Privatizziamo la Rai, siamo un popolo maturo
di Domenico Mennitti

Lo diciamo tutti da tanti anni che la comunicazione è tema politico per eccellenza, perché svolge un ruolo essenziale nella formazione delle coscienze e nell'orientamento della pubblica opinione. L'argomento è di eccezionale interesse nel nostro paese a causa di due specificità: l'influenza del governo sulla gestione della radio e della televisione pubbliche e la circostanza che il capo dell'attuale esecutivo sia proprietario del più importante gruppo televisivo privato. E' il terreno sul quale più plasticamente si evidenzia il conflitto di interessi, oggetto di polemiche esasperate sino a chiamare in causa la qualità delle nostra democrazia.

Nel 1994, quando l'avvento di Berlusconi alla politica fu un dato straordinario ed occasionale determinato dalla improvvisa e disastrosa crisi dei partiti, fummo in prima linea non a negare l'esistenza del delicato problema, ma a combattere la pretesa che il nodo si dovesse sciogliere affrettatamente, offendo all'interessato due possibilità: le svendita del patrimonio o il ritiro dalla politica. In fondo i conflitti d'interessi, della natura più varia, erano diffusissimi in Italia, talvolta abilmente occultati, ed in una fase di riordino del sistema politico e costituzionale sembrava equo concedere il tempo ragionevole per definire regole alle quali non solo Berlusconi avrebbe dovuto attenersi.

Oggi, di fronte alla crisi del sistema radiotelevisivo pubblico, alla difficoltà persino di insediare un consiglio di amministrazione alla Rai, un rilievo bisogna muoverlo alla Casa delle Libertà per non aver valutato la dimensione del problema, per non aver predisposto per tempo una soluzione dignitosa e seria, per aver atteso l'evento consegnandolo poi nelle mani dei due presidenti delle Camere, essi - come gli altri protagonisti della maggioranza - precipitati dentro la spirale di una insana competizione per acquisire visibilità, che si è tradotta nella ricerca di soluzioni affidate all’improvvisazione. Il risultato è sotto gli occhi di tutti ed evidenzia una difficoltà di governo difficilmente contestabile, della quale ci doliamo come utenti del servizio pubblico, ma soprattutto come elettori che hanno contribuito a capovolgere gli equilibri politici e vorrebbero vederne costituiti altri, che non siano solo espressione dei numeri che sono cambiati ma di una diversa qualità di governo.

La nostra opinione è che l'unica strada percorribile sia la privatizzazione del servizio pubblico, perché la maturità degli italiani non è compatibile con un’informazione condizionata dalla fazione politica vincente. Peraltro il principio della lottizzazione, per quanto deprecabile, ha costituito una regola che oggi non funziona più. Essendo venuta meno l'autorità dei partiti che l'avevano inventata, è rimasta la consuetudine secondo la quale dispone della Rai la coalizione politica che vince le elezioni. Criterio che - con l'evoluzione delle interpretazioni - vale se vince il centro-sinistra, non se questo va all'opposizione. Ma anche con il centro-sinistra non sono stati più i partiti ad influenzare i palinsesti, che nella realtà sono stati gestiti da gruppi di potere interno costituitisi sulla condivisione di posizioni estremiste alle quali le deboli formazioni politiche non hanno fatto altro che accodarsi.

E' esattamente quanto accaduto alla fine della legislatura scorsa: la Tv di Stato schierata ad insultare il centro-destra sostenendo la pretestuosa tesi che la satira è sacra e non accetta censure. C'era l'ininfluente obiezione che la satira ha tradizionalmente come bersaglio chi comanda, mentre qui aveva scelto come obiettivo unico Berlusconi, a quel tempo leader dell'opposizione. Nonostante queste premesse, la Casa delle Libertà ha affrontato il problema senza uno schema di soluzione organica, prima sperando nella capacità taumaturgica di un ex presidente della Corte Costituzionale e poi scegliendo il gioco del cerino, che anche i bambini hanno smesso di praticare da quando l'informazione precoce ha ridotto l'area dell'ingenuità.

La prima scelta, quella di un personaggio come Mieli, che poi ha rinunciato, non si poteva valutare in rapporto all'ammontare degli emolumenti richiesti: se tanto vale su un mercato povero di alti profili professionali, nessuno può chiedergli di fare beneficenza alla Rai. E sarebbe anche tempo di stabilire che un incarico pubblico rende quanto è scritto nel contratto, non quanto le pratiche gestionali possono consentire. Niente da eccepire perciò su quel fronte che pure ha suscitato curiosità e maldicenze. E questo vale anche per la nuova presidente Lucia Annunziata. Il nodo da sciogliere è capire chi e che cosa garantisce una soluzione del tipo Annunziata e perché una coalizione politica che ha ottenuto largo consenso da parte dei cittadini debba dimenarsi alla ricerca di tutori e garanti, quando è suo il dovere di garantire la società e la maggioranza degli italiani che l'ha votata.

I numeri in democrazia sono gli indicatori del consenso, non gli elementi di un sistema aritmetico da debellare, come sostengono farneticanti propiziatori di indefinibili regimi. Spiace perciò che emerga da parte di alcuni autorevoli eletti un pesante complesso d'inferiorità che gli onesti ed oscuri elettori non hanno. Il problema non è come uscire da questa questione pagando qualche prezzo, ma come dare all'Italia un sistema d'informazione libero, che trovi l'equilibrio misurandosi sul mercato ed affrontando la concorrenza. Sollecitiamo la Casa della Libertà a porsi questo obiettivo come appuntamento ormai non più rinviabile. Questa è una partita che il governo non può giocare di rimessa, deve anzi affrontarla con determinazione e chiarezza di programmi.

14 marzo 2003

domenico@mennitti.it