L’ultima occasione di un’intera generazione
politica
Vorremmo spiegare ai nostri lettori il perché di un’apertura così
impegnativa, al primo numero dopo la pausa natalizia, come quella sulle
riforme istituzionali. Tema decisamente ostico, capace di sdraiare un
elefante, mentre la vita quotidiana ci propone mille aspetti più
interessanti o più preoccupanti, dalla crisi economica alle tasse da
pagare (che non sembrano affatto diminuite), dal caro euro ai venti di
guerra in Irak, dallo scudetto d’inverno nel campionato di calcio
all’uscita sugli schermi del secondo episodio della Compagnia
dell’Anello.
E invece no, abbiamo deciso di proporre ai lettori come argomento
principale del numero le riforme istituzionali. Non solo perché da
qualche settimana la politica sembra essere stata di nuovo colpita dal
virus riformatore, quanto perché riteniamo che esse siano davvero
necessarie per consentire alla maggioranza espressa dagli elettori di
governare davvero, assumendosi sino in fondo la responsabilità del
proprio operato e all’opposizione di controllarne l’operato con rigore,
senza però bloccarne pretestuosamente ogni iniziativa. Fuori dal
politichese, solo il completamento del processo riformatore può portare
a conclusione l’interminabile transizione italiana, iniziata con gli
anni di Tangentopoli.
In questi anni abbiamo introdotto parziali modifiche: alle leggi
elettorali, alle competenze di governo ed enti locali. Gli elettori
hanno accompagnato e anticipato ogni cambiamento in senso maggioritario,
fino all’indicazione di fatto del capo del governo e hanno maturato
aspettative legate ad un presunto maggior potere dell’esecutivo. Ma in
concreto queste innovazioni, appunto perché parziali, si sono scontrate
con un’impalcatura che è rimasta tarata sul vecchio sistema politico.
Nella scorsa legislatura si è tentato di realizzare la grande riforma
addirittura con il solenne varo di una Bicamerale. Poi si è pensato di
aggirare l’ostacolo, facendo finta che fosse sufficiente forzare la
mano. Ma è stato tutto inutile. Per uscire dal pantano occorre mettere
mano alle riforme istituzionali: operazione politica forse priva di
fascino per gli elettori, ormai stanchi di promesse mai mantenute, ma
certamente utile per il futuro del paese.
A patto di volerle fare davvero. Il vero punto è questo. E vale sia per
la maggioranza, che ha voluto riproporre la questione sul tappeto, che
per l’opposizione che in larga parte rifiuta il confronto mascherando di
indignazione morale una posizione immobilista e conservatrice. Non
avrebbe senso riproporre ai cittadini la lunga sequenza di un tormentone
già visto, fra proposte, controproposte e tentativi di compromesso
giocati con il pugnale nascosto dietro la schiena. Se si decide di
riaprire questa partita, la si giochi sino in fondo, con lealtà e
determinazione, sapendo che il risultato - e non un risultato qualunque
– dovrà essere raggiunto. Altrimenti, meglio smetterla qui, anche perché
le cose da fare non mancano, al governo come all’opposizione.
Deve essere chiaro che un’intera generazione politica, di destra o di
sinistra o di centro poco importa, quella nata dopo la guerra, figlia
dei padri della patria e che arriva sino agli epigoni del Sessantotto,
si gioca la sua ultima carta politica. E’ la generazione che ha gestito
la fase finale della Prima Repubblica e poi l’intero percorso della
transizione: e non si può dire che sinora abbia fornito gran prova di
sé. Fallita questa occasione sarà difficile che se ne presenti un’altra.
Potrà gestire quel declino che già s’intravvede in alcuni settori del
paese ma poi dovrà passare la mano alla generazione successiva. Toccherà
ad essa il compito di realizzare le riforme. Ammesso che sia rimasto
ancora qualcosa da riformare. (p. men)
17 gennaio 2003
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