Se si riduce lo spazio del confronto
di Domenico Mennitti
Sino ad alcuni anni fa la chiusura dei palazzi istituzionali apriva una
rapida ma intensa stagione di riflessione politica. Ferme le assemblee
legislative per le ferie estive, i partiti assumevano la funzione
propria, avviando una serie di dibattiti e di confronti sui temi
generali, interni ed internazionali. Erano i tempi dei vari "festival",
quasi sempre intitolati alle testate dei giornali di partito, nel corso
dei quali alla contrapposizione - talvolta troppo tesa - dei dibattiti
parlamentari si opponeva un confronto più pacato, meno centrato
sull'esigenza di favorire o contrastare l'approvazione di una legge, e
più aperto a valutazioni di medio e lungo termine. Sopravvenne
Tangentopoli e quelle iniziative finirono sotto i riflettori delle
inchieste giudiziarie, perché si rivelò che l'organizzazione di
manifestazioni così complesse e costose aveva un retroterra di
sponsorizzazioni prive di interesse reale per lo sponsor, il quale,
però, obbediva alle richieste della politica, che spesso erano poste
nella forma esplicita dell'ingiunzione. Al momento della svolta del
Novantaquattro, si determinò una singolare situazione: scomparsi molti
protagonisti tradizionali della politica, si fronteggiarono per un paio
d'anni il festival dell'Unità e la convention di Publitalia,
quest'ultima organizzata a Montecarlo con la duttilità di quell'azienda,
che per una breve stagione fu protagonista di una straordinaria e
tuttora inesplorata esperienza che la vide irrompere sul palcoscenico
della politica nazionale. Poi più nulla.
L'Unità è ancora promotrice di manifestazioni che conservano il vecchio
fascinoso titolo di festival, ma che hanno perduto incidenza sul
dibattito politico, e Publitalia è tornata alla sua attività ordinaria,
che è quella di produrre pubblicità per le televisioni Mediaset. Sui
muri delle città si notano qua e là manifesti che annunziano iniziative
che non fanno notizia. I partiti organizzano incontri di fine estate
nell'indifferenza generale: salsicce e vino sono uguali dappertutto, e
dappertutto è basso il livello del confronto delle idee, dell'analisi
delle emergenze, della proposizione degli scenari. L'Italia bipolare,
appena fuori dagli schemi rigidi della collocazione parlamentare, si
disperde, si sfarina: vorrebbe discutere dei problemi del mondo, ma
mancano le ali, soprattutto difettano le idee. In assenza delle quali,
monta la furia polemica, prevalgono gli estremismi e s'impone il gusto
di parlarsi addosso. Ognuno che s'impalca si rivolge ai "suoi", che sono
assoluta minoranza rispetto alla grande maggioranza dei cittadini che
aborrono gli aggettivi possessivi e vorrebbero saperne di più, capire le
ragioni per le quali le coalizioni si formano, minacciano ogni giorno di
sfaldarsi o giurano di restare per sempre coese. Fa eccezione il meeting
di Rimini, ma Cl non è un partito, bensì un movimento che si adopera ad
offrire ai partiti orientamenti culturali con l'intento di diffonderli
il più vastamente possibile. Tanto è vero che i suoi rapporti con i
partiti sono anche preferenziali, ma mai esclusivi.
Il senso di questa rievocazione non è l'abbandono ad una vena di
nostalgia per l'estate della politica, che ha perso alcuni riti
suggestivi ai quali eravamo abituati e persino affezionati; intende,
piuttosto, sottolineare la constatazione che gli spazi del confronto si
riducono sempre di più. Si coglie in giro una grande voglia di
partecipare, ma mancano i luoghi e le occasioni per farlo e la politica
si è organizzata in modo da non concedersi un momento di pacato
approfondimento per individuare se nella fase nuova e complessa che
viviamo ci siano, oltre ai solchi profondi che ogni giorno si
evidenziano, anche campi sui quali almeno la ricerca possa essere
comune. Comunque non condizionata e culturalmente impoverita da prese di
posizione prevenute. Dopo il settembre nero dell'anno scorso che
sconvolse l'America e il mondo, tutti dissero e scrissero che "niente
più sarebbe stato come prima"; ed invece - qui da noi - sembra che
dobbiamo vestire la divisa dei guardiani del museo, perché viviamo nel
migliore dei mondi ipotizzabili, dove tutto va ottimamente bene e
bisogna combattere con ogni mezzo chiunque si proponga di cambiare, di
aggiornare. In una parola: di modernizzare.
La verità è che siamo - politicamente e culturalmente - ancora dentro la
mentalità della Guerra fredda, periodo lungo e tribolato, nel corso del
quale l'Italia ha goduto della protezione in particolare degli Stati
Uniti a ragione della sua importanza strategica all'interno del blocco
occidentale. Gli errori non li abbiamo mai pagati ed i giri di valzer ci
sono stati concessi purché restasse saldo, al momento giusto, il
rapporto con il sistema politico e militare di riferimento. Quella
condizione, a metà strada tra la sudditanza ed il privilegio, è venuta
meno ed ora abbiamo conquistato la piena sovranità che deve essere
oculatamente gestita in un mondo che sta cambiando rapidamente. Perciò
dobbiamo avvertire il peso della responsabilità connessa al nuovo ruolo,
dovendo muoverci dentro un contesto dove non valgono tanto le vecchie
appartenenze quanto i nuovi rapporti. Per essere all'altezza dovremmo
disporre di ottime classi dirigenti di maggioranza e di opposizione,
ciascuna capace di esercitare la funzione presente e di proporsi
autorevolmente per quella alternativa; invece siamo come impazziti,
immersi in una sanguinosa battaglia interna dove le forze puntano a
delegittimarsi e spesso lo fanno cercando sponda nelle sedi
internazionali.
Affrontiamo problemi che sono determinati da fattori endogeni molto
condizionati dagli eventi internazionali, che meriterebbero analisi e
proposte nella direzione della tutela dell'interesse nazionale; ed
invece impazza il gioco dello scaricabarile, del rimpallo delle
responsabilità. Non abbiamo difficoltà ad affermare che il governo
rappresenta il paese e deve sostenere l'interesse nazionale nel suo
complesso, facendosi carico anche degli errori eventualmente compiuti
nel passato; ma siamo ugualmente determinati nel denunziare i
comportamenti di un'opposizione che nella furia aggressiva travolge ogni
regola, compresa quella del rispetto delle istituzioni e di coloro che
le presiedono. L'impressione è che si sia tornati in Parlamento con lo
stesso spirito degli ultimi giorni di luglio e che l'estate sia
trascorsa senza che le forze politiche abbiano avuto il modo di occupare
la pausa feriale per riordinare le idee, confrontarle, correggere il
tiro, per misurarsi con esperti, studiosi, editorialisti di area propria
e di quella avversaria. Ma questi principi sono le fondamenta della
civiltà politica e che oggi si debbano considerare reperti archeologici
a noi non sembra buon segno. Il termine "ripresa" non è stato adottato
per significare solo la riapertura della tenzone; contiene anche un
auspicio di ottimismo, il senso positivo del "ripartire". Francamente è
difficile azzardare questa interpretazione mentre a ripartire è stata
solo la rissa.
13 settembre 2002
domennitti@hotmail.com
(da Ideazione 5-2002, settembre-ottobre)
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