Paura e disgusto in Europa
di Giuseppe Sacco
Due sentimenti assai potenti, il disgusto e la paura - sentimenti
entrambi poco costruttivi, ed entrambi assai pericolosi - hanno
caratterizzato tutti i più recenti episodi elettorali della vita
politica europea, con la sola eccezione - val la pena di notare - delle
elezioni italiane di fine maggio. Sono sentimenti che caratterizzano,
per ora, solo il clima politico-psicologico, che è cosa diversa dagli
equilibri e dalla situazione politica. Questi sono, infatti,
caratterizzati dal fronteggiarsi di due o più disegni che hanno una loro
proposta per ogni aspetto della vita sociale, o anche dal dominare di
uno solo di essi. Il "clima" politico è invece creato dagli umori
dell'opinione pubblica che possono, con la mutevolezza propria dei
sentimenti di massa, concentrarsi su un solo tema e dargli importanza
assolutamente prevalente, almeno in quel momento. Mentre una posizione,
un progetto, un partito debbono poter rispondere alla totalità dei
problemi, quale che sia l'aspetto su cui caschi l'accento in un
qualsiasi momento. E' con il "clima politico" oggi prevalente nel
Vecchio continente, cioè con gli umori dell'opinione pubblica e le
irritazioni dell'elettorato, che si possono spiegare tanto la bruciante
umiliazione subìta dalla power élite francese al primo turno delle
elezioni presidenziali, quanto la nascita e il brusco successo di un
movimento o di una lista elettorale come quella di Fortuyn in Olanda.
Altra cosa è, invece, avere la chiara percezione dei cambiamenti
politici di fondo, cambiamenti che di solito si manifestano nel lungo
periodo, ma attraversano oggi una fase di "accelerazione della storia".
Anche una riflessione su un elemento così effimero come il clima
politico consente, però, di andare a capire un po' meglio quel fenomeno
anomalo che è stato chiamato "populismo", le cui ondate si susseguono a
ritmo assai frequente, e che si propaga in forme diverse da un Paese
d'Europa all'altro. Un fenomeno che promette di continuare, e forse di
trasformarsi in qualcos'altro di più compiuto, in un vero cambiamento
degli equilibri politici, se non addirittura in un rinnovamento del
personale e delle "famiglie" politiche. Qualcosa di simile è già
accaduto in Italia, e si verificherà probabilmente anche negli altri
Paesi europei, perché le ragioni che hanno fatto diffondere questi due
sentimenti - il disgusto e la paura - attraverso tutto il Vecchio
continente sono ancora presenti, e non sembrano destinate ad esaurirsi
nel futuro prevedibile.
Tra clima politico-psicologico e fenomeni politici compiuti c'è - come
dicevamo - una netta differenza, ma esiste naturalmente reciproca
influenza. Gli umori dell'opinione pubblica, le irritazioni
dell'elettorato, gli entusiasmi o lo scoraggiamento, la partecipazione o
il distacco nei confronti della lotta politica sono tutti elementi che
finiscono spesso per sfociare nel cosiddetto voto di protesta, o nel
"voto sprecato" per partiti o candidati che non hanno nessuna chance di
vincere, o nell'astensionismo, o nei cosiddetti voti nulli, tra cui
vengono conteggiate soprattutto le schede su cui l'elettore ha scritto
insulti per la classe politica, o addirittura nel boicottaggio esplicito
delle elezioni. Sono comportamenti "umorali" e sintomi di irrequietezza
ma che possono, anche se non immediatamente, avere un ruolo
importantissimo nel determinare la strategia e il successo di partiti o
candidati "politici", cioè che hanno chances di vincere e programmi di
governo completi e coerenti. Basterà ricordare la travagliata elezione
presidenziale americana del 1968, che si svolse nel pieno di un periodo
di profondo smarrimento, delusione e irritazione dell'opinione pubblica.
Il candidato progressista era allora il presidente uscente Johnson, che
in politica interna aveva fortemente sviluppato i programmi sociali
della Grande Società, ed in politica estera era chiaramente impegnato a
sostenere il Vietnam del Sud. Anzi, in quella guerra era impegolato fino
al collo, tanto da concludere che la sola maniera onorevole per uscirne
era la vittoria. E i suoi rivali repubblicani - mentre criticavano
l'ampiezza delle politiche di welfare - avevano difficoltà, per il
carattere anticomunista del loro partito, a contrapporgli una diversa
linea di politica estera. Ma il Paese era stanco della guerra, e durante
le primarie il suo malumore si espresse ripetutamente e con intensità
sorprendente nei successi locali di un candidato senza speranze, il
pacifista Eugene McCarthy, che contestava "da sinistra" il presidente
uscente.
Voti sprecati, apparentemente buoni solo a manifestare un sentimento, ma
voti il cui significato fu chiarissimo agli occhi di Johnson: "se
McCarthy ha successo - egli aveva detto - avrò subito Bob Kennedy alla
gola". Analoga conclusione fu tratta dal fratello del presidente
assassinato: il clima politico del Paese faceva intendere umori e
insofferenze che consentivano di contrapporre a Johnson un altro
programma politico-militare in Asia e un altro candidato democratico
alla presidenza. E lo stesso Johnson trasse dagli umori del Paese la
conclusione di non ripresentarsi. Certo, il clima politico era così teso
che Bob Kennedy pagò questo tentativo con la vita, lasciando aperta la
via della Casa Bianca al più improbabile tra i candidati:
l'arciconservatore Richard Nixon. E il principale consigliere di Nixon
seppe sfruttare a fondo gli umori del Paese ed avviare la ritirata dal
Vietnam. Nel giro di pochi anni, così, l'irrequietezza giovanile (che
era in gran parte la paura della chiamata alle armi) ed il disgusto
dell'opinione pubblica per quella che era diventata una guerra davvero
"sporca", le cui ragioni geo-politiche apparivano troppo astratte,
avevano reso possibile per un puro professionista - quale era Henry
Kissinger - di impostare in tutta la sua completezza e complessità una
strategia politica compiuta.
Campanelli d'allarme di cambiamenti profondi
Paura e disgusto sono però sentimenti che giocano soprattutto, ma non
solo, nei momenti in cui si manifestano le mere avvisaglie dei
cambiamenti politici, che preludono a fenomeni nuovi, o che si
incontrano solo nei momenti di trasformazione accelerata. Al contrario,
basta ricordare l'importanza che - all'interno dei singoli Paesi del
blocco occidentale - ha avuto la paura del comunismo e dell'Armata Rossa
nel determinare il consenso dell'elettorato attorno ai partiti
democratico-cristiani e conservatori, anche in Paesi dove c'era più da
innovare che da conservare, negli anni della Guerra Fredda, che sono
anni di grande stabilità. E come sia stata la paura della rivoluzione
comunista e del regime collettivista che ha spinto l'establishment dei
Paesi occidentali ad essere - o almeno a comportarsi come se fosse - più
democratico, corretto e aperto al "sociale" di quanto il suo istinto di
potere non lo avrebbe portato ad essere. Sulla scena internazionale,
poi, è ancora più evidente che è stata la paura dell'Unione Sovietica e
della sua propaganda rivoluzionaria, che ha a lungo indotto la potenza
egemone dell'Occidente ad ostentare una grande attenzione per gli
alleati, a favorire l'indipendenza dei territori coloniali, a sostenere
con aiuti materiali le politiche di sviluppo economico dei Paesi del
Terzo mondo. Non a caso, tutto ciò - ed altri atteggiamenti analoghi -
si è attenuato nel periodo post-comunista, anche se la potenza
vittoriosa presentava il crollo dell'Urss come il trionfo del
liberalismo nel campo delle relazioni internazionali come in quello
dell'organizzazione economica interna, e mascherava il proprio
interventismo dietro l'etichetta dei "diritti umani". E non a caso, dopo
l'11 settembre, si è aperto un periodo in cui la paura americana per il
terrorismo ha spinto Washington ad abbandonare l'ispirazione ideologica
e utopistica di Wilson, di Truman e di Kennedy e ad avviare una politica
di interventismo globale fondata esclusivamente sui propri interessi.
Ma se il ruolo determinante della paura non è certo - in politica - un
fattore nuovo e sconosciuto, non lo è, peraltro, neanche il disgusto.
Anzi, negli stessi anni della Guerra Fredda, del "rischio disgusto" si è
dovuto tenere seriamente conto per evitare che si indebolisse il
consenso politico attorno agli "insostituibili" governi anticomunisti.
Il famoso "turatevi il naso e votate Dc", ne era una prova, e non certo
limitata all'Italia. Anzi il "turatevi il naso" potrebbe peraltro non
essere un concetto made in Italy e neanche un'invenzione di Montanelli.
Anche in Inghilterra negli anni '60 i liberali invitavano a votare
conservatore "turandosi il naso". Mentre è certo un'imitazione il
fenomeno del tutto analogo che si è visto anche nelle recenti elezioni
presidenziali francesi, quando alcuni gruppi della sinistra incitavano a
votare Chirac, ma solo dopo aver infilato un paio di guanti. Paura e
disgusto possono, in certe occasioni, cumulare la loro forza di spinta,
oppure temperarsi reciprocamente. Semplificando al massimo, la prima
combinazione si è vista nell'opposizione americana alla guerra del
Vietnam. La seconda combinazione di forze è apparsa evidente in
occasione delle elezioni presidenziali francesi, dove il disgusto per
alcuni discorsi di Le Pen e per il suo passato personale - accusato
com'è di aver partecipato alle pratiche di tortura largamente usate
dall'esercito francese durante la guerra algerina - ha in parte
controbilanciato la rispondenza evidente tra le preoccupazioni
prevalenti di larga parte dell'opinione pubblica transalpina e i temi da
lui agitati. E questi erano i temi dell'insicurezza e della criminalità
dilagante, della perduta garanzia della pensione, e dell'affidabilità
dei servizi sociali in generale. Erano cioè temi che puntavano ad
alimentare le paure di una vasta maggioranza dei francesi e a sfruttarle
elettoralmente. Al primo turno delle presidenziali, hanno prevalso le
paure dei francesi. Al secondo, il disgusto per il candidato
dell'estrema destra.
Il quadro, naturalmente, è un po' più complesso. Se è stato evidente che
le pulsioni antisemite e razzistiche di Le Pen hanno creato un disgusto
che ha controbilanciato - specie al secondo turno delle elezioni
presidenziali - il fattore paura, su cui puntava il candidato di estrema
destra, è anche vero che - al primo turno - le stesse spinte
contrapposte avevano giocato contro i suoi avversari. In quella
occasione, infatti, il disgusto per la classe politica e, in generale,
il disgusto per la meschinità della routine nazionale - che è forte in
Francia come in altri Paesi europei - ha temperato l'altra grande paura
degli europei, quella della globalizzazione. Nel ridurre a circa il
trentacinque per cento complessivo la percentuale di consenso dei due
candidati più importanti (uno presidente uscente, l'altro primo Ministro
in carica) non potevano bastare solo gli scandali e la noia. Anche se è
stato più che comprensibile che la sfida tra Jospin e Chirac venisse
definita il "duello tra i due noiosi", un ruolo importante è stato anche
quello che ha avuto il disgusto per i giochetti e la consumata retorica
della politique politicienne, per il conformismo asfissiante che domina
nella vita interna del Paese, sia nella prassi del potere che nelle
ossessive campagne propagandistiche per ottenere il consenso elettorale
al regime della co-abitazione, campagne propagandistiche che sono
martellanti nei media, nelle università, dappertutto.
Di questa plumbea political correctness contro cui l'opinione pubblica
europea non riesce più a nascondere il proprio disgusto, fanno,
naturalmente, parte in primo luogo le tematiche nazionalistiche, ormai
oscillanti tra il funereo e il patetico, in tempi di globalizzazione
economica e di ristrutturazione imperiale dell'ordine mondiale. E poi,
le tematiche ideologiche e culturali che non riescono a superare la
rimasticatura di un marxismo chiaramente appreso sul Bignami, e ciò
mentre l'Occidente vive una fase della sua storia in cui le ideologie
sono in piena crisi, ed intere biblioteche hanno perso ogni capacità di
aiutare un'interpretazione della realtà vivente, e si sono trasformate
in archivi di documenti d'epoca. Ad imitazione dell'America nel
repertorio del conformismo hanno trovato posto persino alcune tematiche
religiose, in cui riemerge il ridicolo "antipapismo" di un mondo ormai a
totale dominante culturale anglosassone, ma in cui il protestantesimo
originario si è dissolto, trasformandosi in una semplice mentalità volta
al successo e quindi agli affari. E infine ci sono le tematiche
protezionistiche e burocratico-dirigiste, in un'economia mondiale dove
ormai - come la generazione Internet ha chiaramente percepito - contano
soprattutto i flussi di informazioni, di tecnologie, di capitali, di
merci, e - in minor misura - di uomini; in cui conta la trasformazione
tecnologica e la capacità dei singoli di arricchirsi cavalcandola finché
essa corre, e poi abbandonandola rapidamente.
E siccome la "generazione Internet" ha ormai compiuto trent'anni, la
frattura con le élites del potere, in tutti i Paesi europei, appare
assai grave e l'establishment avverte di essere impreparato alla
globalizzazione, e sgomento di fronte ad essa. L'establishment, perciò,
vive anch'esso nella paura e cerca, per mantenersi a galla, di
"combattere il fuoco con il fuoco", di sfruttare le paure
dell'elettorato e il capriccioso combinarsi dei loro variabili umori. Le
paure che determinano il clima spirituale e politico dell'Europa d'oggi,
appaiono così una mescolanza di paure vecchie e nuove. Si tratta molto
spesso di timori legati a fenomeni già da lungo tempo presenti nella
società, ma in maniera non acuta, come portato di minacce diffuse, di
cui la più tipica è quella nei confronti dell'immigrato. Se la
sensibilità a tali fenomeni risulta oggi accresciuta, è per il venir
meno di paure vecchie, in particolare quella del comunismo, la cui morte
ha riportato al primo posto problemi un tempo considerati secondari ma
anche di paure ancora più antiche: quella del nazismo e del fascismo,
razzista, nazionalista, gerarchico, tardo-romantico, che hanno reso meno
automatica la condanna dei sentimenti xenofobi. Il caso Fortuyn è in
questo senso assai significativo. Per lanciare la sua folgorante - e
brevissima - carriera politica, egli ha infatti potuto riprendere temi
la cui ultima fase di popolarità era stata negli anni Trenta - come il
tema della "superiorità" di alcune culture su altre - e mescolarli senza
che ciò suscitasse scandalo (anzi con notevole successo popolare) a
tematiche prodotte dalle società affluenti degli anni Sessanta, e
diventate luogo comune di massa, nel chiassoso "assalto al cielo" della
generazione sessantottina e post-sessantottina. E' un cocktail, come si
è visto, che può essere assai inebriante, e che fa apparire come una
svista colossale quella di paragonare Fortuyn a Le Pen. Per capire il
fenomeno da lui rappresentato e la bizzarra mescolanza di posizioni
libertarie e xenofobe, di tolleranza della diversità sessuale e di
ostilità contro gli immigrati e in particolare contro gli islamici, è
perciò più utile fare il parallelo con un altro leader, di casa nostra,
questo. E che non è Bossi, che pure in genere viene citato quando -
confondendo movimenti tra loro assai diversi - si tracciano pasticciati
affreschi pan-europei di questa "nuova destra", bensì Marco Pannella,
che con un cocktail non molto dissimile riuscì a raccogliere qualche
anno fa addirittura un sette per cento alle elezioni europee.
I radicali sono stati più volte, negli ultimi decenni, termometro del
"clima politico", degli umori e talora dell'esasperazione degli
italiani. Pur fregiandosi del nome di "partito", e pur essendo in
esistenza fin dal 1956 - avendo cioè una storia infinitamente più lunga
di quella del partito di Pim Fortuyn - i radicali non presentano il
profilo, come lo abbiamo brevemente descritto, di una forza politica
compiuta, o almeno non lo presentano più da quando Marco Pannella ne è
diventato leader. Il ruolo giocato da questa singolare personalità
nell'evoluzione della società italiana negli ultimi decenni è certamente
assai importante, ma è consistito soprattutto nel fare emergere
trasformazioni anche profondissime che i partiti tradizionali non
osavano neanche prendere in considerazione, provocando come conseguenza
sconquassi epocali nel sistema. E tutta l'attività dei radicali è stata
volta più a destabilizzare situazioni, che a offrire progetti precisi
per la creazione di equilibri più avanzati, mentre le limitate forze
dell'uomo e dei suoi seguaci si concentravano su temi specifici, ma non
erano in grado di offrire un disegno complessivo, che comprendesse, ad
esempio, una strategia economica, un'articolata visione in materia
internazionale, militare, sociale, ecc. Cioè non erano in grado di
offrire una politica compiuta ed organica, e forse non erano neanche
interessati a farlo. Farlo è toccato ad altre forze, più burocratiche,
più lente, meno audaci, ma anche più strutturate, più rispondenti ad
interessi organizzati e costituiti nella società, in una parola: a forze
più autenticamente politiche.
E la somiglianza tra Fortuyn e Pannella è uno dei più singolari punti di
contatto tra l'attuale evoluzione del clima politico dell'Europa in
generale e quello dell'Italia in particolare. Ma non è l'unico, ed è -
in definitiva - solo un punto di contatto secondario. Perché - a parte
ogni altra differenza di contenuto e di merito - esiste tra l'evoluzione
del sentimento pubblico nel nostro Paese e nel resto d'Europa un chiaro
parallelismo, anche se con un netto divario temporale. Nel senso che, in
questo campo, l'Italia precede l'evoluzione europea circa una decina,
che non sono pochi, in politica, di anni. Sottolineare questo tipo di
parallelismi è sempre un'operazione audace. Nonostante tutte le
convergenze dell'ultimo cinquantennio, le società politiche europee
mantengono, infatti, forti elementi di differenza. E tra le vicende dei
vari Paesi è, quindi, necessario fare le dovute distinzioni. Per quel
che riguarda la Francia, va per esempio tenuto conto del fatto che il
fenomeno non ha nulla dell'improvvisa e sorprendente fiammata
sprigionatasi in Olanda attorno alle provocazioni di Fortuyn. Al
contrario, si tratta di un fenomeno che - specie per quel che riguarda
l'antisemitismo - ha tutta la muffa della viellie France, e in cui la
rivolta contro l'inefficienza di una élite incrostata al potere in
maniera ormai divenuta intollerabile si è per un verso incanalata in odi
e risentimenti che risalgono alla guerra d'Algeria, e per un altro verso
si innesta - paradossalmente - sullo scontento derivante da una patente
discriminazione ai danni dei francesi di origine araba, anche se di
seconda o terza generazione.
Metabolizzare la protesta: il caso italiano
In Germania, invece, il peso del passato - cioè il disgusto, vero o
forzato che sia - nei confronti dei neo-nazisti, impedisce da anni che
le paure della popolazione prendano questo sinistro profilo e finiscano
per dirigere il voto protestatario verso i comunisti dell'ex Ddr, o
verso il partito del "giudice inflessibile" di Amburgo. Ma una volta
fatte le debite differenze, i casi suddetti - così come quelli del
movimento anti-immigrati in Danimarca, del British National Party in
Inghilterra, dei movimenti isolazionisti in Svizzera, ecc. - appaiono
abbastanza analoghi da poterli considerare correlati, e quindi da
consentire di prenderli in esame come un fenomeno unico, ancorché
fortemente venato di componenti locali. E, soprattutto, consente di
confrontarlo al fenomeno elettorale che si ebbe in Italia con le
elezioni politiche del 1992, quando la Lega Nord portò a sorpresa in
Parlamento ben 25 senatori e 55 deputati. Fu, quello, un fenomeno
dirompente, uno scatto di insofferenza e di protesta, un'esplosione che
chiaramente indicò quale fosse l'umore del Paese, in una parola il
"clima" politico. Ma poco più, perché nel sistema politico
corporativo-consociativo che reggeva l'Italia di allora, il voto per la
Lega era un voto di protesta, un "voto sprecato". Eppure è stato in
virtù di quel segnale di un'insoddisfazione dell'elettorato italiano per
i vecchi partiti che fu possibile, due anni dopo, la nascita di Forza
Italia e l'inizio di un processo di rinnovamento della classe politica
di governo del nostro Paese che - si spera - è lungi dall'essere
terminato.
Certo, la Lega Nord non poteva essere definita un movimento
"nazionalista", come invece fanno alcuni politologi inglesi a proposito
della destra radicale europea. Al contrario, la Lega Nord - che da anni
aveva una sua rappresentanza ai margini del sistema - era allora un
movimento regionalista che esprimeva i sentimenti e le illusioni di una
parte del Paese, forse culturalmente arretrata, ma in rapido sviluppo
sulla base di un modello export-oriented, e che trovava un'occasione
storica che sembrava fatta su misura per lei nel clima intellettuale
dell'immediato post-comunismo, in cui era esplosa la globalizzazione e
il mito della fine dello Stato nazionale. Il successo della Lega Nord si
innestava anche su un residuo di rivalità tra Nord e Sud Italia e su un
arcaico sentimento "austriacante" che, nello smarrimento determinato
dalla fine dell'impero sovietico, oltre a giocare un tragico ruolo in
Slovenia e Croazia, diede qualche segno della sua esistenza anche in
Ungheria e in Cecoslovacchia. Ma era una congiuntura storica assai
fragile e fatalmente effimera. Perciò, se la Lega finisce oggi per
essere affastellata tra movimenti "nazionalisti" d'Europa, non è solo
per la superficialità di molti commentatori, ma perché anch'essa ha
intelligentemente messo a frutto - per evolvere - i dieci anni di
vantaggio che la stagione politica italiana ha sul resto delle società
dell'Europa continentale. Essa ha compiuto un'obiettiva evoluzione,
prendendo coscienza che l'unica identità popolare cui sia oggi possibile
appellarsi in Italia, è quella italiana, e non certo quella, astratta,
della Padania. Anche l'evoluzione della Lega mostra, insomma, che
l'Italia è avanti di un decennio sul resto del Vecchio continente.
Si potrebbe osservare che il passaggio dai successi della Lega alla
vittoria di Berlusconi non è così lineare come quello dalle vittorie di
McCarthy alle primarie e la discesa in campo di Bob Kennedy. Che il
decennio degli anni Novanta è stato in gran parte perduto. Che, in
definitiva, la coalizione di Berlusconi non riuscì, dopo la vittoria del
1994, a governare che sette brevi ed agitati mesi, e che fu proprio la
Lega a determinarne la caduta. Ma ciò avvenne probabilmente proprio
perché il leader leghista avvertiva - con l'istinto e il fiuto politico
che lo caratterizzano - che Forza Italia era un tentativo di trovare una
risposta nazionale e a livello di alternativa politica - e non più
fondato su frustrazioni provinciali e scatto umorale -
all'insoddisfazione degli italiani. E che, pertanto, essa rappresentava
una minaccia per il movimento guidato da Umberto Bossi, che sarebbe
stato travolto e assorbito, così come nel 1968 il "voto di protesta" e
quindi "sprecato" per McCarthy era stato risucchiato dal consenso per
Bob Kennedy, candidato "politico". E se si volesse poi ricavare, dalla
breve durata del primo governo Berlusconi, il significato di una ridotta
rilevanza storica di quella transizione, sarebbe facile controbattere
che anche il primo governo laburista inglese giunto a Downing Street
sotto la guida di Ramsey McDonald a fine gennaio del 1924, nel quadro di
una rivolta contro l'establishment che - dopo la Prima guerra mondiale -
scosse profondamente tutta l'Europa, riuscì a resistere in Parlamento
soltanto per sette mesi. Ma ciò non gli impedì di tornare
successivamente al potere con una vittoria elettorale e di trasformare
così profondamente la società britannica con l'introduzione del welfare
state, che nessun governo conservatore arrivato al potere negli ottant'anni
successivi ha potuto disfare quell'opera. Neanche quando a guidarlo c'è
stata la signora Thatcher.
Paura e disgusto, rabbia e protesta non sono - come dicevamo - in grado
di produrre direttamente fenomeni, proposte e soluzioni politiche, ma
solo di creare il clima necessario perché queste vengano tentate: il
clima di irrequietezza dell'opinione pubblica e di rifiuto contro i
politici di professione, contro le burocrazie di partito, contro i
leaders figli di leaders cresciuti nel serraglio dell'apparato, contro
la mancanza di idee, di soluzioni innovative, di contatto con una realtà
che cambia tumultuosamente. E, soprattutto, paura e disgusto esprimono
il rigetto umano, prima che politico, della mentalità di una casta dei
politici di professione, casta che si considera pregiudizialmente
superiore e che ritiene di poter cambiare slogans e parole d'ordine,
casacche ideologiche e punti di riferimento internazionali, mantenendo,
sempre e comunque, al potere le stesse dinastie politiche e
intellettuali.
Una rivolta contro la vecchia èlite
Il crollo di questa vecchia nomenklatura è visibile dappertutto
in Europa. E se in Italia il fenomeno è avvenuto con un decennio
d'anticipo, non è naturalmente perché gli italiani siano più
intelligenti o più maturi degli altri, ma soltanto perché nel nostro
Paese questa casta si era più strettamente identificata con gli
equilibri della Guerra Fredda. I democristiani come garanzia della
permanenza della società italiana nell'Occidente, e i comunisti come il
partito di obbedienza sovietica che più di ogni altro al mondo riusciva
a raccogliere adesioni spontanee. Screditati i secondi, e non più
indispensabili i primi, dopo il crollo del comunismo ed il dissolvimento
dell'Unione Sovietica, l'Italia è stata perciò investita dall'aria nuova
molto più immediatamente, direttamente ed apertamente di quanto non sia
accaduto ai Paesi in cui si era stabilizzata l'alternanza tra
socialdemocrazia e conservatori "illuminati", forze politiche che
conducevano la lotta contro la minaccia rivoluzionaria attraverso il
welfare state, cioè ammortizzando le iniquità sociali più stridenti. In
misura certamente minore, ma forse non irrilevante, l'Italia è stata,
poi, favorita nell'accelerare i tempi del rinnovamento dal fatto di
essere riuscita ad esprimere un leader di tipo animalo rispetto al
passato. Su tale leader è naturalmente troppo presto per esprimere un
giudizio storico. Ed il clima politico è troppo caldo anche per
qualsiasi giudizio che abbia un minimo di obiettività. Ma si può già
dire che - se non altro per estrazione professionale e formazione -
Berlusconi presenta caratteristiche, connotazione sociale e interessi
intellettuali molto diversi tanto da quelli del personale
politico-burocratico del passato, quanto da quello dei leaders populisti
ai quali è stato talora assimilato. E forse è stato proprio per il fatto
di essere diverso dagli uni e dagli altri che è riuscito a trasformare
in un fenomeno abbastanza compiutamente politico il rigetto e la
protesta che gli italiani - all'inizio degli anni Novanta - avevano
espresso nel massiccio consenso popolare al referendum di Segni,
all'inchiesta di Mani pulite e alla persona di Antonio Di Pietro, e
infine nel voto per la Lega. Cosicché Berlusconi si trova ad essere per
alcuni aspetti beneficiario, per altri causa determinante, in Italia, di
quel tentativo di rinnovamento che, in modi diversi, appare necessario
in quasi tutte le nazioni dell'Europa continentale. Tentativo che, nella
maggior parte di esse, è ancora lontanissimo dal grado di avanzamento
raggiunto nel nostro Paese, e che quindi si esprime attraverso fiammate
xenofobe o reazionarie, populiste o nazionaliste. Fenomeni politicamente
rozzi, che mostrano ancora crudamente la paura e il disgusto che ne sono
all'origine.
27 settembre
2002
(da Ideazione 4-2002, luglio-agosto)
|