La valigia dell'emigrante
di Vittorio Macioce
Da una parte il campanile, il piccolo mondo dei comuni, la terra, a
volte arida, avara, altre volte matrigna, perché povera di libertà;
dall’altra le strade, le antiche arterie, la via delle spezie e della
seta, la navigazione, il mare, i bastimenti stracarichi di miserabili,
l’incognita, gli universi sconosciuti, la fuga, la disperazione o il
talento che ti portano lontano. Strano destino quello degli italiani,
con il coraggio di chi va e la saggezza di chi resta, sempre in bilico
tra il provincialismo più gretto e una vocazione nomade, itinerante,
nella valigia le speranze di chi non ha nulla, il copione o lo scalpello
dell’artista e i libri contabili del mercante. E sì, qualche volta anche
con la coppola e il mitra. Davvero viene da dire, ma chi sono questi
italiani, in quale cultura hanno bevuto, quali dei li ispirano, cosa si
portano dietro e cosa si lasciano alle spalle? Italiani, gente
globalizzata prima che questa parola diventasse un tormentone
stucchevole, eppure così impegnati a guardarsi continuamente il proprio
ombelico, gente che viaggia, ma che non sa le lingue, pronti ad
adattarsi agli usi e ai costumi di chi li ospita, eppure così
riconoscibili, gente che in patria non sa cosa sia la patria, salvo poi
fuori dallo stivale scoprire un orgoglio seppellito nei più remoti
angoli del proprio passato. E così te li trovi a dire o a scrivere,
neanche fossero soldati di Enrico VI, guai a chi la tocca la mia Italia.
Emigranti con le radici.
Emigranti che hanno generato una cultura ibrida, fondata su due
pilastri: il sentimento forte delle proprie origini e la capacità di
assorbire i contenuti del “nuovo mondo”. E con una dignità propria,
autonoma e in grado di esprimere un suo universo storico, artistico e
letterario. Un fenomeno che emerge con chiarezza negli Stati Uniti, dove
la cultura italo-americana vive una stagione d’oro e si è vista
riconoscere sempre più spazi nei circoli del sapere ufficiale. Una
testimonianza si può ritrovare nel saggio di Martino Marazzi Misteri di
Little Italy. Storie della letteratura italo-americana (Franco Angeli,
2001, pp. 160, lire 30.000) o in quello di Stefano Luconi From Paesani
to White Ethnics. The Italian Experience in Philadelphia (Suny Press,
2001). Nell’università di Suny-Stony Brook, che ha sede a Long Island,
esiste addirittura un corso di laurea in studi italoamericani, di cui è
responsabile lo storico della letteratura Fred Gardaphe. La comunità
italoamericana statunitense ritiene abbastanza lontani i tempi del
grande esodo per poterne descrivere le conseguenze culturali e
letterarie. Discorso che non va confinato solo agli States. In
Sudamerica è bastata una telenovelas sull’epopea degli emigranti per
risvegliare l’orgoglio degli italo-qualcosa, una strana gens di
comunitaristi globali.
Gli italo-qualcosa non sono una nazione, sono i nodi ora spenti ora
accesi di una grande rete dove, in qualche modo, continua a scorrere un
forte sentimento nazionale, forse il nocciolo duro di una certa identità
italiana. Qualche tempo fa un amico italo-qualcosa di seconda
generazione se ne uscì con questa considerazione: “A volte penso che gli
unici e veri italiani siamo noi, figli e nipoti, di quelli che sono
andati via. Abbiamo conservato quel vecchio dna culturale che voi avete
smarrito”. Il suo problema è che quando torna in Italia spera di
ritrovare le immagini e i ricordi di suo padre, invece trova qualcosa
che assomiglia un po’ all’America. Poi si abituano e poco alla volta
riconoscono il sapore delle origini. C’è un viaggio di andata e ritorno,
un feedback, tra l’Italia e la terra di approdo che, non si sa bene
come, non si è mai interrotto. In mezzo ci sono tutte le storie e le
parole sull’emigrazione che già si sanno: la povertà, lo strappo, il
viaggio, l’accoglienza spesso ostile, il lavoro duro, l’emancipazione,
l’orgoglio, le cadute e i pregiudizi. Ma in tutto questo c’è anche una
predisposizione del carattere italiano a connettersi con l’altro da sé.
Esistono altri popoli-qualcosa, altre etnie-qualcosa, altre
nazionalità-qualcosa, ma per lo più sono o più popoli, più etnie, più
nazionalità oppure sono semplicemente più qualcosa. L’italo-qualcosa è
poco più o poco meno un italo-qualcosa, un equilibrio quasi perfetto.
Erano così anche prima che fossero numeri di un fenomeno di massa, prima
del grande esodo. L’italo-qualcosa non nasce all’inizio del Novecento,
ma viene da un lontano passato. E’ come se fosse un popolo a sé, che ad
un certo punto è cresciuto e si è moltiplicato.
Mercanti, carbonari e povera gente
Sono andati via in tanti. Tra il 1860 e il 1985, dicono le statistiche
più o meno approssimate, hanno lasciato la penisola 29milioni di
persone. Oggi la popolazione italiana nel mondo raggiunge i 60 milioni.
Un salasso demografico che non ha eguali, con l’eccezione di Portogallo
e Irlanda. Sono andati ovunque o quasi, con due direttrici fondamentali,
il resto dell’Europa e le Americhe, ma anche in Australia e nel
Mediterraneo meridionale (la comunità italiana in Egitto risale
addirittura ai primi dell’Ottocento). E sono andati via presto, anche se
la grande stagione migratoria è iniziata alla fine dell’Ottocento e si è
spenta nella seconda metà del Novecento. Li trovavi in giro già nel
Medio Evo, quando l’Occidente scopriva le sue franchigie, quando i
Comuni innalzavano la bandiera della libertà politica, di commercio e di
movimento, quando l’individuo troncava il suo cordone ombelicale con la
terra e sovvertiva gli ordini divini: non più cavalieri, chierici e
servi, ma cittadini. Eccoli a Londra o a Costantinopoli, ad Anversa o a
Parigi, ad Aleppo o a Siviglia. “Passeri e fiorentini sono per tutto li
mondo”, diceva un proverbio del Quattrocento. E vale un po’ per tutti
gli italiani. Basta ricordare Lombard Street (che nel 1283 presenta 14
banchi italiani) oppure la Rue des Lombardes (20 banchi nel 1292).
La presenza massiccia degli italiani nelle Fiandre è stranota. In Spagna
le famiglie genovesi dei Doria, dei Grimaldi, dei Lomellini, sono gli
arbitri della finanza. Non sempre saranno amati. Nel 1324 vengono
imprigionati tutti i mercanti italiani di Parigi, dieci anni dopo
vengono loro revocati i diritti di borghesia, nel 1347 vengono espulsi
dalla Francia i “Lombardi usurai”. In quel periodo esempi di
anti-italianità si riscontrano in tutta Europa. Il mercante
destabilizza, corrompe la tradizione, dissacra il sacro, dipinge un
manto di disincanto sulla vita quotidiana. Non è amato e gli italiani
che vanno in giro per il mondo tra il tardo Medio Evo e il Rinascimento
vengono di fatto identificati con la figura del mercante. E’ una storia
vecchia. Ma gli italiani con la valigia non sono tutti mercanti. Ci sono
altre rotte di viaggio, altre direttrici, altri tipi umani. Ci sono, più
in là nel tempo, avventurieri come Gorani, Cagliostro, Casanova;
teatranti come Goldoni, Scaramuccia o Tristano Marinelli (il “Re degli
Arlecchini”). C’è Metastasio, poeta di corte a Vienna dal 1730 al 1782,
musicisti come Fabrizio Marino o Giovanni Battista Lulli, grandi soldati
e mercenari come Raimondo Montecuccoli, architetti militari come Dei
Ponti.
Tutto questo avviene in Europa. Ben altra avventura è quella che ha come
scenario il Nuovo Mondo. I primi veri emigranti li troviamo già in pieno
Rinascimento. Tra il 1535 e il 1538 ci sono sei sudditi del Regno di
Napoli, due dello Stato di Milano, tre del Regno di Sicilia, un
lucchese, un fiorentino, quattordici genovesi, due piemontesi, un
cremonese. Non sono molti, ma si deve pensare che l’emigrazione di
stranieri verso l’America è proibita e queste sono le eccezioni
consentite in favore di Stati italiani soggetti alla Spagna (Napoli,
Sicilia, Milano) o legati alla Spagna da forti vincoli, ad esempio
Genova. E’ in questo primo nucleo che vanno ricercate le origini della
presenza italiana in America. Per tutto il periodo coloniale, comunque,
incontriamo un po’ ovunque presenze italiane, senza che mai esse
assumano dimensioni tali da poterle definire “colonie”. Bisogna
aspettare l’indipendenza dei vari Stati d’oltreoceano tra il 1810 e il
1825 per registrare un salto di qualità.
I numeri cominciano a crescere. I motivi sono due. Da una parte i nuovi
governi cancellano le difficoltà che la monarchia spagnola poneva
all’immigrazione straniera e poi alle vecchie ragioni d’emigrazione se
ne aggiungono ora di nuove: quelle politiche. Non furono pochi i
carbonari e, in genere, i patrioti italiani che dopo il fallimento delle
varie rivolte, sommosse, rivoluzioni del 1821, 1831, 1840 trovarono
rifugio nel nuovo continente. Un’America che diventa sempre più grande.
Alla vecchia America iberica si aggiunge il Nord (Stati Uniti e Canada).
E’ un’immigrazione ricca, colta, spesso nobile, avventurosa. Non sono
povera gente, ma fini intellettuali che vanno a cena con i grandi capi
di Washington o partecipano addirittura all’epopea della frontiera:
avventurosi italiani protagonisti nel Far West. Siamo ancora lontani da
quella grande alluvione che condurrà all’emigrazione d’Oltremare, tra il
1869 e il 1910, circa 10 milioni di italiani.
Questa stagione pioneristica è raccontata nel primo volume di
Italoamericana, storia e letteratura degli italiani negli Stati Uniti:
1776-1880 (Mondadori, 2001, pp. 844, lire 80.000). L’autore è Francesco
Durante, uno storico che ricostruisce un quadro ricchissimo di inediti e
di ritratti affascinanti. I protagonisti sono i pionieri della cultura
italoamericana. In alcuni casi si tratta di figure celebri, come Filippo
Mazzei, Lorenzo Da Ponte, Piero Maroncelli, ma il più delle volte di
personaggi oscuri, dimenticati, a dispetto delle loro straordinarie e
agitatissime vite. Scarse comunità o singole figure di italiani sono
segnalate in vari punti del continente già nel XVIII secolo. Ecco per
esempio un centinaio di contadini, forse di Livorno, al lavoro dal 1763
con un contratto a “riscatto” che ne avrebbe fatto dei piccoli
proprietari dopo dieci anni nella colonia di New Smyrna in Florida.
Oppure i piemontesi che in Georgia avviano la coltivazione del baco e la
manifattura della seta. Uno di loro, Joseph Ottolenghi, è anche autore
di un manuale su bachi e seta, pubblicato nel 1771.
Negli anni che precedono la rivoluzione diventa sempre più facile
incontrare nelle città e nelle campagne tessitori, giardinieri,
ebanisti, artisti, musicisti e uomini d’affari. Si scopre così che dalla
dichiarazione d’indipendenza alla guerra di secessione, da New York alle
Montagne Rocciose, dalla California all’Alaska, non c’è avvenimento o
luogo della storia degli Stati Uniti cui non sia possibile legare almeno
un frammento di memoria e cultura (letteraria, filosofica, tecnologica)
italiana. Non si può qui non citare l’avventura di Carlo Camillo di
Rudio, “Old Rudy” come lo chiamavano i commilitoni del leggendario
Settimo Cavalleggeri. Il Conte di Rudio esibisce una sensazionale
biografia risorgimentale, un susseguirsi di arresti, fughe, esìli e
cospirazioni, ma il suo nome resta legato alla battaglia di Little Big
Horn del giugno 1876, tenente accanto al generale Custer (e insieme al
trombettiere Giovanni Martini) contro Toro Seduto e Cavallo Pazzo. Fu
uno dei pochi superstiti e raccontò sui giornali americani e su quelli
italiani i particolari, resi più o meno leggendari, di quella sconfitta,
forse eroica, forse semplicemente stupida. Tra i primi autori di romanzi
polizieschi troviamo poi Charlie Angelo Siringo, già italo-americano di
seconda generazione, ex investigatore dell’agenzia Pinkerton e autore,
nel 1920, di History of Billy the Kid.
Ci tengono, questi uomini che si muovono tra il Mediterraneo e
l’Atlantico, al loro orgoglio nazionale. E’ quella febbre patriottica
che viene agli italiani con la valigia. Tra i casi citati da Durante c’è
quel caratteraccio di Orazio de Attelis, marchese di Santangelo,
sbarcato a New York nel maggio del 1824. Ecco come risponde ad una
polemica anti-italiana (“abitanti della più infida e codarda delle
nazioni”) del Ledger, giornale di Philadelphia. “Io sono un italiano,
signori. Ho l’onore di appartenere, per nascita, agli antichi padroni e
moderni maestri del mondo. […] L’unico patimento italiano patito
dall’America è stato quello di essere stata scoperta dagli italiani
Colombo, Verrazzano, Caboto e Amerigo Vespucci, portando il cui nome
questo emisfero si sente onorato. Vorreste chiamare infidi ventiquattro
milioni di italiani per il fatto che ultimamente la povera vittima di
un’immeritata e inevitabile sfortuna e, assai probabilmente di
irresistibili provocazioni, tirò un colpo di pistola così ben
predisposto all’assassinio da riuscire innocuo a una distanza di tre
passi? Impostori, codardi e ignoranti sono coloro che ardiscono
pronunciare una così stupida blasfemità. Leggete Giannone, Muratori,
Vico, Gravina, Sismondi, eccetera […]. Compulsate i documenti antichi e
moderni delle superumane prodezze di quella classica terra; chiedete al
Piemonte, alla Lombardia, alla Calabria e alla Sicilia, interrogatele
sulle imprese antiche e anche contemporanee […]. In America, signori,
voi avrete veduto, con soltanto poche eccezioni, venditori italiani di
arance e di fichi, o magari un po’ di artisti e professori italiani,
impegnati a menare in private e tranquille attività un onesta
esistenza”.
Molti di questi personaggi, un po’ intellettuali e un po’ avventurieri,
contaminarono e furono contaminati dalla cultura americana. E’
l’“apertura al mondo” che i viaggiatori italiani si portano dietro,
quello strano modo di indossare la propria identità nazionale,
regionale, campanilistica in modo leggero, permeabile, ma nello stesso
tempo senza rinnegarla. Un saggio di Silvio Lanaro Da contadini a
italiani (in Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, a
cura di Piero Bevilacqua) osserva che gli emigranti sono quelli che
“infrangono i confini del villaggio o del podere in cui sono nati
riuscendo ad attingere un sentimento, non sempre naif, di fraternità
morale, spirituale e di affetto verso il paese di origine”.
Ecco allora gli italiani integrati e ambasciatori, commercianti di
culture, curiosi e nostalgici. E comunque capaci di lasciare un segno,
un tratto di civiltà, nella terra che li ospita. Si pensi alla
formazione di vere e proprie lingue miste: spagnolo-italiano o
inglese-italiano. Famoso il cocoliche del Rio de la Plata, che
imperversò tra la fine dell’Ottocento ed inizi (abbondanti) del
Novecento, una mescolanza di italiano e spagnolo il cui nome forse
deriva dal Cocolicchio, un attore la cui vis comica sfruttava la felice
commistione di parole delle due lingue. Non si può neppure dimenticare
lo slang di alcuni frammenti di Vittorini nella sua antologia Americana:
“On the bridge Broccolino’s” dice uno dei versi. Si pensi all’influenza
che nel Cinquecento hanno avuto i muratori italiani per l’edilizia
boema. Il materiale da costruzione tradizionale, vale a dire il legno,
viene a poco a poco sostituito con mattoni, pietra tagliata, tegole. Si
pensi all’italianità degli argentini, la stessa che faceva dire a
Borges: non sono argentino, non ho origini italiane. Si può dire – come
sottolinea il volume appena uscito Storia dell’emigrazione italiana a
cura di Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi ed Emilio Franzina
(Donzelli, lire 78.000) – che l’emigrazione ha rappresentato il
contraltare, il punto di verifica, l’altra faccia dell’Italia
contemporanea. “E ancora oggi – si legge – larghissima parte del nostro
interscambio materiale e simbolico con il resto del mondo passa ancora
per il tramite dei nostri emigrati”. E’ questa la strana miscela che li
rende cittadini del mondo e paesani, allo stesso tempo, appunto,
contaminatori e contaminati.
5 luglio 2002
(da Ideazione 6-2001, novembre-dicembre)
|