Partiti e gruppi di pressione: lobbismo
all'italiana
di Carlo Chianese
Autunno, tempo di legge finanziaria. Il dibattito pubblico è in queste
settimane, come ogni anno, incentrato sul confronto tra i diversi
soggetti politici in merito al tipo di indirizzo economico-finanziario
da dare al nostro paese per i prossimi dodici mesi. E se al cittadino
comune appaiono già numerosi gli argomenti appresi dagli organi di
informazione su questa materia, molti di più sono in realtà gli
interessi di vari gruppi di potere che in diverse forme e misure
condizionano la stesura finale e l'approvazione definitiva della legge
finanziaria. Mentre nelle democrazie più avanzate gli interessi della
società sono rappresentati dai "gruppi organizzati" in quanto
espressioni autonome di tali interessi, in Italia il sistema dei gruppi
di pressione dipende dai partiti politici, passaggio obbligato per la
rappresentazione di qualsiasi istanza di rilievo sociale. Dopo la
generale crisi di credibilità che ha investito la politica italiana e
l'ingente aumento di debito pubblico è ragionevolmente prevedibile che
le lobby imprenditoriali dovranno acquisire una maggiore consapevolezza
in merito all'accettazione delle regole del mercato. E siccome la
politica economica italiana è stata costruita in decenni di eccessiva
"istituzionalizzazione", non destano meraviglia i forti condizionamenti
ideologici e clientelari che hanno portato a condotte sociali basate
sullo scambio reciproco di prestazioni e favori tra cittadini e uomini
politici.
Non è da trascurare infatti il fenomeno della corruzione che ha fertile
terreno negli spazi non adeguatamente regolamentati, ed è anche vero che
in Italia il termine "lobby" è ancora sinonimo di pratiche oscure che
condizionano le scelte economiche e sociali per favorire i cosiddetti
"poteri forti", portatori di interessi concentrati, e che tali interessi
vogliono porre al riparo dalla competizione e dal confronto dei mercati.
E mentre riduzione della spesa pubblica e lotta all'evasione fiscale
trasformano i partiti in una sorta di agenzie di servizi sociali e
politici, si determina la crescita del peso dei gruppi di pressione che
agiscono per imporre le proprie istanze verso gli uomini politici che
sembrano meglio garantire le loro istanze.
Ma rimanendo inalterato il ruolo dei partiti come controllori
dell'accesso delle lobby alle sedi decisionali sarebbe utile
riconsiderare il rapporto partiti-gruppi di pressione, da decenni ormai
presenti di fatto sulla scena politica italiana, alla luce di una chiara
ed auspicabile collocazione di tale rapporto all'interno di una
regolamentazione giuridica che abbia anche una sua genesi
costituzionale. L'articolo 3 della Costituzione va appunto in questa
direzione in quanto legittima la formazione di organismi di base che
insieme ai partiti promuovano la partecipazione dei cittadini, e quindi
anche di gruppi di cittadini, all'organizzazione sociale, politica ed
economica del paese. Tale esigenza è dettata anche dall'impossibilità
dei partiti di gestire, mediare e rappresentare tutti gli interessi di
cui si dicono portatori. Il lobbying sarà più articolato e complesso
perché si svolgerà attraverso vari passaggi tra pubblici poteri,
partiti, gruppi di pressione e viceversa, sia sul piano
politico-sostanziale che su quello giuridico-formale. I risultati
positivi andranno a vantaggio degli interessi sociali ed economici in
genere e produrranno un vantaggio per la trasparenza delle istituzioni e
della stessa attività di lobbying.
6 dicembre 2002
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