Dieci anni di tentativi
di Domenico Mennitti
Sono anni che il Censis produce rapporti che indagano i sentimenti, le
aspettative, le delusioni degli italiani. E rappresentano i loro umori,
anticipandone i comportamenti. Accadde, ad esempio, negli ultimi anni
Ottanta quando la corruzione dilagò nella vita pubblica ed il Censis
denunziò che il fenomeno aveva superato la soglia di tollerabilità,
avvertendo che la “voce” era ufficialmente entrata nella contabilità
dello Stato ed era addirittura quantificabile nel rapporto con il Pil
nazionale. I partiti e le istituzioni non colsero ch’era un segnale
d’allarme ed assunsero il dato come una nota di costume da citare con
civetteria nelle chiacchiere di salotto. Qualche anno dopo furono
travolti da Mani Pulite che dalla denuncia della corruzione trasse tanto
vigore da sconvolgere il quadro politico ed istituzionale.
Ora il Censis, con il rapporto reso noto all’inizio di dicembre dello
scorso anno, ha lanciato un allarme sul quale è augurabile che la classe
dirigente non commetta un altro clamoroso errore di distrazione.
“L’Italia ha le pile scariche” ha titolato il Corriere della Sera.
Giuseppe De Rita, il prestigioso segretario generale dell’istituto,
traccia il quadro di un Paese che non ha voglia di pensare al futuro e
subito paragona questa condizione di spirito degli italiani con quella
che caratterizzò la crisi dei primi anni Novanta. Allora, di fronte alla
disfatta della politica, che coinvolse l’organizzazione dei partiti e la
struttura istituzionale, reagirono i cittadini che ritirarono le deleghe
ed assunsero la responsabilità diretta delle decisioni. Dalla data
dell’evento, man mano che da esso ci siamo allontanati, sono fiorite
dentro la Casa delle Libertà e persino dentro Forza Italia varie
interpretazioni di quella risposta degli elettori. La più vera, anche se
oggi è diventata la meno diffusa, è che gli italiani manifestarono una
vitalità intellettuale e politica del tutto ignota ai partiti di
riferimento: il Paese, per dirla in estrema sintesi, fu salvato dagli
italiani qualsiasi che, a differenza dei dirigenti politici, credevano
nel futuro, coltivavano aspettative ed erano disposti a correre rischi
pur di realizzarle.
Questo spirito secondo il Censis si è disperso. Si è radicata la
tendenza a ricavarsi un rifugio dove vivere bene e tranquillamente e, di
conseguenza, sono crollati i valori della politica e sono regrediti
anche quelli della religione. “Edonisti e delusi” ha sintetizzato sempre
il Corriere lasciando ai lettori le valutazioni su una società che ormai
rifiuta di giocare la partita del cambiamento nell’era delle grandi
trasformazioni.
Al centro di questo decennio, situato tra l’esplosione di Tangentopoli e
l’avvio del secondo governo di centro-destra, c’è il personaggio Silvio
Berlusconi. Alcuni lo indicano come il responsabile della caduta di
tensione del popolo italiano al quale non avrebbe dato il cambiamento
promesso; altri sostengono che della situazione depressa sopra descritta
egli sia la prima vittima, perché sono venute meno nella società civile
le condizioni per realizzare le riforme. Noi pensiamo che sia tempo di
affrontare questo tema senza pretestuosi rinvii perché, se è vero che
dieci anni sono ancora pochi per esprimere giudizi definitivi, sono
tuttavia sufficienti per tentare un bilancio e un’interpretazione in una
chiave che non sia solo politica, ma anche più rigorosamente storica. Si
tratta certo di una vicenda nella quale siamo ancora immersi. Ciò non
toglie che sia utile fare uno sforzo per cercare – con strumenti
adeguati – di comprendere il senso profondo delle dinamiche che ci hanno
coinvolto. I dieci anni ai quali ci riferiamo sono stati caratterizzati
– senza alcun dubbio – dalla presenza e dall’azione di Silvio
Berlusconi: più che un giudizio, è una constatazione. La sua “discesa”
ha determinato una riarticolazione del quadro politico-culturale e
politico-sociale del nostro Paese. Sinora è mancata, da parte degli
avversari ma anche dei sostenitori, un’adeguata riflessione su quanto
abbia realmente significato ciò che, in termini puramente neutrali, può
definirsi il “berlusconismo”, intendendo con questa espressione la
centralità che la figura del fondatore di Forza Italia ha assunto per
l’intera vicenda italiana. Siamo consapevoli di non essere noi “neutri”,
ma dichiarandolo preventivamente, precisiamo di perseguire lo scopo di
offrire un quadro di confronto e di discussione che metta in campo non
solo diverse competenze, ma pure sensibilità ed orientamenti ideali
differenti. L’obiettivo finale è fornire una chiave di lettura il più
possibile globale ed unitaria del periodo che stiamo esaminando,
cercando di evidenziare, al di là della contingenza politica, le
dinamiche di fondo e i caratteri strutturali del decennio oggetto di
attenzione.
Avviamo questa analisi con il primo numero dell’anno che è indicato in
testata come il decimo della presenza di questa rivista, che dalla
rivoluzione degli equilibri della cosiddetta “prima repubblica” trasse
ragione per nascere e condurre una significativa azione di riflessione e
di orientamento. Al tema intitoleremo l’anno 2003, compiendo un percorso
lungo ed articolato che si concluderà con la pubblicazione del numero
monografico speciale di novembre, un traguardo anche per noi dopo dieci
anni d’impegno politico e culturale. Ci porremo domande magari
imbarazzanti e tuttavia ineludibili per comprendere il senso di quanto è
avvenuto. Acquisito il dato che Forza Italia non è un elemento
provvisorio della storia politica italiana, bisognerà stabilire che cosa
la sua irruzione sulla scena politica ha determinato e che cosa ancora
potrà determinare.
Il 2002 si è chiuso con segnali contraddittori: l’Italia si è ben
comportata sul piano internazionale guadagnando credibilità e prestigio,
ma vive una situazione interna di difficile gestione sul piano politico,
economico e sociale. Sul fronte strettamente politico è diventato più
aspro il confronto con l’opposizione, che l’attivismo dei movimenti ha
spinto su posizioni sempre più radicali; però si sviluppa male anche il
rapporto all’interno di entrambe le coalizioni. Nel corso di dicembre
proprio dentro la Casa delle Libertà le turbolenze sono state più forti:
in Parlamento è stato faticoso conservare la maggioranza compatta su
provvedimenti come la legge finanziaria e la devolution, nel Paese il
confronto si è svolto sempre più serrato sino alle aperte polemiche che
hanno accompagnato il congresso di riunificazione dei vari segmenti di
riferimento democristiano. La tendenza è di ridiscutere tutto, in
particolare riforme e sistema elettorale, temi sui quali le proposte
sono tornate a divergere.
Sul banco degli accusati siedono ormai in maniera permanente i
sostenitori del sistema maggioritario, indicato ora – dieci anni fa lo
fu il proporzionale – come la causa di tutti i mali. Della
frammentazione soprattutto, ma pure della difficoltà dei partiti ad
essere intermediari fra istituzioni ed elettori, della mancanza di
rispetto della dignità delle varie componenti, dell’impossibilità
d’instaurare un rapporto civile fra maggioranza ed opposizione in modo
da non finire su ogni provvedimento all’incomunicabilità dello schema
“muro contro muro”. Su questo versante è stato oscillante anche
l’atteggiamento di Berlusconi, in origine interprete e beneficiario del
nuovo sistema e che tuttavia ogni tanto indulge a tentazioni
proporzionali, diffuse anche in Forza Italia almeno ad alcuni livelli
della classe dirigente. È opportuno perciò sull’argomento svolgere
qualche riflessione meno approssimativa.
Il sistema elettorale non può essere concepito come un dato avulso
dall’assetto costituzionale ed in Italia funziona male perché è inserito
in un’organizzazione delle istituzioni disegnata secondo le regole del
proporzionale. Il percorso normale avrebbe richiesto che la riforma
delle istituzioni avesse preceduto quella elettorale, ma le vicende
politiche hanno invertito i tempi ed attribuito al modo di eleggere i
membri del Parlamento un compito d’innovazione eccessivo rispetto alla
sua reale portata.
Tanto è vero che, subito dopo le consultazioni politiche del 1994, il
dibattito politico si concentrò sulle riforme da completare e pure nella
legislatura successiva l’esigenza fu ritenuta pressante, anche se la
commissione Bicamerale non riuscì a portare a compimento il proprio
mandato. In verità non è il maggioritario che ha dato cattiva prova, ma
crea difficoltà enormi realizzarlo dentro un sistema costituzionale che
non lo prevede. La conseguenza sul piano politico è che le intese fra i
partiti avvengono nello spirito delle vecchie coalizioni nelle quali il
rapporto fra le varie componenti è concorrenziale, talvolta addirittura
conflittuale. Perciò la tesi secondo la quale nel sistema bipolare non
valgono le identità delle varie formazioni ma il progetto che esse
concorrono a costruire rimane un’affermazione teorica. Nella pratica è
come se nel quadro politico italiano oggi operassero non due
aggregazioni, ma due coalizioni, ognuna somigliante al “pentapartito” di
vecchia memoria con la carica di conflittualità ed il limite di
operatività di quella formula.È un blocco da rimuovere perché la domanda
che si pone è la seguente: è possibile svolgere un ruolo di rinnovamento
senza realizzare le riforme che sono indispensabili per governare in
modo efficiente il Paese e per essere protagonisti in Europa, dove è in
corso la scrittura della Carta costituzionale del continente? In Italia
l’opposizione palesemente lavora per bloccare il processo di
modernizzazione e c’è chi nella maggioranza, per calcolo o per
superficialità, sembra partecipare a questo gioco.
L’Ulivo, infatti, che al tempo di Prodi si occupò di riforme sino ad
istituire un’apposita commissione, oggi nega al Polo persino di
segnalarne l’esigenza. Se passa la tesi che le riforme si fanno solo se
c’è l’accordo di tutti, il diniego assoluto e preventivo dell’Ulivo
equivale ad escludere che nella legislatura in corso si possa mettere
mano a qualsiasi riforma. Una tesi suicida per la Casa delle Libertà,
perché chi vince le elezioni assumendosi l’impegno di rinnovare lo Stato
ha non il diritto, ma il dovere di rispettare il patto con gli elettori.
Peraltro, le modifiche alla Costituzione richiedono che sia seguito un
particolare iter e che alle decisioni concorra una maggioranza
qualificata di parlamentari. Sarebbe auspicabile che le riforme si
realizzassero con la responsabile partecipazione di tutti ma, se queste
condizioni non sono realizzabili per via dell’ostinata e precostituita
avversione di una parte, vale la regola del consenso elettorale e della
rappresentanza parlamentare. Siamo giunti al punto che Berlusconi è
stato indicato come attentatore di Ciampi per aver ribadito che il
presidenzialismo è una delle riforme previste dal programma elettorale
del Polo: qualsiasi banalità è ritenuta utile a garantire la paralisi,
la conservazione dello stato attuale delle cose.
Per ora le rilevazioni del Censis non indicano bene se Berlusconi è
ritenuto dagli italiani responsabile o vittima di questa situazione;
però indicano l’urgenza di una sua iniziativa nella direzione del
rispetto degli impegni assunti. Fra questi assume particolare importanza
la maturazione del processo di cambiamento della società italiana.
L’impressione è che i cittadini vogliano procedere nel senso della
modernizzazione e che non avvertano la nostalgia della quale fanno
mostra dirigenti di vecchia tradizione politica, magari giovani solo
anagraficamente. D’altronde in Europa, oltre alle riforme dibattute
dalla Convenzione, altri Paesi hanno introdotto nei rispettivi sistemi
costituzionali modifiche e cambiamenti significativi. È pertanto un
pericoloso cumulo di ritardi quello che si registra in Italia, dove si
profilano situazioni di stallo che per alcuni aspetti ricordano gli
angosciosi giorni del declino della Prima Repubblica. Non è un caso che
il Censis abbia paragonato i due periodi ed i diversi stati d’animo,
avvertendo che il capitale di credibilità della classe dirigente è molto
diminuito.
Non è vero che la moderazione in politica si misuri sull’unico requisito
della prudenza o addirittura della rinunzia, piuttosto è vero che si
qualifica attraverso la capacità di soluzione equilibrata dei problemi.
Nel nostro Paese la lista di quelli irrisolti è diventata in dieci anni
più lunga e sarebbe un errore puntare sulla vischiosità dei processi per
dilazionare i tempi d’intervento. Come sarebbe un errore vivere nella
speranza o nel timore di trovare rifugio nel passato. La capacità di
aggregazione di Forza Italia si manifestò soprattutto proponendosi come
luogo nuovo d’incontro, dove tutti – senza rinnegare il passato –
avremmo avuto modo di ritrovarci su basi nuove per proporci diversi
rispetto alle esperienze vissute. Il problema non è che siamo cambiati,
piuttosto che siamo cambiati poco e il rischio non è che tornino i
“loro” ma che non arrivino i “nostri”. Su questi temi il dibattito è
aperto. L’auspicio è di trarre conclusioni incoraggianti per sconfiggere
la sfiducia e ritrovare la speranza.
17 gennaio 2003
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