Torneremo democristiani?
di Oliviero Beha

Uno slogan glielo regalerei volentieri, anche se magari non ne hanno bisogno, anche se è banale, anche se è un ossimoro da viaggio (il che però, in un Paese ossimorico che sta attraversando una stagione iperossimorica o supercontraddittoria, potrebbe non guastare): “tornare avanti”. Che cos’altro è questa voglia di Democrazia cristiana che contrassegna l’inverno in varie forme, se non il desiderio e il bisogno di tornare avanti? Sogno per alcuni, incubo per altri (ma non profondo se vai a scavare, appena un disagio da dormiveglia…), questa voglia di Dc potrebbe essere più semplicemente un miraggio. Vediamo perché.

La metafora più in voga per connotare la situazione del nostro sistema-Paese secondo l’ultimo rapporto del Censis – “edonisti e delusi, l’Italia ha le pile scariche […] non pensiamo più al futuro, ci rifugiamo nel mito del buon vivere” dice De Rita – è quella del deserto. La usa uno studioso come il sociologo De Masi (normale), la usa anche un primattore contemporaneo sulla scena politico-imprenditoriale come Montezemolo (meno scontato). Dice l’uomo Ferrari e il principe degli editori che siamo di fronte a un “deserto di classe dirigente”. Si potrebbe obiettare che questo spiegherebbe la sua ascesa, ed invece credo gli si debba riconoscere che almeno lui è “cresciuto”, da quando quindici anni fa aveva qualche difficoltà in Fiat così da andare in esilio alla Cinzano, però “pentendosi”, pentimento e crescita che per esempio non hanno contraddistinto la classe dirigente dell’allora Pc (siamo ancora in attesa di una spiegazione urbi et orbi su “dove fosse l’errore”).

Ma torniamo al deserto: non si dà un buon deserto senza un’oasi, o meglio senza il miraggio di un’oasi. Eccola qui, l’oasi: la voglia di Dc, la memoria di un passato contrastato ma soddisfacente a giudicare da come si muoveva il cosiddetto “partito unico della spesa pubblica”, la necessità di radici se “non pensiamo più al futuro”, la stessa profonda motivazione che aggiudicò politicamente l’Italia a Berlusconi nel ’94, e cioè che in fisica come in politica non si sopporta il vuoto. Allora era il vuoto di Tangentopoli, con l’asse Dc-Psi smontato, adesso è il muro contro muro dei radicalismi previtian-girotondisti. Quindi, logica la voglia di Dc. Al congresso dell’Udc nascente, alla domanda “come vi chiamerete, udicini?”, la risposta era “è vero, non ci abbiamo pensato, mah… democristiani”.

Che sia possibile rifare la Dc, è tutta un’altra storia. Che sarebbe come quella dei padri, è ancora tutt’altra faccenda. Italia diversa, più vuota, più friabile, con meno cultura, apparentemente volta in una direzione opposta a quella fondante della Democrazia cristiana. Insomma, sarebbe solo una pelle politico-culturale, un nome, una voglia. Sarebbe Borges, e Pierre Menard che riscrive il Don Chisciotte molto dopo (questa è per Follini…). E se fosse questo, però, il vero dna della Dc, e, soprattutto, se fosse abbastanza per i tempi? Se fosse tutto ciò proporzionato al proporzionale (alla voglia di)?

28 febbraio 2003

(da Ideazione 1-2003, gennaio-febbraio)