Crescita economica, proprietà privata e libertà
di Massimo Lo Cicero
The Heritage Foundation e il Wall Street Journal, due istituzioni
culturali americane, elaborano dal 1995 un indice comparato della
libertà economica nel mondo contemporaneo. L'obiettivo era ed è fornire
ai dirigenti politici e alla comunità degli affari un indice oggettivo
degli spazi di libertà offerti all'iniziativa economica. L'indice copre
161 paesi ed è un indice "negativo". Per essere un paese libero bisogna
riportare un punteggio basso. L'oggetto della misurazione è la intensità
delle forze che si oppongono alla libertà degli scambi e
dell'investimento. E' disponibile, sul sito web della Fondazione, le
dimensioni dell'indice nella edizione 2003. Il mondo è più libero,
commentano gli autori del rapporto che si affianca alle graduatorie. 32
paesi hanno mantenuto inalterata la propria posizione; 74 hanno
migliorato il proprio grado di libertà e 49 hanno riportato un punteggio
peggiore. 5 paesi non sono stati ammessi alla misurazione perché erano
in condizioni di disordine interno, governati da regimi autoritari:
Angola, Burundi, Repubblica Democratica del Congo, Irak e Sudan. Ma, dei
rimanenti 156, 15 sono considerati veramente liberi, 56 sono
prevalentemente liberi, 74 risultano prevalentemente repressi,
nell'esercizio della libertà economica e 11 sono davvero repressi.
Nei primi dieci paesi, in ordine di libertà, sei si trovano in Nord
America ed in Europa e quattro sono in Asia. La parte prevalente dei
paesi con una ridotta libertà economica si trova nella regione asiatica.
Gli indicatori utilizzati per creare le graduatorie sono ricavati da 50
variabili, reciprocamente indipendenti, che si possono raggruppare in
dieci fasce secondo il contenuto della misura ottenuta. Le dieci fasce
riguardano: le politiche commerciali e la libertà degli scambi; il grado
di pressione fiscale, vale a dire il peso del settore pubblico su quello
privato; la estensione della proprietà pubblica delle risorse; la
politica monetaria e la sua efficacia nel battere la tassa sui poveri,
cioè l'inflazione; l'apertura dei mercati finanziari e la libera
trasferibilità dei capitali, in entrata ed in uscita; la libertà di
ingresso nell'attività finanziaria e la efficienza interna dei sistemi
bancari; la possibilità degli attori economici di determinare i prezzi e
di utilizzarli come drivers nel processo di allocazione delle risorse,
ivi compresa la determinazione del prezzo del lavoro, cioè dei salari;
la tutela e la diffusione dei diritti di proprietà; le contenute
dimensioni delle pratiche di regolazione amministrativa dei mercati;
l'esistenza di un'economia sommersa, non legale ma neanche collegata
all'esercizio di attività criminali, che rappresenta, in ogni caso, un
segnale dell'esistenza latente di capacità imprenditoriale.
L'Italia si colloca al ventinovesimo posto nella graduatoria mondiale
2003. Non è nei primi dieci, pur essendo il sesto paese del mondo nella
graduatoria per il Prodotto interno lordo. Singolare che, nella
graduatoria secondo il reddito pro-capite, il nostro paese sia il
ventottesimo del mondo: esiste una forte co-graduazione tra benessere
individuale e libertà economica, evidentemente. Quasi tutti i paesi
europei godono di una libertà economica più elevata di quella italiana.
Nell'ordine Lussemburgo, Irlanda, Danimarca, Regno Unito, Islanda,
Svezia, Finlandia, Olanda, Svizzera, Austria, Belgio, Germania, Cipro,
Norvegia. La Spagna si affianca all'Italia con il medesimo punteggio
mentre la Francia risulta essere la pecora nera dei grandi paesi
europei: con un piazzamento al quarantesimo posto della graduatoria:
alle spalle del Portogallo e della Lituania.
A queste informazioni statiche bisogna aggiungere anche una misura della
dinamica intervenuta dal 1995 ad oggi. Il Regno Unito è più libero: il
suo indice passa da 1,90 ad 1,85. La Germania risulta stabile su 2,10.
L'Italia migliora, perché passa da 2,50 a 2,35, come la Spagna (anche in
questo caso). La Francia peggiora perché passa da 2,30 a 2,55. I punti
più negativi del nostro paese si leggono nel livello della pressione
fiscale e in quello della regolazione amministrativa delle attività
economiche. Si registrano anche nell'economia sommersa - che viene stimata nel 25% delle
attività rilevate dalle statistiche ufficiali - e soprattutto nella
divisione tra Nord e Sud del paese, nella rigidità del mercato del
lavoro e nel livello di corruzione nella vita pubblica, più alto
che nel resto del Nord Europa.
Ma perché la tutela del diritto di proprietà risulta così importante in
queste graduatorie? Perché la proprietà ha una rilevante funzione di
ordinamento efficiente della vita sociale. La proprietà è il diritto di
disporre degli usi delle risorse - sulle quali quel diritto si esercita
- e di governare l'accesso a quegli stessi usi. Posso utilizzare bene le
mie proprietà immobiliari, o posso tutelare il loro impiego economico,
concedendole in fitto a chi paga un prezzo ragionevolmente alto: perché
egli ricaverà un valore adeguato dalla loro utilizzazione. Non è un caso
che beni pubblici, per i quali non esista un "proprietario" che ne
tuteli la utilizzazione, vengano sprecati senza senso: valga per tutti
il caso dell'aria, consumata dall'eccesso di inquinamento industriale, o
delle foreste, danneggiate dagli incendi e da altre forme di vandalismo.
Se nessuno vi chiede, e vi impone di pagare, un prezzo per accedere alle
risorse voi non potete percepirne il valore perché non potete
confrontare quel prezzo di accesso - il vostro costo - con i ricavi che
otterrete dall'uso della risorsa, cioè con i vostri benefici. Ma questa
asimmetria che vi impedisce di essere razionali nel consumo delle
risorse si trasforma in un danno sociale quando si cumula con analoghi
comportamenti diffusi. Ecco perché la tutela della proprietà è una forma
di difesa del mercato e di promozione della crescita. E se crescono le
dimensioni della torta possono crescere anche quelle delle fette da
attribuire ai vari commensali. Ma, se nessuno produce ricchezza, non
esiste alcun benessere da distribuire.
Il caso italiano rischia di avere un esito assai singolare: per
concludere. L'Italia arranca in un'Europa che arranca rispetto agli
Stati Uniti. Questa affermazione è vera se guardiamo al mondo che
abbiamo alle nostre spalle. Tra contraddizioni e problemi si vede
emergere una nuova dimensione internazionale di libertà in cui i paesi
new comers sorpassano i paesi attardati a conservare le proprie fragili
tradizioni. La storia futura dell'Italia, nell'inevitabile processo di
allargamento della Unione Europea, potrebbe essere proprio una conferma
di questo destino. Leggendo gli indici della Heritage Foundation si
scopre che una potente concorrenza latente potrebbe essere sviluppata,
nei nostri confronti, dai paesi europei reduci del catastrofico
esperimento del socialismo reale.
6 dicembre 2002
maloci@tin.it
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