La fatica di essere italiani
di Stenio Solinas

Dice il Censis che abbiamo le pile scariche. Siamo edonisti ma delusi, gaudenti ma senza speranze, borghesi a rischio di gotta fisica e intellettuale, bolsi, apatici, nessuna voglia di reagire, nessuno stimolo a cambiare. Da anni l’Istituto di ricerca socio-economica e il suo presidente, il sociologo Giuseppe De Rita, misurano la pressione di noi italiani e ci raccontano pregi e difetti. Lo fanno con uno stile un po’ immaginoso, ricco di frasi a effetto, colorito quanto basta per intrigarci perché poi noi italiani siamo fatti così, ci lasciamo incantare dalle parole, dai giochi di parole, ci piace esser criticati con un linguaggio che sa di seduzione, additati alla riprovazione con un rimprovero che sa di ammirazione. E quindi, cosa c’è di meglio di un rapporto da cui vien fuori che in fondo da noi c’è sempre la dolce vita, siamo sempre il Bel Paese, amiamo molto e lavoriamo poco, spendiamo in balocchi e profumi piuttosto che in ricerca e in cultura, e, insomma, siamo dei d’Annunzio di provincia in una nazione che è sempre più periferia, d’Europa, d’America?

Dice sempre il Censis che anche dieci anni fa fu così, “l’ultima vera crisi che abbiamo vissuto”. Solo che allora il paese “attraversò l’angoscia per darsi serietà”: è “deritese” puro, ma in parole povere significa che ci rimboccammo le maniche e ne venimmo fuori. Adesso, sembra di capire dal rapporto, sarà tanto se ci sbottoneremo i polsini. Tutto vero, certo, e non saremo noi del resto, che non abbiamo neppure uno straccio di cattedra universitaria, a negare analisi di questo tenore, stilate da economisti, giuristi, sociologi e supportate da grafici, tabelle, percentuali, sondaggi, interviste. Però ci sembra che avesse già detto tutto, e meglio, un secolo fa, Mario Missiroli: “L’Italia è condannata a vivere sempre al di sopra dei suoi mezzi”. Era - è - la sua dannazione, ma forse era - è - anche la sua vocazione più autentica.

Non è questione di speranze e di delusioni, di sofferenze e di egoismi, è il nostro Dna: quello di una nazione fragile e imperfetta, troppo piena di uomini e di cose, umile e altezzosa ad un tempo, con un metabolismo da grande potenza su un fisico politico-economico cagionevole. Un paese – l’Italia – dove quotidianamente si assiste al paradosso che tutti quelli che stanno fuori vorrebbero venirci a vivere e tutti quelli che stanno dentro vorrebbero andarsene (anche se poi a muoversi è solo una sparuta minoranza...). E’ questo coacervo anarchico di intelligenza e di stile che non riesce a darsi un corpus politico che lo soddisfi a pieno e quando ci prova è talmente particolare, originale e legato al contingente – i comuni, le signorie, il fascismo... – da non essere ripetibile, perfettibile, esportabile. E’ faticoso essere italiani. Lo è sempre stato, lo sarà sempre. Qualcuno al Censis dovrebbe farglielo sapere.

14 marzo 2003

(da Ideazione 1-2003, gennaio-febbraio)