Un indice per misurare il benessere dei popoli
di Andrea Mancia
La Heritage Foundation è, molto probabilmente, il "think tank" più
autorevole del mondo liberista e conservatore statunitense. Forte dei
suoi 250mila finanziatori privati (non sono accettati aiuti pubblici o
commesse esterne), la fondazione si propone, come si legge nello
statuto, di "elaborare e promuovere strategie politiche basate sui
principi del libero mercato, della limitazione dell'interventismo
statale, delle libertà individuali, dei valori tradizionali americani e
della difesa nazionale". Per raggiungere questi obiettivi, lo staff
della Heritage Foundation produce periodicamente ricerche dedicate
all'approfondimento di alcuni temi-chiave della politica interna ed
estera statunitense. E cerca poi, spesso con efficacia, di coinvolgere
nella discussione intorno ai temi affrontati la classe dirigente Usa: i
componenti del Congresso e dell'esecutivo, i mass-media e la comunità
accademica.
Tra tutte le attività svolte dalla Fondazione, in ogni caso, nessuna può
essere consideratà più utile ed interessante della pubblicazione
dell’Index of Economic Freedom, elaborato ogni anno (a partire dal 1995)
in collaborazione con il Wall Street Journal. L’indice misura in modo
sintetico il grado di libertà economica esistente in un numero crescente
di paesi (156 stati nell’ultima edizione). L’analisi affronta una
cinquantina di variabili indipendenti che vengono poi raggruppate in 10
fattori-chiave: politiche commerciali, pressione fiscale, intervento
pubblico nell’economia, politiche monetarie, flussi di capitali e
investimenti stranieri, attività bancaria, salari e prezzi, diritti di
proprietà, regolazione, mercato nero. Ogni paese riceve, in ognuno di
questi fattori, un punteggio compreso tra 1,00 (massimo grado di libertà
economica) e 5,00 (minimo grado di libertà economica). E la media
ponderata di questi risultati fornisce il punteggio finale complessivo
(indicatore del grado di libertà economica) per ciascuno stato. Punteggi
tra 1,00 e 1,95 connotano paesi come "liberi", tra 2,00 e 2,95
"prevalentemente liberi", tra 3,00 e 3,95 "prevalentemente non liberi",
tra 4,00 e 5,00 "repressi".
Una sorta di “Top Ten” della libertà economica, dunque, che però
fornisce diversi elementi di valutazione per la comprensione della
natura e delle dinamiche dei sistemi politici. Come dimostrato
ampiamente dai curatori dell’Index, infatti, il grado di libertà
economica di un paese è strettamente ed indissolubilmente correlato con
il suo tasso di sviluppo e prosperità. I cittadini dei paesi "liberi"
guadagnano più del doppio - a parità di potere d'acquisto - di quelli
che vivono in paesi "prevalentemente liberi" (26.855 dollari pro-capite
contro 12.569). Per non parlare dei salari medi dei paesi "repressi"
(3.585 dollari all'anno). Si tratta di un dato di fatto quasi scontato,
che dovrebbe però far riflettere i tenaci avversari di qualsiasi
politica orientata verso la “liberazione” del mercato ma anche (e
soprattutto) i governanti del mondo occidentale.
Nel passaggio dal 2002 al 2003, malgrado il difficile periodo di
transizione dell’economia mondiale, 74 nazioni hanno fatto registrare un
punteggio migliore rispetto all'anno precedente, mentre 49 paesi hanno
peggiorato la loro valutazione (e 32 hanno lo stesso "score"). In ultima
analisi, 15 nazioni sono considerate "libere", 56 "prevalentemente
libere", 76 "prevalentemente non libere" e 11 "represse". La
macroregione più libera, naturalmente, resta quella composta da
Nord-America ed Europa, che raggruppa 6 delle 10 nazioni con il
punteggio più alto. Mentre le altre quattro (Hong Kong, Singapore, Nuova
Zelanda e Australia) sono ex-colonie britanniche anch'esse "baciate"
dalla Rule of Law. Delle 26 nazioni dell'area latino-americana e
caraibica, invece, 11 hanno un risultato migliore rispetto all'Index del
2002, mentre 10 sono peggiorate. Merita una citazione, malgrado una
lieve inversione di tendenza, l'economia cilena, che resta l'unica
"libera" del sub-continente. Vanno meglio le cose anche in Nord Africa e
Medio Oriente (11 paesi in crescita, 5 in calo), nella regione
sub-sahariana (19-13) e in quella che comprende Asia e Pacifico (15-9).
Tra le nazioni che si segnalano per la crescita maggiore rispetto allo
scorso anno, spiccano Madagascar, Libia, Islanda, Sud Africa, Slovenia e
Croazia. Mentre peggiora ancora una volta l'Argentina, che ha ottenuto
un pesante 0.45 in meno rispetto al 2002. Negli ultimi due anni,
l'Argentina ha perso addirittuta 0.85 punti e si trova ormai al
"confine" con i paesi "prevalentemente non liberi". E poi dicono che la
colpa è del libero mercato...
6 dicembre 2002
mancia@ideazione.com
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