Come chiudere la transizione?
forum tra Gianfranco Fini, Marco Follini e Domenico Mennitti

Domenico Mennitti – La scelta dei due interlocutori con cui avviamo il confronto sul tema delle riforme istituzionali non è affatto casuale. Gianfranco Fini è vicepresidente del Consiglio, presidente di An e membro della Convenzione di Bruxelles in rappresentanza del governo italiano. Marco Follini è stato fino a qualche tempo fa il presidente del gruppo parlamentare del Ccd, ora è il segretario dell’Udc. I nostri due interlocutori rappresentano l’Italia nel duro lavoro di definizione della nuova Costituzione europea e, nello stesso tempo, rappresentano entrambi, anche per una certa affinità di generazione, due figure chiave per lo sviluppo della politica italiana. Per venire al tema del confronto, la Fondazione Ideazione ha ritenuto necessario dedicare la sua attività del 2003 alla questione delle riforme, non solo perché all’improvviso in Italia tutti sembra abbiano scoperto la necessità di porre mano alle riforme. Se ne parla come di un’esigenza indilazionabile, anche se ci si impone sempre un punto interrogativo, reso necessario dalle difficoltà che fino a questo momento hanno bloccato il processo di riforme. 

Personalmente, ricordo il clima del biennio tra il ’92 e il ’94, quando il tema delle riforme istituzionali era al centro del dibattito politico. Molti ritengono che proprio il mancato compimento, un decennio fa, di quel percorso determinò la grande crisi che ha portato al cambiamento degli equilibri politici nel nostro paese. A questo riguardo il problema si è posto a più riprese nella vita dell’Italia, che già negli anni Ottanta, attraverso la Commissione Bicamerale presieduta dall’on. Bozzi tentò di apportare modifiche alla Costituzione. Quel tentativo non ebbe successo, come non l’ebbe quello successivo, della Commissione presieduta in un primo momento nel 1992 dall’on. De Mita e successivamente dall’on. Iotti. Infine, nel corso della legislatura avviatasi nel 1996 un’ulteriore iniziativa svoltasi sotto la presidenza dell’on. D’Alema ha avuto analogo risultato negativo. Oggi è necessario, anzi improrogabile, fare le riforme. Lo si evince anche dallo studio del Censis. E tutti si chiedono se veramente il 2003 sarà l’anno delle riforme. Due interlocutori di così alto prestigio e di così significativa partecipazione alla vita del Paese possono aiutarci ad affrontare questo tema. Non dimenticando che siamo in una fase interlocutoria, nella quale nessuno di noi potrà dare ricette sull’immediato futuro. Da tempo è aperto il dibattito politico, ora si sta per aprire il processo politico in Parlamento, dove su varie proposte ogni gruppo dovrà discutere ma anche votare. E’ ancora difficoltoso individuare le posizioni dei gruppi contrapposti. Una considerazione di base è però opportuna: quando esiste un sistema elettorale maggioritario e la vita politica si svolge sulla base di due blocchi contrapposti, non sono le identità specifiche dei singoli gruppi a contare quanto il progetto politico. Detto in altre parole: culture diverse interagiscono in una stessa area e poi il momento dell’unità lo si consegue sul progetto politico. 

La prima domanda che rivolgo ai nostri due interlocutori a questo proposito è la seguente: qual è oggi all’interno della Casa delle Libertà lo stato del dibattito sulle riforme istituzionali? Si è concluso? E’ in corso? E quando si trasferirà in Parlamento ci saranno proposte definite? Se la maggioranza ha doveri da assolvere, il primo è quello di offrire una base di discussione solida, insomma una proposta comune. Quando sarà pronta, atteso che l’argomento è all’ordine dei lavori del Senato, ma le posizioni della Casa delle Libertà sono ancora fluide e confuse?

Gianfranco Fini – La necessità di non privilegiare la logica dello scontro tra blocchi contrapposti sarà certamente l’elemento caratterizzante il dibattito sulle riforme che la politica italiana sta avviando. Certo, per quanto riguarda il confronto tra me e Follini, il discorso è diverso, perché quando si chiamano a discutere sulle varie ipotesi di riforma esponenti della medesima coalizione è evidente che ci si rifà al programma elettorale presentato agli elettori. Non abbiamo ancora fissato il giorno in cui Follini, Bossi, Berlusconi e io ci vedremo per stilare materialmente la posizione unitaria sul tema delle riforme, ma è ovvio che quando lo faremo non sarà difficile trovare una soluzione unitaria, perché il lavoro è stato già fatto prima di presentare agli elettori il programma elettorale. Giustamente Mennitti ricorda tutte le esperienze in cui si è cercato di attuare le riforme, e io credo che comunque non sia stato certo tempo sprecato. Se si vanno a rileggere gli atti di quei tentativi, si possono infatti ritrovare elementi molto validi ed estremamente utili per ripartire. Il problema è, semmai, la voglia di ripartire, tenendo conto anche delle istruttorie pregresse, dei momenti istituzionali e dello stesso confronto che ci fu nelle coalizioni nel momento in cui fu necessario presentare agli italiani un programma elettorale che prevedeva un impegno preciso in materia di riforme. Sono inoltre certo che quando si parla di riforme istituzionali il dialogo tra le parti e l’approfondimento al di là delle bandiere di partito siano doverosi: credo di averne dato dimostrazione con la mia dichiarazione pubblica di convinta apertura anche nel merito ad ipotesi – per quanto riguarda le forme di governo – diverse rispetto a quella tradizionale della destra che si ispira al modello francese. 

Quando – per usare un gergo giornalistico – ho aperto al premierato, l’ho fatto perché a mio avviso occorre rafforzare l’esecutivo e occorre trovare un terreno su cui è possibile avere un confronto che non si areni dietro le bandiere di partito. Ma – tutto ciò detto – sono convintissimo della necessità di trovare dei momenti in cui il confronto può determinare anche delle intese: voglio ricordare che entrambe le coalizioni si sono presentate agli elettori chiedendo una maggioranza per attuare un programma, ed entrambe avevano redatto dei capitoli relativi alle riforme. Va anche ricordato che la precedente coalizione di centro-sinistra aveva dato corso a un’importantissima modifica del capo V della Costituzione relativa alla forma di Stato con una maggioranza parlamentare estremamente esigua. Quindi: confronto, disponibilità di approfondire, necessità e volontà di trovare dei punti attraverso cui sia possibile raggiungere un’intesa; ma se si crede – e io lo credo – che le riforme vadano fatte in ogni caso e che questa fase di transizione debba pur trovare un compimento, non occorre nascondersi dietro il dito dell’ipocrisia invocando a tutti i costi le larghe intese. Bloccare le riforme dietro l’alibi della ricerca di un’intesa necessariamente bipartisan sarebbe doppiamente disdicevole: da un lato per gli elettori, ai quali abbiamo chiesto di darci la maggioranza anche per fare le riforme, perché loro hanno creduto in noi, ma sarebbe allo stesso tempo disdicevole per le istituzioni, per chi crede che alcuni passaggi non possano essere ulteriormente differiti nel tempo. Credo, comunque, che su questo non ci siano grandi difficoltà nella Casa delle Libertà. A scanso di equivoci, infine, voglio dire che non esiste divisione sulla necessità del dialogo, credo di averlo dimostrato con quella che è stata chiamata l’apertura di An al premierato. E so anche che Follini è convinto quanto noi che non concludere il dialogo non significa non portare a termine le riforme, lasciando all’opposizione il diritto di veto.

Mennitti – Credo che da un punto di vista politico, ma anche culturale, l’autorevolezza non derivi dal collocarsi al di sopra delle parti ma da ciò che, dichiarando di essere parte, ognuno riesce ad esprimere. È diffusa la convinzione che per fare le riforme è necessario che si sia tutti d’accordo. A me sembra un atteggiamento senza senso, perché una maggioranza, in virtù del programma presentato agli elettori e sul quale il corpo elettorale si è espresso, non ha il diritto di rispettare tale programma, ha il dovere di farlo. Naturalmente, trattandosi di riforme, sarebbe meglio che queste venissero realizzate col concorso di tutti. Però, se è vero che bisogna ammonire la maggioranza a non far uso della forza per imporre le proprie posizioni credo al contempo che dovrebbe essere comunicata con forza l’idea che la minoranza non deve servirsi della propria debolezza per paralizzare la guida del paese. Sarebbe un danno per tutti.

Marco Follini – Di riforme se ne parla da una decina d’anni e da questa parte del tavolo è davvero difficile trovare differenze o motivi di dissenso. Dobbiamo interrogarci, però, sulle ragioni per cui da molti anni siamo di fatto messi al palo e le riforme non procedono. Sono consapevole che la riforma delle istituzioni richieda tempi lunghi che non sono solo quelli del complesso iter parlamentare. Di fatto, le condizioni in grado di sbloccare una situazione in cui da troppi anni ci rigiriamo senza riuscire a venirne a capo faticano a maturare. E’ arrivato il momento di cercare di trovare una risposta a domande che noi stessi abbiamo formulato, a domande sulle quali ci siamo impegnati con gli elettori, a domande dalla cui risposta dipende anche il futuro di quell’assetto bipolare che a molti di noi sta particolarmente a cuore e che ha introdotto il paese alla democrazia dell’alternanza, con tutto quello che questo determina in termini di rottura rispetto a un costume politico nazionale che è sempre stato diverso. Perché non ci riusciamo? Perché il ragionamento sulle riforme è imperniato su delle ovvietà. E’ ovvio, è scontato, che le riforme dobbiamo cercare di farle assieme. E’ ovvio che si fanno più facilmente assieme se si trova il minimo comune denominatore della salvaguardia del carattere parlamentare della nostra Repubblica, e da questo punto di vista apprezzo molto il percorso che Fini ha fatto con l’apertura al premierato e con la consapevolezza che ha espresso che se si vuole ragionare su un terreno comune tra la maggioranza e l’opposizione è più facile che il terreno sia quello. Ed è ovvio, inoltre, che senza riforme il bipolarismo prima o poi viene messo a rischio. Infine, il 2003 è l’anno in cui convergono il percorso costituente europeo, nel quale Fini ed io siamo impegnati, e l’impegno preso con i cittadini di fare le riforme in Italia. 

Personalmente, giudico fondamentale cercare una convergenza tra la maggioranza e l’opposizione per due ragioni: la prima è perché l’esperienza dice che le riforme fatte a più mani, fatte scavalcando la linea divisoria tra gli schieramenti antagonisti, sono riforme che hanno in sé una sorta di garanzia di durata. L’Assemblea costituente è arrivata ad un risultato in condizioni anche più difficili di quelle nelle quali ci dibattiamo noi, mettendo insieme forze divise da una sorta di guerra civile fredda e che, tuttavia, riuscirono a trovarsi nella stesura di una Carta costituzionale che non a caso ha retto per oltre una generazione. Dobbiamo elaborare riforme che non abbiano un sapore di parte, che non vengano vissute da una metà, sia pure più scarsa del paese, non dico come una sopraffazione ma come un primato che la maggioranza impone alla opposizione. Pensiamo a quando nella scorsa legislatura il centro-sinistra ha varato con quattro voti di maggioranza una riforma – con appena quattro voti di maggioranza – che ha lasciato irrisolto il nodo del federalismo introducendo nel campo politico una divisione su questo punto che ancora ci trasciniamo dietro. Allora io credo che uno sforzo serio per trovare un punto di convergenza sulle riforme tra i due schieramenti non risponda soltanto all’esigenza di sottrarre questo dibattito ad un clima da stadio, ma risponde all’esigenza – ed ecco il secondo motivo per cui è necessario trovare un punto di convergenza – di dare stabilità e solidità all’edificio, a quell’insieme di regole che noi siamo chiamati a riscrivere. Dobbiamo comunque provarci, dobbiamo farlo seriamente, non sottovalutando il fatto che nel centro-sinistra possa prevalere l’atteggiamento di arroccamento. Anche in quel caso, anzi a maggior ragione in quel caso, credo che sia nostro dovere e anche nostro interesse, nonché una forma di responsabilità politica da parte nostra, tentare un approccio che avvicini maggioranza e opposizione nella ricerca di regole comuni a tutti. 

Mennitti – Ti auguro di vincere la scommessa. Personalmente, qualche preoccupazione francamente ce l’ho, perché il clima è quello che possiamo constatare e dobbiamo tenerne conto. Il pericolo è che si mantenga su questi temi un approccio scontato. E mentre nel 1994 eravamo ancora nella possibilità di disegnare le nuove regole, oggi siamo condizionati dal fatto che la Costituzione materiale è andata molto avanti rispetto a quella formale. Si sono inserite nella realtà del paese delle regole nuove, non scritte e tuttavia operanti, come la forte quota di personalismo. Alcuni parlano di deriva plebiscitaria ma è una valutazione propagandistica. La verità è che ormai il nome del leader qualifica la lista anche se nessuna legge lo prevede. La preoccupazione qual è? E’ che si possa continuare così, con le riforme imposte dai fatti. L’impressione ormai diffusa è che non ci sia più possibilità di rinvio – i margini sono ormai stretti – e che questa necessità sia imposta oltre che da problemi interni anche da eventi internazionali. Altri Paesi hanno adeguato le loro Costituzioni a quanto accaduto nel mondo e alcuni le stanno rinnovando anche in rapporto a quello che deciderà l’Europa. È quel che chiedo a questa maggioranza politica senza la riserva dell’ineluttabile rinvio. 

Fini – Al momento non c’è una data fissata, non c’è nemmeno un appuntamento in agenda. Certamente, molto dipende dalle condizioni, non per questo mi sento di essere così pessimista come chi dice: “Ne parliamo da anni, ormai l’opinione pubblica non si appassiona, sembra essere un dibattito fatto più per l’onore di firma che per convinzione”. La mia impressione è che negli ultimi anni il cambiamento c’è stato ed è stato sostanziale. Poi possiamo anche discutere se questo sia avvenuto per iniziativa delle forze politiche o per iniziativa dei cittadini e in alcuni casi anche contro le forze politiche. Personalmente sono convinto della seconda tesi. Le riforme in Italia si sono fatte perché gli elettori le hanno sollecitate e non perché i partiti le abbiano sospinte. Rovesciando tutti i testi sacri, in Italia il cambiamento è arrivato non da una coerente riforma del profilo istituzionale ma come conseguenza della modifica della legge elettorale. Tutti sanno che – stando alla dottrina – prima si fa la riforma dello Stato e poi la legge elettorale, che è uno strumento. L’Italia ha dimostrato, e dimostra, che le dinamiche quando sono politiche sono molto più complesse. Rimango comunque sostanzialmente ottimista perché non è vero che questo decennio non ha cambiato nulla. Mennitti giustamente sostiene che già esiste una Costituzione materiale che prevede una sorta di elezione diretta del candidato premier solo per l’indicazione del nome sulla scheda elettorale. Sono d’accordo: anche se dal punto di vista giuridico è una bestialità dire che si tratta di un’elezione, non c’è dubbio che oggi ci troviamo in un sistema che è sostanzialmente bipolare, con una democrazia dell’alternanza che è reale. Il paradosso è che alla democrazia dell’alternanza noi ci siamo arrivati attraverso una transizione complessa: abbiamo votato nel ’94, poi l’incidente e la rottura con la Lega, a seguire il governo Dini, l’elezione di Prodi, e la nostra affermazione nel 2001. In sei-sette anni di prove generali, siamo arrivati all’alternanza senza mettere mano in modo organico alla Costituzione, per quanto riguarda la forma di governo e il sistema bicamerale. Ma le riforme fatte con l’abito di Arlecchino rischiano di essere riforme che non danno coesione al sistema, ecco perché è necessario comunque continuare a confrontarsi. 

A questo punto appare necessaria una considerazione sul biporalismo e la democrazia dell’alternanza. Mi sono interrogato a lungo sul tema per arrivare a una considerazione apparentemente paradossale: la democrazia dell’alternanza è reale quando ci sono dei valori condivisi. È il senso dell’epoca post-ideologica che viviamo. La storia, in qualche modo, ha travolto anche le resistenze più ferree, e credo che in Italia di resistenze ferree ce ne fossero poche se si escludono alcune sacche di ideologia che permangono. In Italia in realtà c’è una democrazia dell’alternanza basata su valori condivisi a intermittenza: uno dei luoghi comuni attraverso il quale si definisce una democrazia dell’alternanza è che al suo interno non esista la demonizzazione ideologica dell’avversario. La mia impressione è che oggi ci sia una parte della sinistra che ci considera avversari e non nemici, ma soltanto a condizione che noi siamo all’opposizione, solo a condizione di essere battuti alle urne. Nel momento stesso in cui, per scelta libera e democratica degli elettori diventiamo maggioranza, c’è una sorta di riflesso condizionato di una parte della sinistra per la quale si ritorna all’epoca ideologica, non siamo gli avversari, torniamo ad essere i nemici: anzi un nemico talmente cattivo da mettere in discussione il fatto stesso di sedersi intorno ad un tavolo con il governo per discutere le riforme. Finché c’è chi pensa questo, chi ci fa i girotondi, chi lo teorizza, è difficile arrivare al clima di valori condivisi e di rispetto reciproco necessari per costruire la casa di tutti in cui noi crediamo e in cui, sono convinto, crede anche una parte consistente dell’Ulivo e dell’opposizione. 

Non c’è infatti vera democrazia dell’alternanza finché c’è qualcuno che ritiene che il centro-destra sia al governo usurpando il potere. E allora, ferma restando la buona volontà, fermo restando il dovere di farlo, e ferma restando la convinzione che al dialogo bisogna credere fino in fondo, tutto ciò comporta che accanto all’ipotesi principale si dica con chiarezza che ce ne sia una subordinata. Se si crede alle riforme bisogna dire chiaramente ai nostri avversari che esiste anche una possibilità alternativa al dialogo, seppure ad esso subordinata. Perché in caso contrario prevarrebbe nel centro-sinistra la linea di chi ci considera non avversari ma nemici, e coi nemici non si dialoga. Tra l’altro questa ipotesi non la considero nemmeno una subordinata, se non in termini politici. L’articolo 138 della Costituzione è proprio lì a dimostrare e che i Padri costituenti si resero conto che di fronte alla possibilità politica di un accordo largo, quindi di due terzi del voto parlamentare, non era possibile impedire un processo riformatorio. Credo che il 138 sia uno degli articoli più studiati: per diletto mi sono andato a rileggere gli atti preparatori della Costituzione e ne ho trovato conferma. Non è solo uno degli articoli più studiati, ma anche uno di quelli politicamente più lungimiranti, perché innanzi tutto con la doppia lettura si esclude che la Costituzione possa essere modificata con maggioranze parlamentari occasionali. In secondo luogo, con il ricorso a referendum in caso non si raggiunga la maggioranza dei due terzi, si riafferma la necessità o di avere un’ampia maggioranza in Parlamento o di avere una maggioranza elettorale del corpo elettorale, e quindi dei cittadini, ecco perché da questo punto di vista si tratta di una subordinata dal punto di vista politico. Ma si tratta di una strada che può, se necessario, essere percorsa. 

Mennitti – Marco, tu hai la grande fortuna di essere il più giovane degli interlocutori che siedono a questo tavolo: c’è una generazione – che comincia con me, passa attraverso Gianfranco e arriva a te – che deve ancora dimostrare la ragione della sua azione politica. Noi siamo venuti alla ribalta dopo che tutto era già stato fatto, e oggi almeno coloro che hanno un ruolo importante sono chiamati a tirare le somme. E credo che dobbiamo riflettere sul fatto che – ove fossimo ancora incapaci di realizzare il cambiamento – perderemmo la nostra battaglia. Avremmo vissuto, chi più chi meno, la nostra vicenda senza riuscire a dare una svolta importante al nostro paese. So che la tradizione culturale e politica alla quale tu fai riferimento ha imposto, soprattutto a voi, una forte elaborazione per giungere a soluzioni nuove. Ma vorrei che fosse chiaro a tutti che la nuova Costituzione non può essere espressione di una cultura tecnico-giuridica, ma dev’essere il frutto di una cultura politico-istituzionale. Qual è il punto di arrivo di un’elaborazione che vi ha visto impegnati in questo lavoro?

Follini – Questa è una domanda per la quale si è al limite nel trovare una risposta. Ragiono per approssimazioni, per passaggi successivi. Nessuno sa qual è il punto di approdo. Il problema è dove fissiamo l’asticella e quanto in alto cerchiamo di saltare. Noi abbiamo una curiosa attitudine a ragionare sull’edificio istituzionale a partire dal tetto, abbiamo fatto una decina di anni fa il tetto dalla riforma elettorale e abbiamo lasciato le fondamenta ai posteri e siamo qui oggi alle prese con tutti gli interrogativi di questa e di infinite altre occasioni di dibattito. Nella scorsa legislatura si è fatto un pezzettino sbagliato di riforme che ha riguardato il federalismo, ma si è lasciata impregiudicata la vera questione del federalismo che è la Camera delle autonomie senza la quale non ha alcun senso immaginare una costruzione federale. Noi oggi dobbiamo cercare di dare a questo edificio delle fondamenta. E qui parto dalla mia esperienza di figlio della Prima repubblica: io sono un cristiano democratico che ha cercato di fare i conti anche con qualche severità e sforzo di autocritica sulle ragioni che hanno portato alla crisi post Tangentopoli. La Prima Repubblica è finita nell’immobilismo, l’immobilismo è stato una conseguenza di situazioni internazionali ma non è un caso se la migliore dirigenza dei decenni del secondo dopoguerra si è rotta la testa nel tentativo che poi è stato vano, di sbloccare la vita democratica, di consentire un processo di alternanza che per quarant’anni non c’è stato, per ragioni che tutti sappiamo e che costituirono il limite di quell’esperienza. La ragione per cui noi quell’esperienza non possiamo pensare di ripeterla è perché aveva dentro di sé questo limite costitutivo. E credo che anche nella confusione di questi anni il risultato della democrazia dell’alternanza – dare agli elettori la possibilità di un’alternanza – sia un risultato prezioso, utile che non dobbiamo in nessun modo cercare di disperdere. 

Qual è allora il limite di questa fase politica? Quello di pagare un pedaggio assolutamente troppo alto a posizioni estreme che albergano un po’ di qua, un po’ di là ma che impediscono di fare il salto di cui abbiamo parlato prima. Credo anch’io che sia un dovere storico della nostra generazione cercare di fare le riforme e che sarebbe un fallimento storico se non ci riuscissimo, ma credo che le riforme più vere sono quelle che si fanno assieme, non per una sorta di buonismo istituzionale, non perché così prescrive il galateo, ma perché riforme che abbiano questa caratteristica saldano insieme maggioranza e opposizione sullo stesso territorio istituzionale e mettono al bando da questo territorio la pratica della delegittimazione reciproca che abbiamo visto quanto peso ha, ha avuto e minaccia di avere ancora in futuro. Noi dobbiamo in qualche modo disinnescare questo meccanismo. So bene che dall’altra parte c’è una robusta corrente di pensiero che si va ingrossando che dice e vuole il contrario. Ma proprio quella parte dei nostri avversari che tende a dipingerci come nemici e a dire “mai le riforme assieme”, credo che ci indichi un percorso, indicandoci le ragioni per cui fare le riforme assieme ha un valore che non è solo l’interesse della maggioranza, ma è l’interesse del Paese. Mi rendo conto che in questo modo l’asticella è messa molto in alto, il salto è più difficile, ma credo che dobbiamo provvedere ad un risultato che non metta la nostra generazione e quelle che verranno nella condizione di dover pensare a come disfare un progetto istituzionale che viene vissuto come un progetto troppo segnato da logiche di parte. E’ la quadratura del cerchio e come tutte le quadrature del cerchio è difficoltosa. Ma se ci sono voluti molti anni significa che l’impresa una qualche difficoltà la rappresenta e che dobbiamo cercare di venirne a capo con questo spirito e con questa consapevolezza.

Mennitti – Le difficoltà, si sa, sono enormi, ma non si possono certo lasciare le cose come stanno. Anzi, come abbiamo già rilevato, si sono introdotte di fatto e nella prassi nuove realtà, prime tra tutte l’alternanza democratica.

Follini – Il problema è che se l’opinione pubblica vive l’alternanza come un processo distruttivo, il rischio potrebbe essere che ciò che tutti noi consideriamo un valore da preservare possa venire interpretato da una parte dell’opinione pubblica come una minaccia, come un rischio, come un dato negativo. Io insisto tanto su questo aspetto che mi spinge a trovare quell’intesa ampia che contiene in sé la clausola di rafforzamento di quella democrazia dell’alternanza che – proprio per essere recente e anche in contrasto con alcune robuste tendenze della vita del Paese – ha dentro di sé una qualche fragilità cui occorre porre rimedio.

Mennitti – Fai un’osservazione pertinente Marco, ma attenzione a non lasciare le cose affidate alla casualità. Oggi ad esempio, l’alternanza è servita ad individuare il nemico da abbattere nel governo. Negli ultimi dieci anni il governo non ha attribuito forza ma debolezza elettorale. Un’ultima battuta dell’onorevole Fini: che cosa intendi quando parli di una concezione di un governo forte? 

Fini – La prima caratteristica di un governo forte – politicamente autorevole, stabile – è che riesca a difendere bene un doppio interesse: l’interesse nazionale e il valore ad esso collegato dell’unità del Paese. Perché questa esigenza? Perché viviamo in una fase storica che non solo è sostanzialmente diversa da quella dei Padri costituenti ma anche rispetto a quella di dieci anni fa. Viviamo nell’epoca dell’integrazione europea, della Convenzione, della nascita dell’Unione a venticinque-ventisette Stati. Viviamo in un momento in cui per libera scelta degli elettori o dei Parlamenti, gli Stati come li abbiamo conosciuti nel secolo scorso si stanno trasformando. Il semplice fatto che l’Europa nasca partendo dal presupposto che ci sono delle quote di sovranità che democraticamente popoli e Stati mettono in comune con altri segna un momento di profonda rottura e discontinuità rispetto al momento in cui si scriveva la nostra Costituzione, in cui il concetto di sovranità nazionale era in qualche modo coincidente con lo stesso concetto di Stato, inimmaginabile in passato che, nel momento in cui nasce una Costituzione, si debba prevedere che quote di sovranità debbano essere messe in comune con altri. 

Al contrario oggi questo è un dato caratterizzante dell’Europa. Per cui ha ragione chi ha scritto che siamo di fronte alla presenza di una devoluzione di poteri verso l’alto. Se a questo elemento si aggiunge un dato nostro nazionale – vale a dire un appassionato dibattito che ha portato ad una devoluzione di sovranità verso il basso perché al di là di come si giudica la devoluzione, il capo V ha profondamente modificato l’assetto voluto dai Padri costituenti – come si fa a non cogliere la novità costituzionale in atto? Senza ombra di dubbio siamo di fronte ad un modello nuovo. Si può allora pensare che l’anello debole deputato a difendere interessi e a trasferire direttive sia il governo centrale? Se non rafforziamo l’esecutivo rischiamo però questo paradosso: abbiamo un’Europa forte, e stiamo lavorando per farla diventare sempre più forte, nel momento stesso in cui ipotizziamo che presidente della Commissione e presidente del Consiglio coincidano nella stessa persona, siamo passati dal regionalismo al federalismo. Riuscire a immaginare che il governo centrale – cioè Roma, per usare un’espressione cara a Bossi – sia l’anello debole tra l’Europa e le Regioni, secondo me significa mettere un po’ a rischio non tanto l’unità nazionale – che non è minacciata né dalla devoluzione, né dal federalismo, né dal combinato disposto tra i due – ma l’interesse nazionale. Interesse nazionale non significa che una Regione corre perché è ricca e un’altra arranca perché è debole. 

Un governo politicamente forte, autorevole, non può essere letto esclusivamente con le lenti dell’ottica nazionale perché siamo perfettamente integrati nell’Europa. Cosa vuol dire in sostanza esecutivo politicamente forte? Niente a che vedere con la tentazione dell’uomo forte, dell’uomo nero della deriva plebiscitaria di cui qualcuno pure parla tornando alla logica del nemico, così infatti entriamo nel campo della propaganda e non in quello del dibattito sulla architettura istituzionale. Il governo politicamente forte è invece un governo che è capace di difendere gli interessi nazionali in Europa e di garantire democraticamente la coesione nazionale; il che, secondo me, significa anche discutere del governo del premier. Da questo punto di vista, il modello francese ha una sua linearità. Si dovrebbe, semmai, discutere delle conseguenze che potrebbe avere in Italia, perché quel modello ha in sé il meccanismo della coabitazione, che in Francia ha determinato problemi tutti politici, tra cui l’ascesa di Le Pen, ma non ha destabilizzato il sistema dal momento che il valore repubblicano è una pietra miliare della V Repubblica. Da noi è un’altra cosa, ci siamo avvicinati soltanto da poco e in maniera non ancora del tutto convinta al concetto di valore repubblicano. Quando si continua a delegittimare l’avversario dicendo che è un usurpatore diventa difficile far riferimento ai valori repubblicani… La Francia i valori repubblicani li avverte in maniera così reale che quando per effetto distorsivo sul sistema della coabitazione si è arrivato alla scelta di Le Pen, Chirac è stato eletto con l’82 per cento dei voti. Ho detto comunque di essere aperto e disponibile anche all’altra ipotesi, che è quella del premierato. Ipotesi che ha una sua ratio quando si parte da alcuni concetti precisi: che un governo è politicamente un forte anello di congiunzione nella catena di difesa degli interessi tra Europa e Regioni quando, soprattutto, è un governo stabile. Attualmente, uno degli elementi di discontinuità positiva con il passato è senza dubbio la maggior stabilità del governo anche perché è stato scelto dagli elettori. 

Ma se vogliamo un governo stabile non solo per saggezza degli elettori, ma sancito da meccanismi istituzionali, dobbiamo stabilire il principio che il baricentro della sovranità non è nel Parlamento ma nel corpo elettorale. Vi rimando alla lettura del messaggio di Cossiga presidente della Repubblica alle Camere che poneva la questione cruciale sulla destrutturazione del vecchio sistema della Prima Repubblica. Quel discorso poneva un problema semplice in teoria ma estremamente complicato: dov’è il baricentro della sovranità, nel Parlamento o nel corpo elettorale e, soprattutto, i due piani coincidono? Quando il corpo elettorale sceglie un governo – come con Prodi che si è trovato sostituito da D’Alema e da Amato – per poi trovarsi nel corso della legislatura di fronte a un esecutivo diverso, è evidente che la coincidenza non c’è. Qualcuno del centro-sinistra ritiene che ciò che conta non è cambiare il premier ma non cambiare la maggioranza: per citare casi concreti, prima D’Alema e poi Amato sono andati al governo perché era cambiata la maggioranza che aveva portato Prodi a vincere le elezioni. E allora qual è il punto politico fondamentale? Che un governo è autorevole politicamente quando è stabile e quindi quando la maggioranza scelta dagli elettori non cambia nel corso della legislatura: ma perché ciò non accada è necessario che nel momento in cui viene meno quella maggioranza scelta dagli elettori, cada la legislatura, si vada alle urne, si vada a votare. Questo sarebbe il più formidabile antidoto al trasformismo, che è una malattia antica della politica italiana, e a tutte le strampalate teorie che cercano di affermare che la sovranità non è nel corpo elettorale ma è nelle assemblee parlamentari. 

Aggiungo e concludo che in questa logica, quando si parla di un governo politicamente forte, in una politica di pesi e contrappesi, che è l’altra delle coordinate culturali che bisogna avere chiarissime, bisogna lavorare per lo Statuto dell’opposizione. Bisogna insomma lavorare perché più politicamente forte è il governo, maggiormente tutelato deve essere il diritto dell’opposizione. I riferimenti che si fanno in questo caso al modello Westminster sono riferimenti da considerare essenziali soprattutto in Italia, in cui vi è una democrazia dell’alternanza ancora giovane che tende a considerare le ragioni della maggioranza come se fossero leggi divine. Le ragioni della maggioranza sono le scelte degli elettori e a queste si deve restare fedeli.

28 marzo 2003

(da Ideazione 2-2003, marzo-aprile)