni Settanta, fu il tentativo di dare ai governi una zattera che, almeno per il bilancio dello Stato e la politica della spesa, consentisse di portare fino in fondo scelte politiche. Ma l’invenzione della sessione di bilancio non ha risolto il problema. E non poteva farlo, perché il problema riguarda l’impianto costituzionale dei rapporti tra Parlamento e governo. Basta a questo punto ricordare come anche in presenza di un governo maggioritario, con buone probabilità di diventare il primo governo di legislatura della storia repubblicana, con una maggioranza possente, l’approvazione della finanziaria non sia sfuggita ai tradizionali drammi politici. Governo impacciato, il testo della finanziaria riscritto più volte; clima da legislazione elettorale, i parlamentari della maggioranza all’attacco del “loro” governo. Al di là delle responsabilità soggettive, che pure ci sono, tutto ciò è il prodotto delle istituzioni più che degli uomini. Vale la pena di aggiungere che a queste patologie istituzionali si accompagnano disfunzioni extra-istituzionali, come – ma è solo l’esempio più evidente – i “costi da decisione” che rendono difficile la nostra posizione internazionale e la nostra stessa capacità di restare grande potenza economica. Naturalmente non tutti si rendono conto che per l’Italia non è più tempo della politica internazionale svolta all’insegna del “tanto di noi hanno bisogno”. Per tacer d’altro, diciamo solo che le nostre decisioni istituzionali possono rendere difficile la nostra posizione internazionale. Dobbiamo comunque essere ottimisti e pensare, quindi, che i mormorii riformatori cominciati negli ultimi mesi del 2002, diverranno un discorso serio e fattivo. E siamo anche disposti a dare credito a chi ci promette di risolvere il problema storico della forma di governo italiana, il problema del rapporto tra esecutivo e assemblea, tra Parlamento e governo. 

A parte eccezionali periodi dovuti ad eccezionali personalità e ad eccezionali situazioni, la regola nell’Italia repubblicana è stata quella di esecutivi del tutto dipendenti dell’assemblea, o per meglio dire delle sue frazioni. Anche se qualche volta tale situazione è stata spacciata come “primato del Parlamento”, essa è l’esatto contrario del sistema parlamentare. Ora siamo al dunque, perché abbiamo un esecutivo con una maggioranza “storica”, che dovrebbe essere in grado di governare l’assemblea e di realizzare il suo progetto di innovazione costituzionale. Anche se i fenomeni che appaiono dinnanzi sono quelli consolidati, con il medesimo punto critico: la difficoltà a costruire una vera disciplina di maggioranza. Come si fa ad avere una maggioranza, di coalizione o meno, che segua le indicazioni del suo leader, che è anche il capo dell’esecutivo? Come superare la situazione, ancora di oggi, in cui maggioranza e governo sono due cose distinte, che navigano in orbite differenti? In un governo parlamentare la soluzione è una sola: affidare al capo dell’esecutivo, in modo esclusivo, la responsabilità di sciogliere l’assemblea: “Non mi votate questo provvedimento, mi impedite di portare avanti il mio progetto? Io sono in grado di costringervi". Per dirla con i classici: «Voi, membri del Parlamento, non state facendo il vostro dovere. Assecondate il vostro capriccio a spese della nazione. Trascurate lo spirito del Paese per quello del partito. Favorite voi stessi a scapito del popolo. Analizzerò se la nazione approva quello che state facendo: farò appello ad un altro Parlamento”.

Il potere di scioglimento “vale” la legge elettorale: può semplificare il sistema, fare da argine alle tendenze centrifughe, rendere efficace la responsabilità politica. A questo punto c’è un problema. Il potere di scioglimento è il massimo di responsabilità politica che si possa immaginare. Si tratta di andare di fronte agli elettori con il seguente discorso: “Scegliete, o me o loro”. Discorso molto rischioso, difficile per leader desiderosi soprattutto di piacere e di non scontentare. Discorso difficile, perché si tratta di coniugare due cose che nella vita politica italiana raramente sono andate insieme: decisione e responsabilità. Dopo anni di elaborazioni e di considerazioni sui modelli; presidenzialismo, premierato e loro varianti, il punto essenziale attualmente in discussione, presente nei progetti di legge presentati al Senato da esponenti del centro-destra e del centro-sinistra, è dunque quello della titolarità del potere di scioglimento. Si possono fare tutte le considerazioni sulle figure “di garanzia”, sulle funzioni di controllo dell’assemblea, sulle modalità di elezione del premier. Il punto centrale resta uno solo: il capo dell’esecutivo deve essere in grado di guidare l’assemblea, di essere responsabile del proprio programma legislativo. E a questo fine l’unico strumento di pressione pensabile è il potere di scioglimento.

Le opposizioni ai progetti di razionalizzazione del sistema politico sono ancora ben forti perché gli oppositori comprendono che se si instaura la disciplina di maggioranza finiranno alcune (dolcissime per i fruitori) tradizioni. La tradizione del localismo: sono il “tuo” rappresentante, ti accontenterò con l’emendamento che ti piace, anche se piace solo a te e costa un mucchio di soldi. E, ancora di più, la tradizione del potere di interdizione: siamo un gruppetto di rappresentanti senza arte né parte, però abbiamo i voti che ti servono. Che ci dai? Ultima arrivata la tradizione del piacere a tutti i costi: mi hanno votato tutti. Quindi non fatemi scegliere. Naturalmente il quadro delle riforme ha, come è noto, altri decisivi aspetti: il bicameralismo perfetto che rende il federalismo quasi impossibile, l’ombra lunga della giustizia, che sembra paralizzare tutto il resto. Il punto da cui partire può essere soltanto quello che consente l’avvio di un meccanismo di decisione. Per arrivare al punto, non mi pare possa più essere seguita la strada dell’immaginazione scientifica (che ha dato anche troppo) né quella delle dissimulazioni o dei calcoli d’opportunità. L’Italia, alla svolta del millennio, ha bisogno di una seconda modernizzazione. Il motore di questa seconda modernizzazione non può essere dato che da un ampio rinnovamento istituzionale. Oggi abbiamo bisogno di due cose. La prima è la ripresa della lotta politica e la fine di questa lunga guerra propagandistica. La seconda è una seria capacità di scambio. Le due coalizioni hanno molto da chiedersi e molto da darsi. Per esempio. Lealtà e legittimazione reciproca in cambio di riforme costituzionali. E’ un buono scambio. 

28
marzo 2003

(da Ideazione 2-2003, marzo-aprile)