Paura e disgusto in Europa
di Giuseppe Sacco

Due sentimenti assai potenti, il disgusto e la paura - sentimenti entrambi poco costruttivi, ed entrambi assai pericolosi - hanno caratterizzato tutti i più recenti episodi elettorali della vita politica europea, con la sola eccezione - val la pena di notare - delle elezioni italiane di fine maggio. Sono sentimenti che caratterizzano, per ora, solo il clima politico-psicologico, che è cosa diversa dagli equilibri e dalla situazione politica. Questi sono, infatti, caratterizzati dal fronteggiarsi di due o più disegni che hanno una loro proposta per ogni aspetto della vita sociale, o anche dal dominare di uno solo di essi. Il "clima" politico è invece creato dagli umori dell'opinione pubblica che possono, con la mutevolezza propria dei sentimenti di massa, concentrarsi su un solo tema e dargli importanza assolutamente prevalente, almeno in quel momento. Mentre una posizione, un progetto, un partito debbono poter rispondere alla totalità dei problemi, quale che sia l'aspetto su cui caschi l'accento in un qualsiasi momento. E' con il "clima politico" oggi prevalente nel Vecchio continente, cioè con gli umori dell'opinione pubblica e le irritazioni dell'elettorato, che si possono spiegare tanto la bruciante umiliazione subìta dalla power élite francese al primo turno delle elezioni presidenziali, quanto la nascita e il brusco successo di un movimento o di una lista elettorale come quella di Fortuyn in Olanda. Altra cosa è, invece, avere la chiara percezione dei cambiamenti politici di fondo, cambiamenti che di solito si manifestano nel lungo periodo, ma attraversano oggi una fase di "accelerazione della storia". Anche una riflessione su un elemento così effimero come il clima politico consente, però, di andare a capire un po' meglio quel fenomeno anomalo che è stato chiamato "populismo", le cui ondate si susseguono a ritmo assai frequente, e che si propaga in forme diverse da un Paese d'Europa all'altro. Un fenomeno che promette di continuare, e forse di trasformarsi in qualcos'altro di più compiuto, in un vero cambiamento degli equilibri politici, se non addirittura in un rinnovamento del personale e delle "famiglie" politiche. Qualcosa di simile è già accaduto in Italia, e si verificherà probabilmente anche negli altri Paesi europei, perché le ragioni che hanno fatto diffondere questi due sentimenti - il disgusto e la paura - attraverso tutto il Vecchio continente sono ancora presenti, e non sembrano destinate ad esaurirsi nel futuro prevedibile.

Tra clima politico-psicologico e fenomeni politici compiuti c'è - come dicevamo - una netta differenza, ma esiste naturalmente reciproca influenza. Gli umori dell'opinione pubblica, le irritazioni dell'elettorato, gli entusiasmi o lo scoraggiamento, la partecipazione o il distacco nei confronti della lotta politica sono tutti elementi che finiscono spesso per sfociare nel cosiddetto voto di protesta, o nel "voto sprecato" per partiti o candidati che non hanno nessuna chance di vincere, o nell'astensionismo, o nei cosiddetti voti nulli, tra cui vengono conteggiate soprattutto le schede su cui l'elettore ha scritto insulti per la classe politica, o addirittura nel boicottaggio esplicito delle elezioni. Sono comportamenti "umorali" e sintomi di irrequietezza ma che possono, anche se non immediatamente, avere un ruolo importantissimo nel determinare la strategia e il successo di partiti o candidati "politici", cioè che hanno chances di vincere e programmi di governo completi e coerenti. Basterà ricordare la travagliata elezione presidenziale americana del 1968, che si svolse nel pieno di un periodo di profondo smarrimento, delusione e irritazione dell'opinione pubblica. Il candidato progressista era allora il presidente uscente Johnson, che in politica interna aveva fortemente sviluppato i programmi sociali della Grande Società, ed in politica estera era chiaramente impegnato a sostenere il Vietnam del Sud. Anzi, in quella guerra era impegolato fino al collo, tanto da concludere che la sola maniera onorevole per uscirne era la vittoria. E i suoi rivali repubblicani - mentre criticavano l'ampiezza delle politiche di welfare - avevano difficoltà, per il carattere anticomunista del loro partito, a contrapporgli una diversa linea di politica estera. Ma il Paese era stanco della guerra, e durante le primarie il suo malumore si espresse ripetutamente e con intensità sorprendente nei successi locali di un candidato senza speranze, il pacifista Eugene McCarthy, che contestava "da sinistra" il presidente uscente.

Voti sprecati, apparentemente buoni solo a manifestare un sentimento, ma voti il cui significato fu chiarissimo agli occhi di Johnson: "se McCarthy ha successo - egli aveva detto - avrò subito Bob Kennedy alla gola". Analoga conclusione fu tratta dal fratello del presidente assassinato: il clima politico del Paese faceva intendere umori e insofferenze che consentivano di contrapporre a Johnson un altro programma politico-militare in Asia e un altro candidato democratico alla presidenza. E lo stesso Johnson trasse dagli umori del Paese la conclusione di non ripresentarsi. Certo, il clima politico era così teso che Bob Kennedy pagò questo tentativo con la vita, lasciando aperta la via della Casa Bianca al più improbabile tra i candidati: l'arciconservatore Richard Nixon. E il principale consigliere di Nixon seppe sfruttare a fondo gli umori del Paese ed avviare la ritirata dal Vietnam. Nel giro di pochi anni, così, l'irrequietezza giovanile (che era in gran parte la paura della chiamata alle armi) ed il disgusto dell'opinione pubblica per quella che era diventata una guerra davvero "sporca", le cui ragioni geo-politiche apparivano troppo astratte, avevano reso possibile per un puro professionista - quale era Henry Kissinger - di impostare in tutta la sua completezza e complessità una strategia politica compiuta.

Campanelli d'allarme di cambiamenti profondi

Paura e disgusto sono però sentimenti che giocano soprattutto, ma non solo, nei momenti in cui si manifestano le mere avvisaglie dei cambiamenti politici, che preludono a fenomeni nuovi, o che si incontrano solo nei momenti di trasformazione accelerata. Al contrario, basta ricordare l'importanza che - all'interno dei singoli Paesi del blocco occidentale - ha avuto la paura del comunismo e dell'Armata Rossa nel determinare il consenso dell'elettorato attorno ai partiti democratico-cristiani e conservatori, anche in Paesi dove c'era più da innovare che da conservare, negli anni della Guerra Fredda, che sono anni di grande stabilità. E come sia stata la paura della rivoluzione comunista e del regime collettivista che ha spinto l'establishment dei Paesi occidentali ad essere - o almeno a comportarsi come se fosse - più democratico, corretto e aperto al "sociale" di quanto il suo istinto di potere non lo avrebbe portato ad essere. Sulla scena internazionale, poi, è ancora più evidente che è stata la paura dell'Unione Sovietica e della sua propaganda rivoluzionaria, che ha a lungo indotto la potenza egemone dell'Occidente ad ostentare una grande attenzione per gli alleati, a favorire l'indipendenza dei territori coloniali, a sostenere con aiuti materiali le politiche di sviluppo economico dei Paesi del Terzo mondo. Non a caso, tutto ciò - ed altri atteggiamenti analoghi - si è attenuato nel periodo post-comunista, anche se la potenza vittoriosa presentava il crollo dell'Urss come il trionfo del liberalismo nel campo delle relazioni internazionali come in quello dell'organizzazione economica interna, e mascherava il proprio interventismo dietro l'etichetta dei "diritti umani". E non a caso, dopo l'11 settembre, si è aperto un periodo in cui la paura americana per il terrorismo ha spinto Washington ad abbandonare l'ispirazione ideologica e utopistica di Wilson, di Truman e di Kennedy e ad avviare una politica di interventismo globale fondata esclusivamente sui propri interessi.

Ma se il ruolo determinante della paura non è certo - in politica - un fattore nuovo e sconosciuto, non lo è, peraltro, neanche il disgusto. Anzi, negli stessi anni della Guerra Fredda, del "rischio disgusto" si è dovuto tenere seriamente conto per evitare che si indebolisse il consenso politico attorno agli "insostituibili" governi anticomunisti. Il famoso "turatevi il naso e votate Dc", ne era una prova, e non certo limitata all'Italia. Anzi il "turatevi il naso" potrebbe peraltro non essere un concetto made in Italy e neanche un'invenzione di Montanelli. Anche in Inghilterra negli anni '60 i liberali invitavano a votare conservatore "turandosi il naso". Mentre è certo un'imitazione il fenomeno del tutto analogo che si è visto anche nelle recenti elezioni presidenziali francesi, quando alcuni gruppi della sinistra incitavano a votare Chirac, ma solo dopo aver infilato un paio di guanti. Paura e disgusto possono, in certe occasioni, cumulare la loro forza di spinta, oppure temperarsi reciprocamente. Semplificando al massimo, la prima combinazione si è vista nell'opposizione americana alla guerra del Vietnam. La seconda combinazione di forze è apparsa evidente in occasione delle elezioni presidenziali francesi, dove il disgusto per alcuni discorsi di Le Pen e per il suo passato personale - accusato com'è di aver partecipato alle pratiche di tortura largamente usate dall'esercito francese durante la guerra algerina - ha in parte controbilanciato la rispondenza evidente tra le preoccupazioni prevalenti di larga parte dell'opinione pubblica transalpina e i temi da lui agitati. E questi erano i temi dell'insicurezza e della criminalità dilagante, della perduta garanzia della pensione, e dell'affidabilità dei servizi sociali in generale. Erano cioè temi che puntavano ad alimentare le paure di una vasta maggioranza dei francesi e a sfruttarle elettoralmente. Al primo turno delle presidenziali, hanno prevalso le paure dei francesi. Al secondo, il disgusto per il candidato dell'estrema destra.

Il quadro, naturalmente, è un po' più complesso. Se è stato evidente che le pulsioni antisemite e razzistiche di Le Pen hanno creato un disgusto che ha controbilanciato - specie al secondo turno delle elezioni presidenziali - il fattore paura, su cui puntava il candidato di estrema destra, è anche vero che - al primo turno - le stesse spinte contrapposte avevano giocato contro i suoi avversari. In quella occasione, infatti, il disgusto per la classe politica e, in generale, il disgusto per la meschinità della routine nazionale - che è forte in Francia come in altri Paesi europei - ha temperato l'altra grande paura degli europei, quella della globalizzazione. Nel ridurre a circa il trentacinque per cento complessivo la percentuale di consenso dei due candidati più importanti (uno presidente uscente, l'altro primo Ministro in carica) non potevano bastare solo gli scandali e la noia. Anche se è stato più che comprensibile che la sfida tra Jospin e Chirac venisse definita il "duello tra i due noiosi", un ruolo importante è stato anche quello che ha avuto il disgusto per i giochetti e la consumata retorica della politique politicienne, per il conformismo asfissiante che domina nella vita interna del Paese, sia nella prassi del potere che nelle ossessive campagne propagandistiche per ottenere il consenso elettorale al regime della co-abitazione, campagne propagandistiche che sono martellanti nei media, nelle università, dappertutto.

Di questa plumbea political correctness contro cui l'opinione pubblica europea non riesce più a nascondere il proprio disgusto, fanno, naturalmente, parte in primo luogo le tematiche nazionalistiche, ormai oscillanti tra il funereo e il patetico, in tempi di globalizzazione economica e di ristrutturazione imperiale dell'ordine mondiale. E poi, le tematiche ideologiche e culturali che non riescono a superare la rimasticatura di un marxismo chiaramente appreso sul Bignami, e ciò mentre l'Occidente vive una fase della sua storia in cui le ideologie sono in piena crisi, ed intere biblioteche hanno perso ogni capacità di aiutare un'interpretazione della realtà vivente, e si sono trasformate in archivi di documenti d'epoca. Ad imitazione dell'America nel repertorio del conformismo hanno trovato posto persino alcune tematiche religiose, in cui riemerge il ridicolo "antipapismo" di un mondo ormai a totale dominante culturale anglosassone, ma in cui il protestantesimo originario si è dissolto, trasformandosi in una semplice mentalità volta al successo e quindi agli affari. E infine ci sono le tematiche protezionistiche e burocratico-dirigiste, in un'economia mondiale dove ormai - come la generazione Internet ha chiaramente percepito - contano soprattutto i flussi di informazioni, di tecnologie, di capitali, di merci, e - in minor misura - di uomini; in cui conta la trasformazione tecnologica e la capacità dei singoli di arricchirsi cavalcandola finché essa corre, e poi abbandonandola rapidamente.

E siccome la "generazione Internet" ha ormai compiuto trent'anni, la frattura con le élites del potere, in tutti i Paesi europei, appare assai grave e l'establishment avverte di essere impreparato alla globalizzazione, e sgomento di fronte ad essa. L'establishment, perciò, vive anch'esso nella paura e cerca, per mantenersi a galla, di "combattere il fuoco con il fuoco", di sfruttare le paure dell'elettorato e il capriccioso combinarsi dei loro variabili umori. Le paure che determinano il clima spirituale e politico dell'Europa d'oggi, appaiono così una mescolanza di paure vecchie e nuove. Si tratta molto spesso di timori legati a fenomeni già da lungo tempo presenti nella società, ma in maniera non acuta, come portato di minacce diffuse, di cui la più tipica è quella nei confronti dell'immigrato. Se la sensibilità a tali fenomeni risulta oggi accresciuta, è per il venir meno di paure vecchie, in particolare quella del comunismo, la cui morte ha riportato al primo posto problemi un tempo considerati secondari ma anche di paure ancora più antiche: quella del nazismo e del fascismo, razzista, nazionalista, gerarchico, tardo-romantico, che hanno reso meno automatica la condanna dei sentimenti xenofobi. Il caso Fortuyn è in questo senso assai significativo. Per lanciare la sua folgorante - e brevissima - carriera politica, egli ha infatti potuto riprendere temi la cui ultima fase di popolarità era stata negli anni Trenta - come il tema della "superiorità" di alcune culture su altre - e mescolarli senza che ciò suscitasse scandalo (anzi con notevole successo popolare) a tematiche prodotte dalle società affluenti degli anni Sessanta, e diventate luogo comune di massa, nel chiassoso "assalto al cielo" della generazione sessantottina e post-sessantottina. E' un cocktail, come si è visto, che può essere assai inebriante, e che fa apparire come una svista colossale quella di paragonare Fortuyn a Le Pen. Per capire il fenomeno da lui rappresentato e la bizzarra mescolanza di posizioni libertarie e xenofobe, di tolleranza della diversità sessuale e di ostilità contro gli immigrati e in particolare contro gli islamici, è perciò più utile fare il parallelo con un altro leader, di casa nostra, questo. E che non è Bossi, che pure in genere viene citato quando - confondendo movimenti tra loro assai diversi - si tracciano pasticciati affreschi pan-europei di questa "nuova destra", bensì Marco Pannella, che con un cocktail non molto dissimile riuscì a raccogliere qualche anno fa addirittura un sette per cento alle elezioni europee.

I radicali sono stati più volte, negli ultimi decenni, termometro del "clima politico", degli umori e talora dell'esasperazione degli italiani. Pur fregiandosi del nome di "partito", e pur essendo in esistenza fin dal 1956 - avendo cioè una storia infinitamente più lunga di quella del partito di Pim Fortuyn - i radicali non presentano il profilo, come lo abbiamo brevemente descritto, di una forza politica compiuta, o almeno non lo presentano più da quando Marco Pannella ne è diventato leader. Il ruolo giocato da questa singolare personalità nell'evoluzione della società italiana negli ultimi decenni è certamente assai importante, ma è consistito soprattutto nel fare emergere trasformazioni anche profondissime che i partiti tradizionali non osavano neanche prendere in considerazione, provocando come conseguenza sconquassi epocali nel sistema. E tutta l'attività dei radicali è stata volta più a destabilizzare situazioni, che a offrire progetti precisi per la creazione di equilibri più avanzati, mentre le limitate forze dell'uomo e dei suoi seguaci si concentravano su temi specifici, ma non erano in grado di offrire un disegno complessivo, che comprendesse, ad esempio, una strategia economica, un'articolata visione in materia internazionale, militare, sociale, ecc. Cioè non erano in grado di offrire una politica compiuta ed organica, e forse non erano neanche interessati a farlo. Farlo è toccato ad altre forze, più burocratiche, più lente, meno audaci, ma anche più strutturate, più rispondenti ad interessi organizzati e costituiti nella società, in una parola: a forze più autenticamente politiche.

E la somiglianza tra Fortuyn e Pannella è uno dei più singolari punti di contatto tra l'attuale evoluzione del clima politico dell'Europa in generale e quello dell'Italia in particolare. Ma non è l'unico, ed è - in definitiva - solo un punto di contatto secondario. Perché - a parte ogni altra differenza di contenuto e di merito - esiste tra l'evoluzione del sentimento pubblico nel nostro Paese e nel resto d'Europa un chiaro parallelismo, anche se con un netto divario temporale. Nel senso che, in questo campo, l'Italia precede l'evoluzione europea circa una decina, che non sono pochi, in politica, di anni. Sottolineare questo tipo di parallelismi è sempre un'operazione audace. Nonostante tutte le convergenze dell'ultimo cinquantennio, le società politiche europee mantengono, infatti, forti elementi di differenza. E tra le vicende dei vari Paesi è, quindi, necessario fare le dovute distinzioni. Per quel che riguarda la Francia, va per esempio tenuto conto del fatto che il fenomeno non ha nulla dell'improvvisa e sorprendente fiammata sprigionatasi in Olanda attorno alle provocazioni di Fortuyn. Al contrario, si tratta di un fenomeno che - specie per quel che riguarda l'antisemitismo - ha tutta la muffa della viellie France, e in cui la rivolta contro l'inefficienza di una élite incrostata al potere in maniera ormai divenuta intollerabile si è per un verso incanalata in odi e risentimenti che risalgono alla guerra d'Algeria, e per un altro verso si innesta - paradossalmente - sullo scontento derivante da una patente discriminazione ai danni dei francesi di origine araba, anche se di seconda o terza generazione.

Metabolizzare la protesta: il caso italiano

In Germania, invece, il peso del passato - cioè il disgusto, vero o forzato che sia - nei confronti dei neo-nazisti, impedisce da anni che le paure della popolazione prendano questo sinistro profilo e finiscano per dirigere il voto protestatario verso i comunisti dell'ex Ddr, o verso il partito del "giudice inflessibile" di Amburgo. Ma una volta fatte le debite differenze, i casi suddetti - così come quelli del movimento anti-immigrati in Danimarca, del British National Party in Inghilterra, dei movimenti isolazionisti in Svizzera, ecc. - appaiono abbastanza analoghi da poterli considerare correlati, e quindi da consentire di prenderli in esame come un fenomeno unico, ancorché fortemente venato di componenti locali. E, soprattutto, consente di confrontarlo al fenomeno elettorale che si ebbe in Italia con le elezioni politiche del 1992, quando la Lega Nord portò a sorpresa in Parlamento ben 25 senatori e 55 deputati. Fu, quello, un fenomeno dirompente, uno scatto di insofferenza e di protesta, un'esplosione che chiaramente indicò quale fosse l'umore del Paese, in una parola il "clima" politico. Ma poco più, perché nel sistema politico corporativo-consociativo che reggeva l'Italia di allora, il voto per la Lega era un voto di protesta, un "voto sprecato". Eppure è stato in virtù di quel segnale di un'insoddisfazione dell'elettorato italiano per i vecchi partiti che fu possibile, due anni dopo, la nascita di Forza Italia e l'inizio di un processo di rinnovamento della classe politica di governo del nostro Paese che - si spera - è lungi dall'essere terminato.

Certo, la Lega Nord non poteva essere definita un movimento "nazionalista", come invece fanno alcuni politologi inglesi a proposito della destra radicale europea. Al contrario, la Lega Nord - che da anni aveva una sua rappresentanza ai margini del sistema - era allora un movimento regionalista che esprimeva i sentimenti e le illusioni di una parte del Paese, forse culturalmente arretrata, ma in rapido sviluppo sulla base di un modello export-oriented, e che trovava un'occasione storica che sembrava fatta su misura per lei nel clima intellettuale dell'immediato post-comunismo, in cui era esplosa la globalizzazione e il mito della fine dello Stato nazionale. Il successo della Lega Nord si innestava anche su un residuo di rivalità tra Nord e Sud Italia e su un arcaico sentimento "austriacante" che, nello smarrimento determinato dalla fine dell'impero sovietico, oltre a giocare un tragico ruolo in Slovenia e Croazia, diede qualche segno della sua esistenza anche in Ungheria e in Cecoslovacchia. Ma era una congiuntura storica assai fragile e fatalmente effimera. Perciò, se la Lega finisce oggi per essere affastellata tra movimenti "nazionalisti" d'Europa, non è solo per la superficialità di molti commentatori, ma perché anch'essa ha intelligentemente messo a frutto - per evolvere - i dieci anni di vantaggio che la stagione politica italiana ha sul resto delle società dell'Europa continentale. Essa ha compiuto un'obiettiva evoluzione, prendendo coscienza che l'unica identità popolare cui sia oggi possibile appellarsi in Italia, è quella italiana, e non certo quella, astratta, della Padania. Anche l'evoluzione della Lega mostra, insomma, che l'Italia è avanti di un decennio sul resto del Vecchio continente.

Si potrebbe osservare che il passaggio dai successi della Lega alla vittoria di Berlusconi non è così lineare come quello dalle vittorie di McCarthy alle primarie e la discesa in campo di Bob Kennedy. Che il decennio degli anni Novanta è stato in gran parte perduto. Che, in definitiva, la coalizione di Berlusconi non riuscì, dopo la vittoria del 1994, a governare che sette brevi ed agitati mesi, e che fu proprio la Lega a determinarne la caduta. Ma ciò avvenne probabilmente proprio perché il leader leghista avvertiva - con l'istinto e il fiuto politico che lo caratterizzano - che Forza Italia era un tentativo di trovare una risposta nazionale e a livello di alternativa politica - e non più fondato su frustrazioni provinciali e scatto umorale - all'insoddisfazione degli italiani. E che, pertanto, essa rappresentava una minaccia per il movimento guidato da Umberto Bossi, che sarebbe stato travolto e assorbito, così come nel 1968 il "voto di protesta" e quindi "sprecato" per McCarthy era stato risucchiato dal consenso per Bob Kennedy, candidato "politico". E se si volesse poi ricavare, dalla breve durata del primo governo Berlusconi, il significato di una ridotta rilevanza storica di quella transizione, sarebbe facile controbattere che anche il primo governo laburista inglese giunto a Downing Street sotto la guida di Ramsey McDonald a fine gennaio del 1924, nel quadro di una rivolta contro l'establishment che - dopo la Prima guerra mondiale - scosse profondamente tutta l'Europa, riuscì a resistere in Parlamento soltanto per sette mesi. Ma ciò non gli impedì di tornare successivamente al potere con una vittoria elettorale e di trasformare così profondamente la società britannica con l'introduzione del welfare state, che nessun governo conservatore arrivato al potere negli ottant'anni successivi ha potuto disfare quell'opera. Neanche quando a guidarlo c'è stata la signora Thatcher.

Paura e disgusto, rabbia e protesta non sono - come dicevamo - in grado di produrre direttamente fenomeni, proposte e soluzioni politiche, ma solo di creare il clima necessario perché queste vengano tentate: il clima di irrequietezza dell'opinione pubblica e di rifiuto contro i politici di professione, contro le burocrazie di partito, contro i leaders figli di leaders cresciuti nel serraglio dell'apparato, contro la mancanza di idee, di soluzioni innovative, di contatto con una realtà che cambia tumultuosamente. E, soprattutto, paura e disgusto esprimono il rigetto umano, prima che politico, della mentalità di una casta dei politici di professione, casta che si considera pregiudizialmente superiore e che ritiene di poter cambiare slogans e parole d'ordine, casacche ideologiche e punti di riferimento internazionali, mantenendo, sempre e comunque, al potere le stesse dinastie politiche e intellettuali.

Una rivolta contro la vecchia èlite

Il crollo di questa vecchia nomenklatura è visibile dappertutto in Europa. E se in Italia il fenomeno è avvenuto con un decennio d'anticipo, non è naturalmente perché gli italiani siano più intelligenti o più maturi degli altri, ma soltanto perché nel nostro Paese questa casta si era più strettamente identificata con gli equilibri della Guerra Fredda. I democristiani come garanzia della permanenza della società italiana nell'Occidente, e i comunisti come il partito di obbedienza sovietica che più di ogni altro al mondo riusciva a raccogliere adesioni spontanee. Screditati i secondi, e non più indispensabili i primi, dopo il crollo del comunismo ed il dissolvimento dell'Unione Sovietica, l'Italia è stata perciò investita dall'aria nuova molto più immediatamente, direttamente ed apertamente di quanto non sia accaduto ai Paesi in cui si era stabilizzata l'alternanza tra socialdemocrazia e conservatori "illuminati", forze politiche che conducevano la lotta contro la minaccia rivoluzionaria attraverso il welfare state, cioè ammortizzando le iniquità sociali più stridenti. In misura certamente minore, ma forse non irrilevante, l'Italia è stata, poi, favorita nell'accelerare i tempi del rinnovamento dal fatto di essere riuscita ad esprimere un leader di tipo animalo rispetto al passato. Su tale leader è naturalmente troppo presto per esprimere un giudizio storico. Ed il clima politico è troppo caldo anche per qualsiasi giudizio che abbia un minimo di obiettività. Ma si può già dire che - se non altro per estrazione professionale e formazione - Berlusconi presenta caratteristiche, connotazione sociale e interessi intellettuali molto diversi tanto da quelli del personale politico-burocratico del passato, quanto da quello dei leaders populisti ai quali è stato talora assimilato. E forse è stato proprio per il fatto di essere diverso dagli uni e dagli altri che è riuscito a trasformare in un fenomeno abbastanza compiutamente politico il rigetto e la protesta che gli italiani - all'inizio degli anni Novanta - avevano espresso nel massiccio consenso popolare al referendum di Segni, all'inchiesta di Mani pulite e alla persona di Antonio Di Pietro, e infine nel voto per la Lega. Cosicché Berlusconi si trova ad essere per alcuni aspetti beneficiario, per altri causa determinante, in Italia, di quel tentativo di rinnovamento che, in modi diversi, appare necessario in quasi tutte le nazioni dell'Europa continentale. Tentativo che, nella maggior parte di esse, è ancora lontanissimo dal grado di avanzamento raggiunto nel nostro Paese, e che quindi si esprime attraverso fiammate xenofobe o reazionarie, populiste o nazionaliste. Fenomeni politicamente rozzi, che mostrano ancora crudamente la paura e il disgusto che ne sono all'origine.

27 settembre 2002

(da Ideazione 4-2002, luglio-agosto)