Il destino europeo
di Rocco Buttiglione
Perché tornare oggi a parlare di politica estera? Perché oggi si torna a
parlare di politica. Nel 1989 sembrava che la politica fosse morta. Lo
sosteneva Francis Fukuyama ne “La fine della storia” – un libro che
forse avrebbe dovuto chiamarsi “la fine della politica” – con la sua
tesi fondamentale: ormai viviamo in un mondo in cui non c’è minaccia per
la pace, non ci sono decisioni propriamente politiche da prendere, il
rapporto tra gli uomini viene mediato efficacemente dal mercato.
Insomma, aveva vinto il mercato. Venuta meno la minaccia dell’Unione
Sovietica sembrava esser caduta anche la convinzione che ci siano dei
conflitti non mediabili dal mercato. Da qui l’assoluta inutilità della
politica. Forzando i termini della questione si potrebbe anche dire che
a non servire più fosse la politica estera, perché la politica estera è
la prima forma della politica. Con questa convinzione, crebbe anche
quella che non avessimo più bisogno dell’Europa. Se si presta attenzione
ai sondaggi d’opinione che hanno registrato il gradimento dell’Europa
negli anni successivi al 1989 si vede come si riducano progressivamente.
Poi c’è stato l’11 settembre. Improvvisamente siamo diventati
consapevoli del fatto che la pace non è scontata, che il mercato non
riesce a mediare tutti i rapporti umani, che esiste per ognuno di noi
una situazione di pericolo. La politica nasce proprio dalla percezione
di questa situazione di pericolo, come diceva Carl Schmitt: “La politica
è la scelta tra la guerra e la pace, la distinzione tra l’amico e il
nemico”. Siamo diventati consapevoli del fatto che la guerra è la
regola, la pace l’eccezione, e che la pace è il risultato di giuste
scelte politiche. E così, improvvisamente, dopo l’11 settembre la
popolarità dell’Europa ha fatto un balzo in avanti. La gente oscuramente
ha capito che abbiamo avuto la pace perché alcuni uomini hanno fatto,
intorno alla fine degli anni Quaranta, delle giuste scelte politiche.
Tra le tante, due quelle fondamentali: la scelta della Nato e quella
dell’Europa. E queste scelte politiche hanno assicurato a tutti noi la
pace. Oggi abbiamo bisogno di rivedere quelle decisioni, abbiamo bisogno
di rinnovare le scelte della pace in quanto politiche e non solo etiche.
Ma si parla di politica estera soprattutto perché oggi essa chiama in
causa l’interesse nazionale. Che cos’è l’interesse nazionale? E, nello
specifico, qual è l’interesse degli italiani? L’interesse nazionale è
prima di tutto la capacità di assicurare alla popolazione del proprio
Stato la possibilità di vivere, e di guadagnarsi da vivere col proprio
lavoro e quindi di garantire il necessario afflusso di beni economici.
Questo concetto si trova alla base di alcuni studi geo-strategici, e si
trova alla base anche della successiva costituzione dell’Europa. Ma
facciamo un passo indietro. Le principali scuole del pensiero
geo-strategico sono due. La prima, quella dello Haushofer, secondo la
quale la ricchezza viene dalla terra: più terra possiedo, più ricchezza
possiedo più posso far vivere il mio popolo. Il risultato di questo tipo
di geopolitica è stata la politica del Diciannovesimo secolo e della
metà del Ventesimo: il colonialismo, l’imperialismo, la guerra. Da
questa impostazione dottrinaria dipende il concetto di spazio vitale. Ma
lo spazio vitale di uno Stato è incompatibile con quello di un altro e
quindi lo scontro può essere dilazionato dalle arti della diplomazia ma
rimane inevitabile. La seconda scuola di pensiero geo-strategico è
quella che sta alla base della nascita dell’Europa. E’ la teoria di
Alexander Hamilton, che potremmo definire della Repubblica commerciale,
che chiama in causa la vocazione commerciale del nostro e degli altri
paesi europei. Secondo questa dottrina, non è importante il controllo
del territorio ma il fatto che le merci possano essere comprate,
importate, trasformate, esportate liberamente attraverso il lavoro. Si
chiede, in definitiva, libertà di commercio: che le rotte del mare siano
libere e anche quelle del cielo e i valichi alpini - cosa quest’ultima
che per l’Italia ha una stringente attualità.
Assicurare la libertà di commercio e far vivere il popolo tramite il suo
lavoro: questo è stato il Mercato comune europeo. Un mercato non fine a
se stesso, ma al servizio di un disegno politico che rispondeva ad una
idea condivisa: mai più la guerra in Europa per creare le condizioni
della pace. Un tempo si credeva che solo attraverso la guerra potesse
essere tutelata la vita dei popoli. Se noi consideriamo la guerra come
un’ipotesi assolutamente lontana è perché abbiamo imboccato il cammino
di una politica che ci ha permesso di crescere nella pace. La grandezza
di De Gasperi, di Adenauer, di Schumann, poco compresa dalle nuove
generazioni, ha permesso allora di compiere scelte non facili, ma quelle
sono le scelte che hanno determinato la pace. Una pace che non ha
cancellato la competizione tra le nazioni europee, certo, ma l’ha
spostata piuttosto sul terreno della competizione industriale,
dell’artigianato, del commercio. Invece che alla produzione di corazzate
e carri armati, abbiamo dedicato le energie migliori alla produzione di
lavatrici e automobili: è stato un grande successo.
L’Italia prima della seconda guerra mondiale era un paese che valeva
poco più di un terzo della Gran Bretagna: oggi vale quanto la Gran
Bretagna. Il pil italiano è grossomodo uguale a quello francese, a
quello inglese, di poco inferiore a quello tedesco. Questo è il disegno
dell’Europa: non annullare gli interessi nazionali ma fare in modo che
si coniughino tra loro sul terreno della pace. Quando l’Italia entrò in
Europa lo fece in una condizione di debolezza: ma è stato un grande
successo. L’Europa di ieri, a Sei, in cui Francia e Germania facevano
già la maggioranza politica, ormai non esiste più. Con l’allargamento
degli anni Settanta è nata un’Europa che progressivamente ha mutato
volto. Oggi Francia e Germania possono essere messe in minoranza, la
struttura decisionale è diversa, e l’Italia, che nel frattempo è
cresciuta economicamente, ha acquistato il diritto di far sentire di più
la propria voce. Oggi, per di più, l’asse franco-tedesco – che rimane
fondamentale per l’Europa nata proprio dalla riconciliazione tra
francesi e tedeschi – ha smesso di funzionare: in origine si basava sul
fatto che i due paesi avessero un egual peso politico-economico ma è
ormai evidente che la Germania pesa di più. Anzi, proprio per tenere in
equilibrio quell’asse è necessario che qualcun altro partecipi e
definisca le nuove geometrie europee. Ecco il campo nuovo che si apre
alla nostra politica estera.
La politica estera dell’Italia non può essere altro che l’Europa. Non
esiste la possibilità di garantire la nostra sicurezza, il nostro
benessere fuori dal contesto europeo. Solo in esso si può esercitare la
sovranità dei singoli Stati: siamo sovrani soltanto se siamo capaci di
esercitare congiuntamente le sovranità, solo attraverso l’Europa. Ma
l’Europa non sostituisce la nostra responsabilità politica. Restano i
nostri interessi nazionali che diventano europei solo nella misura in
cui siamo noi a tirare l’Europa in una certa direzione. Lo si è visto
nella vicenda dei militanti palestinesi che si erano rinchiusi nella
Basilica della natività. Intervenire era un interesse europeo, ma
l’Europa non l’avrebbe mai fatto se l’Italia non l’avesse spinta.
Quali sono, dunque, i nostri interessi? Basta guardare la carta
geografica, per ritrovare alcune costanti della politica estera
italiana. L’Italia è sempre stata interessata all’Albania e alla
Tunisia, perché ciò che avviene in Albania e in Tunisia facilmente può
coinvolgere il nostro paese. Oggi il problema centrale da dibattere è
l’immigrazione. Abbiamo raggiunto un buon accordo sull’immigrazione con
la Tunisia, e il canale di Sicilia non è più di tanto attraversato da
navi di disperati provenienti da quel paese. Abbiamo fatto, dopo lunghe
trattative, un buon accordo con l’Albania, e adesso l’Albania ci manda
molti meno immigrati illegali. Per concludere questo tipo di accordi è
necessaria una politica che favorisca l’immigrazione legale a scapito
dell’immigrazione illegale, una politica che dia la possibilità di
venire legalmente nel nostro paese, con un contratto di lavoro regolare.
E significa anche sostenere l’economia di questi due paesi. Che Tunisia
e Albania fioriscano, che imprese italiane siano presenti con forza in
questi paesi è un interesse nazionale italiano, perché se questi paesi
stanno bene fanno da argine rispetto a pericoli esterni.
Ma questo è ancora poco. Dietro all’Albania ci sono i Balcani. Come
l’asse che va da Berlino a Varsavia e poi a Mosca è un asse naturale di
espansione dell’economia tedesca, così il famoso corridoio 5, che va da
Lione a Milano a Budapest a Kiev, e che poi piega verso i Balcani è
l’asse naturale di espansione della economia italiana. Che i Balcani
trovino pace è un problema per tutta l’Europa. Per l’Italia, però, è
fondamentale perché lì si possono espandere le nostre aziende.
Immaginate un fabbricante di scarpe pugliese. Se potesse far fare le
tomaie in Albania, con design italiano, montaggio e rifiniture italiani,
marketing italiano invaderemmo il mercato mondiale delle scarpe di
qualità, perché avremmo prezzi albanesi e qualità italiana. E’ quello
che stanno facendo le aziende del Nord-Est in Slovenia, Ungheria,
Romania (ad esempio nel distratto di Timisoara), ripercorrendo, a ben
guardare, le vie tradizionali dell’espansione del sistema economico
veneto. Oggi i nostri imprenditori riprendono quel cammino. Il fatto che
quelle aree entreranno nell’Unione Europea è un interesse europeo ma in
particolare italiano.
E che cosa c’è dietro la Tunisia? C’è il Maghreb, il Medio Oriente,
l’Africa. In questo secolo che è appena iniziato dobbiamo rilanciare la
politica di pace, sapendo che non è più la pace tra Francia e Germania o
tra Italia e Austria, è la pace con la Russia. La riconciliazione tra la
Russia e la Nato è un fatto di importanza straordinaria. Non si può
certo pensare all’ingresso della Russia nella Ue, perché è un paese
troppo grande e non possiamo permetterci di pagarle le politiche di
coesione e le politiche agrarie, ma dobbiamo ricercare la più stretta
associazione possibile. E lo stesso vale per l’area mediterranea. E’
necessario, cioè, diffondere una possibilità economica, che si leghi
anche ad una cultura. Che la cultura della responsabilità personale, la
cultura del lavoro si diffondano nel Maghreb, in Africa e nel Medio
Oriente è un interesse fondamentale europeo. E’ questo l’altro grande
asse della politica estera italiana: creare le condizioni della pace nel
Mediterraneo. Come? Attraverso la politica. Una politica che favorisca
lo sviluppo commerciale, in modo che l’imprenditore italiano che va in
aree politicamente sensibili sappia che il suo governo lo accompagna,
garantendolo contro i rischi di cambio, assicurandogli un minimo di
protezione per i crediti, come fa in modo esemplare la Germania per gli
imprenditori tedeschi che vanno in Polonia.
Ma sarebbe del tutto sbagliato dimenticare che la politica estera
cammina su due gambe. Una è la gamba dei commerci e l’altra è quella del
potere militare. Ci sono situazioni nelle quali il potere militare
assume un rilievo straordinario. Sono le situazioni in cui domina la
paura. L’Europa sostiene una spesa militare che rappresenta i due terzi
di quella degli Stati Uniti, ed ha un’efficienza che è forse un quarto
di quella dell’apparato militare americano. Un’industria comune della
difesa e una forza comune di intervento rapido europeo ci consentirebbe
enormi recuperi di efficienza, a parità di spese, guadagnando una forza
militare capace di darci quella proiezione di potenza che è l’altra
gamba della politica estera. Una volta la pace dell’Italia si difendeva
al confine di Gorizia. Adesso sappiamo che l’Armata Rossa non arriverà
più a Gorizia, però sappiamo che qualunque incendio scoppia nel
Mediterraneo potrebbe propagarsi anche da noi. E allora la prudenza
suggerisce che bisogna pensare uno strumento militare diverso che sia in
grado di spegnere quegli incendi prima che possano divampare, seguendo
una politica coerente che non è la politica della fortezza-Europa, della
chiusura per difendersi. Il benessere non si difende chiudendosi in una
fortezza, ma allargandolo, facendo sì anche altri lo condividano, e
coinvolgendo sempre più Stati nell’area di quelli che sono interessati a
mantenere un sistema che garantisca il benessere stesso. Le fortezze
assediate prima o poi sono espugnate.
(L’articolo è un estratto dell’intervento del ministro Buttiglione al
convegno di Gubbio sulla politica estera italiana, organizzato dalla
Fondazione Ideazione nell’ultima settimana di giugno).
5 luglio 2002
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