Politica estera e identità nazionale
di Carlo Maria Santoro

(Questo articolo è uno degli ultimi interventi del professor Carlo Maria Santoro, fra i massimi esperti di relazioni internazionali e membro del comitato scientifico di Ideazione. La riproposizione di questo suo scritto è anche un sentito omaggio alla sua memoria).

Il momento della verità per l’identità nazionale italiana è stato sempre quello della politica estera. Ogni volta che si sono dovute prendere delle decisioni importanti in materia di politica internazionale, la nazione si è clamorosamente divisa. E’ stata una vera e propria condanna, iscritta nella storia d’Italia fin dalle guerre del Risorgimento. Col risultato che quasi ogni atto politico o militare, dal 1848 ad oggi, è stato sempre fuori misura (e spesso fuori bersaglio) rispetto al clima internazionale in cui si svolgeva: talvolta per eccesso di assertività, talaltra per eccesso di timidezza. Da Cavour a Mazzini, fino a Mussolini e D’Alema, l’immaturità collettiva di una classe politica che tendeva a sostituire la scelta di obiettivi coerenti e l’elaborazione di risposte diplomatiche efficaci con la retorica della velleità o la miseria dell’opportunismo, si è manifestata in più occasioni. La pendolarità della politica estera è stata, in altre parole, il risultato di una cronica carenza di legittimazione dell’identità nazionale che il sistema internazionale ben percepiva e che il sistema politico interno, con la sua eterna oscillazione fra giacobinismo e reazione, contribuiva ad alimentare.

Gli uomini che hanno via via costruito il “puzzle” Italia, mettendo faticosamente insieme i vari pezzi etnoculturali del territorio, non hanno mai superato la storica inconciliabilità fra un progetto nazionale, minoritario ed estremista, e la radicata tradizione, maggioritaria e reazionaria, degli Stati preunitari. Il “moderatismo” politico, cui tutti aspirano a parole, nei fatti non ha mai trovato né il suo tempo, né il suo spazio. La politica italiana ha così preso le forme di una commedia in costume nella quale gli interessi emergenti di una borghesia più provinciale che intellettuale si travestivano da ideologia giacobina (sotto tutela francese), mentre i privilegi di un’aristocrazia fondiaria, in raccordo con le masse contadine cattoliche, si mascheravano da reazione sanfedista e vandeana (sotto tutela austriaca).Questa schizofrenia primaria, che aveva il tratto di una recita fra dilettanti, è continuata nel tempo ed ha reso poco credibile la periodica alternanza delle prese di posizione politiche dei governi nazionali. E ciò tanto nella modalità del gretto cinismo delle classi preunitarie, ma anche di quelle piemontesizzate, quanto nell’eccesso ipertrofico di nazionalismo, postrisorgimentale e fascista, per non dire della contrita epopea della Prima Repubblica, democristiana (e specularmente comunista) che l’ha seguita.

Una guerra civile sempre latente

L’Italia, che si è fatta per annessione grazie ad una eccezionale fortuna storica, non ha quindi mai acquisito quella vera legittimità che si basa sulla coscienza comune da parte della classe politica di una scala dei valori coerente su cui fondare la gerarchia degli interessi nazionali. Il peccato originale è dato da una sorta di “guerra civile” sempre latente (e talvolta esplosiva) che, fra alti e bassi, si trascinerà per oltre centocinquant’anni contrassegnando in negativo la storia della nazione. Lo dimostra a fortiori l’impossibilità fisiologica degli italiani e del sistema politico nazionale a stabilire un denominatore comune in cui tutti si riconoscano di fronte alle sfide esterne, nonché a definire i margini di una solidarietà reale nelle diverse contingenze della politica interna. Lo testimonia, a contrariis, la permanente sfiducia che anche gli alleati più stretti tendono a manifestare nei nostri confronti, considerandoci inaffidabili e spesso voltagabbana.

L’originaria discrasia fra “legalità” e “legittimità”, che è stato il carattere fondante della vita nazionale, non si è dunque ridotta con il passare del tempo. Non è stata superata durante la fase postrisorgimentale della monarchia annessionista, né con la prima guerra mondiale, voluta da una minoranza ma combattuta da tutti, ma neppure con il fascismo, che pure ha tentato retoricamente di forgiare gli italiani in un blocco compatto. Anzi proprio il fascismo, con il suo colpo di Stato legalizzato, ha fornito la controprova che questa carenza di legittimità, nonostante il Piave e Vittorio Veneto, non era stata colmata. Ma non c’è stato verso di fondare valori comuni neanche con la Prima Repubblica, che ha visto il paese diviso fra comunisti e occidentalisti, né con la Seconda che, negli ultimi dieci anni, ha ulteriormente lacerato i fondamenti della convivenza politica investendola con l’ondata di delegittimazione provocata dal “giustizialismo” e dalla dissoluzione comunista. Perfino in questi ultimi mesi, dopo la vittoria elettorale della Casa delle libertà, stiamo assistendo all’ennesima manifestazione di scarsa legittimazione reciproca delle forze politiche (si pensi a Genova e al G8), e alla divisione verticale che, al di là delle parole e delle mozioni, separa il governo dall’opposizione (a sua volta lacerata al suo interno) in materia di politica estera e internazionale, come dimostrano le ambiguità della sinistra nella lotta al terrorismo islamista. Ancora una volta affiora un’aspra inconciliabilità culturale fra l’anima giacobina, elitaria e frustrata, che si volta sempre più spesso in trasformista, e quella, già conservatrice o reazionaria, che si vede costretta – per forza di cose – a farsi liberale e modernista.

Nel guado del neutralismo

C’è, in questa secolare continuità di comportamenti del sistema politico italiano, qualcosa di tragicamente comico e di ripetitivo, con tratti di ridicola fatuità. Da un lato prevale a tratti una teatrale tendenza al “grandeggiamento”, ovvero alla finzione di ruolo, mentre dall’altro lato si anela alla credibilità fidando nell’eccessiva modestia, ovvero in un “pierinismo” ancillare, che ci mette in ombra su scala internazionale, ma ci evita il confronto politico interno sulla legittimità. Tale atteggiamento oscillante coinvolge purtroppo tutti i leader di una classe politica divisa sui contenuti, anche se stranamente omogenea nei tratti e nelle forme. Talvolta esso s’incarna nelle stesse persone. Si pensi al D’Alema comunista che sfila con i pacifisti ad oltranza e con i difensori antiamericani di Saddam Hussein durante la Guerra del Golfo, e poi al D’Alema diessino, prim’attore guerriero nella guerra del Kosovo al fianco di Clinton. Fra i due travestimenti la distanza culturale è più che breve. Eppure la vicenda storica nazionale ha più volte dimostrato che il trasformismo politico, anche quello più scoperto, non è in grado di risolvere il problema della legittimità nazionale perché è un altro modo di confessare quella mancanza di princìpi che è il risvolto etico del deficit di identità. Si pensi al Craxi di Sigonella, all’Andreotti, atlantista ma filoarabo, oppure al Berlinguer filosovietico ma a sua volta atlantico, fino alle sviolinate europeiste e terzomondiste di Prodi, per rendersi conto di quanto la duplicità del comportamento nazionale faccia parte di una impossibilità strutturale a concepire la politica estera come una politica pubblica basata sull’interazione razionale dei princìpi e degli interessi.

L’Europa come pretesto e illusione

La soluzione di comodo, a partire dagli anni Novanta, fu quella di sostituire la mancanza d’identità e l’incapacità a costruire un sistema di valori condivisi in politica estera, con un’adesione acritica al progetto dell’Unione Europea. E’ stata una “mossa del cavallo” laterale, diretta a sfuggire al problema primario. Ma è stato proprio sulla chiave europeista, e quindi metanazionale, che la classe politica italiana ha confidato, soprattutto negli anni del centrosinistra, per superare la contraddizione storica che si portava dietro fin dal Risorgimento. L’illusione era quella di stemperare (o annacquare) nell’identità europea l’intrattabile questione dell’identità nazionale. Ma era un progetto senza speranza perché l’identità europea è ancora di là da venire, come d’altronde dimostra ad abundantiam l’ordine sparso degli attori europei di fronte alla guerra al terrorismo. D’altronde l’Unione Europea tende ad allargarsi orizzontalmente (widening), attraverso l’acquisizione di nuovi membri, mentre per converso riduce i vincoli dell’integrazione politica e militare (deepening). Essa è infatti vittima della propria storia che è quella di essere stata, fin dall’inizio, un’appendice dell’Alleanza atlantica. Questo legame ombelicale con l’America si manifesta in modo squillante ogni volta che gli Stati Uniti suonano la tromba, come è stato il caso della Jugoslavia negli anni Novanta e quello del terrorismo oggi, impedendo all’Europa di trovare in se stessa le radici della sua identità.

Per queste ragioni il fatto di essere membro dell’Unione Europea non ha fino ad ora comportato una vera cessione di sovranità nazionale in materia di gestione della politica estera, e neppure in materia di politica della difesa. Puntare oggi sull’identità europea nella speranza di compensare l’irrisolto problema dell’identità italiana, che si coagula come sempre attorno alla storica carenza di legittimità, è quindi un’ipotesi fallita in partenza. Ed è un peccato perché il ruolo dell’Italia, da almeno dieci anni a questa parte, è oggettivamente cresciuto rispetto al passato. Sempre più frequentemente siamo chiamati a svolgere funzioni di media potenza regionale di cui è testimonianza evidente la massiccia partecipazione alle missioni di supporto alla pace, dalla Bosnia all’Albania, al Kosovo, alla Macedonia, fino all’attuale guerra al terrorismo.

Tra rango e ruolo: il grande dilemma

E’ questo un dilemma storico della politica estera nazionale, basato sulla permanente incertezza fra il perseguimento delle ambizioni di “rango” e le realtà del “ruolo” che l’Italia è realmente in grado di svolgere. Questa storica contraddizione continuerà ad esistere, anche all’interno del disegno europeo, come pure in seno alla grande alleanza della Nato, che è il vero contesto concettuale (e quindi il solo asse portante) della nostra politica estera. Saremo costretti a bilanciare, in assenza di una coerente politica estera italiana e di una vera politica estera europea, il delicato rapporto con gli attori maggiori dell’Unione Europea (Germania, Francia, Regno Unito, Spagna) secondo parametri di comportamento tradizionali, cercando di acquisire un ruolo corrispondente alle nostre capacità, senza la possibilità di giocare le carte del bluff, né quelle della fuga all’indietro, e neppure quelle dell’assertività priva di sostanza. Il “rango” dell’Italia, dunque, in ambito europeo, invece di crescere diminuirà perché il nostro “ruolo”, che in linea teorica potrebbe essere più incisivo, resta purtroppo marginale o comunque non determinante, rispetto al peso dei nostri partner. Né sarà possibile equilibrarne il peso praticando quella politica di pendolarizzazione fra potenze europee, tipica della nostra tradizione politica, in quanto i legami dell’integrazione economica e monetaria, oltre che la dipendenza dagli Stati Uniti in materia di difesa e di sicurezza, tagliano l’erba sotto i piedi e riducono all’osso lo spazio consentito alle manovre della furberia nazionale.

La svolta storica dell’11 settembre 2001

Non cambierà neppure la modalità di comportamento della politica estera italiana nei confronti dell’alleato maggiore, gli Stati Uniti. Anzi, la ripresa dell’interventismo e dell’egemonia americana su scala mondiale, dopo i tragici fatti dell’11 settembre 2001, che hanno ribaltato la politica di Washington sconfessando la linea “unilateralista” adottata dalla Presidenza Clinton e rafforzata nei primi mesi della Presidenza Bush, non farà che confermare la nostra assoluta dipendenza dall’America e quindi dalle sue scelte di politica estera alle quali tutti, in Occidente (e non solo), ormai si adeguano o si accodano. D’altra parte la tradizione dell’alleanza stretta con una Potenza incomparabilmente più forte di noi, alla quale viene affidato il tesoro della propria sicurezza, è una seconda natura per l’Italia e rappresenta anch’essa una costante storica di una politica estera che nel passato ci ha costretto a pericolosi equilibrismi fra timori di “soffocamento” e spinte all’“abbandono”, e talvolta alla disonorevole parte dei traditori (come nel 1915 e nel 1943), danneggiando irrimediabilmente la nostra autostima, oltre che l’immagine internazionale del paese.

La scelta di allinearsi sempre con un alleato strapotente comporta infatti un rischio notevole quando ci sono gravi divisioni interne al paese, per ragioni di carenza di legittimazione, che inducono spesso i governi a giocare su più tavoli contemporaneamente, schierandosi ufficialmente con l’alleato egemone, ma al tempo stesso evitando di assumere impegni per i quali non esisteva alcuna forma di bipartisanship, tanto nelle istituzioni quanto nella pubblica opinione. La vittoria americana nelle guerre politiche, militari e ideologiche del Novecento ha però eliminato ogni possibilità di scelta alternativa. Non ci sono avversari né competitori, di area o globali, in grado di mettere davvero in difficoltà la Full Spectrum Dominance (Fsd) statunitense. La stessa “guerra al terrorismo” attualmente in corso, invece di essere una forma di contestazione della supremazia americana, si sta rivelando come un modo per riaffermarne, attraverso la ricompattazione dei sistemi di alleanza (Nato, Russia, Islam moderato), l’indiscussa superiorità.

L’unico rischio resta quello di aderire, per eccesso di zelo, troppo strettamente alla politica degli Stati Uniti, che ormai viene definita come la politica dell’intero Occidente. Il che potrebbe farci prendere delle posizioni così radicali contro l’avversario comune (ad esempio il terrorismo fondamentalista) da assumere le sembianze di un vero e proprio “scontro di civiltà”, ovvero di una “crociata” dei buoni contro i cattivi. L’Occidente “cristiano”, infatti, nelle sue tre varianti, cattolica, protestante e ortodossa, d’intesa con il contrastato seguito di Stati islamici “moderati”, che ora si contrappone all’intransigenza feroce del movimento fondamentalista, tende a sfuggire alle categorie geopolitiche dell’analisi tradizionale perché si “de-territorializza” oltre a “de-nazionalizzarsi”, assumendo i tratti di un fenomeno politico (o metapolitico) e culturale di tipo globale (the West and the Rest), le cui conseguenze potrebbero nel tempo diventare irreversibili.

Verso una politica estera consapevole ed efficiente?

Ma questo pericolo, per il momento, è ancora sullo sfondo della scena internazionale. L’attualità politica dell’Italia deve però fare fin da ora i conti con una zona d’azione in cui gli spazi di manovra sono relativamente più ampi e le decisioni meno obbligate. Si tratta di quell’area che negli anni Novanta venne chiamata del “Mediterraneo allargato” e che comprende un ampio spazio geopolitico che si estende dall’Europa centrale (e specialmente i Balcani) fino alla sponda Sud del Mediterraneo (Maghreb, Medio Oriente, Mar Nero e Mar Rosso, Golfo Persico, Corno d’Africa) e, oggi, anche dell’Asia centrale che, per ragioni diverse (energia, terrorismo, eccetera), è diventata una zona di competenza primaria della politica estera italiana. In questo ampio spazio le regole del gioco istituzionale, tipiche del mondo occidentale, sono pressoché inesistenti. Valgono ancora le leggi della forza e della diplomazia bilaterale, o solo provvisoriamente multilaterale. L’incidenza delle Nazioni Unite è, come sempre, inesistente oppure del tutto virtuale, mentre la presenza dell’Unione Europea, in quanto tale, non è neppure percepibile perché i maggiori attori nazionali dell’Ue svolgono in quell’ambito politiche estere autonome, spesso contrapposte fra di loro. Gli Stati Uniti, infine, si limitano a svolgere funzioni di “guardianìa” generale, intervenendo solo sporadicamente, e sulla base dei propri interessi nazionali, ovvero per ragioni di equilibrio generale dell’area, senza controllare l’evoluzione dei diversi sottosistemi. In questo ambito le ambizioni e le preoccupazioni della politica estera e geostrategica italiana, potrebbero trovare delle strade d’accesso di notevole interesse.

Anche qui però la storica carenza di identità e di legittimità nazionale ha finora impedito la costruzione di una politica estera consapevole ed efficiente. Basterà ricordare che negli anni Novanta tutte le volte che il governo s’impegnava in un intervento politico-militare (e ce ne sono stati molti) qualche esponente della classe politica, e perfino dei partiti di maggioranza, si schierava con i nostri avversari, indebolendo così la posizione e la credibilità internazionale della nazione. Dal Golfo al Kosovo abbiamo visto la processione di esponenti politici italiani correre a portare la propria solidarietà ai nostri nemici contro i quali il nostro governo e le nostre Forze Armate stavano combattendo. Ed è stata questa assenza di valori condivisi nella classe politica, nonché la troppo frequente rotazione delle maggioranze e dei governi, soprattutto nell’ultimo decennio, la ragione di fondo che ha dato luogo alla rinnovata emersione di un’altra costante storica della politica estera italiana, quella della “dispersione degli obiettivi”.

La moltiplicazione degli obiettivi di politica estera, è stata infatti la paradossale conseguenza dell’assenza di una politica estera autonomamente concepita ed elaborata. Quando non esistono princìpi riconosciuti da tutti, ma solo obblighi di sistema, come furono quelli imposti dalla “scelta di campo” durante la Guerra Fredda, è possibile perdere di vista le proporzioni, e soprattutto dimenticare la propria scala delle priorità. Fu così che all’inizio degli anni Novanta si accarezzò per qualche tempo il miraggio di svolgere un ruolo egemone nell’Europa centrale postcomunista, presto abbandonato, mentre successivamente si tentò di attivare un’opera di mediazione fra Israele e i palestinesi. Con il crollo del comunismo, poi si intervenne in Albania e nei Balcani, perfino nei conflitti intercaucasici, con malcelate ambizioni di protettorato, e finalmente si manifestarono, virtuali quanto fallimentari, aspirazioni di coordinamento istituzionale fra le due sponde del Mediterraneo. In quasi tutti questi casi l’azione politica dell’Italia si rivelò velleitaria e fuori misura, col risultato di scontentare quasi tutti. Per fortuna quell’anomalo decennio delle ambizioni sbagliate sembra ormai definitivamente concluso. Oggi la linea di politica estera è più chiara e meno ambivalente che nel passato, anche se manca ancora di definizione e di direzione strategica. Basata sulla forte e consapevole adesione alla linea atlantica ed americana, integrata da un europeismo senza trionfalismi, la politica estera italiana potrebbe finalmente svolgere un’azione di presenza e di attenzione nell’area del Mediterraneo allargato, senza dispersioni, spocchie, furberie o colpi di testa. Speriamo che questo trend, appena iniziato, si consolidi nel medio termine e diventi il fondamento di una nuova comunità di valori condivisi dei quali la nazione ha davvero bisogno.

5 luglio 2002

(da Ideazione 6-2001, novembre-dicembre)