Ceti “colti” e lotta politica in Italia
di Giuseppe Sacco
Con questa magistrale pagina giornalistica, Christopher Emsden, ha
commentato, per i lettori dell’International Herald Tribune1
l’assassinio dell’intellettuale che aveva osato sfidare il clima della
contrapposizione totale e – senza cambiare i propri convincimenti
politici di fondo – aveva accettato di collaborare col nuovo governo del
suo Paese, dopo il cambiamento avvenuto in virtù del sistema elettorale
maggioritario ormai in vigore in Italia. Ma il giornalista americano ha
contemporaneamente dato una definizione dell’intellettuale assai diversa
da quella corrente, ed ha toccato le molte questioni che si sono venute
ponendo relativamente al ruolo dei “ceti colti” nel quadro della vita
politica italiana, su come sia mutato il rapporto tra intellettuali e
politica dopo le profonde trasformazioni avvenute nello scorso decennio:
il crollo del comunismo, la fine dei governi a guida democristiana, ed
il passaggio dal sistema proporzionale a qualcosa che rassomiglia molto
al maggioritario in vigore nei Paesi occidentali dalla grande tradizione
democratica, in primo luogo in Inghilterra. Si tratta di interrogativi
di non poco momento. Perché un così grande numero di coloro che si
autodefiniscono “intellettuali” si rifiutano di accettare il cambio di
maggioranza liberamente deciso dagli Italiani?
Non basta dunque la vittoria ottenuta alle urne il 13 maggio, con lo
stesso sistema elettorale che aveva portato al potere Romani Prodi, per
dare legittimità ad un governo di cui si mette sprezzantemente in luce
sempre e soltanto la componente descamisada delle valli prealpine? O
invece, anche in politica vale – almeno per l’Italia – il principio
sostenuto dall’aristocrazia del danaro, che i voti non si contano, ma si
pesano? E che la sola fiducia del Parlamento non basta per governare, ma
occorre anche – e soprattutto – la legittimazione data dai “chierici”
della cultura? E, d’altro canto, cosa può contrapporre quella parte che
ha portato al potere l’attuale maggioranza all’evidente mobilitazione
contro di essa di una vasta area di intelligencija, che ha finito
addirittura per contestare i suoi propri esponenti politici, perché
considerati troppo concilianti, troppo disposti a lasciare che il
verdetto delle urne trovi riscontro in un governo accettato da tutti? E
perché le simpatie politiche degli uomini di cultura e degli esponenti
delle professioni liberali che hanno votato per il centro-destra, o lo
sostengono apertamente, non pesano, nel dibattito politico, quanto
quelle per la sinistra? Perché le loro simpatie politiche rimangono un
fatto individuale, ed essi non riescono (per usare un orrendo, ma
diffuso, modo di dire) a “fare branco”?
Il pendolo delle grandi democrazie
Per trovare una risposta a questi interrogativi è necessario risalire
alle caratteristiche e al funzionamento del meccanismo elettorale
bipolare e maggioritario che tende faticosamente ad affermarsi nel
sistema politico italiano. Il modello è quello del sistema che, nella
grande tradizione democratica dell’Inghilterra, determina lo spostamento
del “pendolo” del potere, alternativamente dai conservatori ai
laburisti, e viceversa. In questo modello, solo alcuni ceti sociali si
organizzano attorno ai propri interessi. È il caso, in Inghilterra, di
lavoratori dipendenti che – attraverso i loro sindacati – hanno a lungo,
sino all’avvento di Tony Blair, costituito la spina dorsale del partito
laburista, così come la Confederation of British Industry è stata – e
rimane – (assieme alla Corona e alla Finanza) un punto di riferimento
essenziale del Partito conservatore. A queste forze, che rappresentano i
due poli della dialettica politico-sociale, tocca il ruolo di farsi
elaboratrici e portatrici delle diverse proposte politiche tra le quali
l’elettorato è chiamato a scegliere.
Al “voto d’opinione” – che è poi quello dei ceti sociali “colti”,
informati e dotati di capacità critica – tocca invece un altro ruolo
assolutamente determinante. Il “voto d’opinione”, lasciandosi
alternativamente convincere da una delle due estreme, sceglie chi debba
essere l’inquilino di Downing Street, e quindi decide l’alternanza di
politiche che di volta in volta danno la priorità all’accumulazione
oppure alla distribuzione delle risorse. Parafrasando un proverbio, il
funzionamento di tale sistema potrebbe, perciò, essere riassunto dicendo
che la destra e la sinistra propongono, e il centro dispone. Mentre il
voto delle classi lavoratrici e popolari è stabilmente di sinistra e
quello delle classi imprenditrici e più ricche è stabilmente di destra,
è il voto d’opinione – che sociologicamente è politicamente non
estremista – coincide in gran parte con le classi medie impiegatizie e
professionali – che, spostandosi alternativamente verso la proposta
politica che proviene da ciascuna delle due estreme, determina di volta
in volta le oscillazioni del pendolo del potere. Anche senza avere
partiti propri, anzi proprio perché non ha struttura di inquadramento
permanente, il voto d’opinione esercita insomma un potere assolutamente
decisivo, appoggiando una linea più conservatrice o più progressista a
seconda sia delle situazioni obiettive sia delle capacità dei leaders
dei due lati.
Ciò chiarisce il diverso ruolo degli intellettuali organici e
non-organici. Mentre gli intellettuali che si identificano stabilmente
con la destra o con la sinistra debbono svolgere un’intensa attività di
elaborazione e proposta politica, dando contenuti, carica e vivacità
alla contrapposizione politica, agli intellettuali non organici, che si
collocano nell’area del “voto d’opinione” tocca un ruolo che richiede
più capacità critica che spirito propositivo, maggiore freddezza e
indipendenza di giudizio. Tocca il ruolo di informare onestamente
l’opinione pubblica, di orientare il “voto fluttuante” nella sua libera
critica del governo e dell’opposizione, e nella decisiva oscillazione
elettorale. Le due estreme hanno, perciò, a fini di elaborazione delle
loro proposte, bisogno di un nucleo di intellettuali organici – per i
laburisti sono noti anche in Italia quelli della Fabian Society – mentre
la società nel suo insieme ha bisogno di intellettuali critici, che
facciano da opinion leaders, di intellettuali che esercitando di volta
in volta il proprio giudizio, senza imbarazzarsi di altra fedeltà che
non sia quella con la propria coscienza e le proprie convinzioni di
fondo, cioè pensando ed esprimendosi in piena libertà, consentano alla
società nel suo complesso di indirizzare di volta in volta il proprio
percorso. È la presenza nella società di una forte rappresentanza di
questo tipo di intellettuali che garantisce la libertà e il pluralismo
delle opinioni, e non la lottizzazione delle istituzioni culturali da
intellettuali organici dei due bordi. Ed è per questo che il successo
professionale degli intellettuali che si collocano nell’area politica
corrispondente al “voto di opinione”, dovrà – pena un collasso del
sistema dell’alternanza – essere indipendente dalla loro“fedeltà” ad uno
dei due campi, e che tale indipendenza dovrà essere garantita dai
meccanismi classici della società liberal-democratica, come
l’inamovibilità dei professori universitari.
Il sistema maggioritario tipico dei grandi Paesi dell’Occidente a
tradizione democratica stenta però a mettere radici in Italia,
nonostante esso sia stato introdotto nella legge elettorale. Ed infatti
molte delle vicende che hanno fornito il pretesto per accusare l’attuale
maggioranza di scarsa abitudine alla prassi democratica sono, in realtà,
legate alla difficoltà del passaggio dalla vecchia logica tipica del
sistema proporzionale a quella del maggioritario. Non solo le difficoltà
nell’elezione dei componenti del Csm e della Corte costituzionale, ma
anche quelle incontrate nella nomina del Cda della Rai discendono in
larga misura dal fatto che i meccanismi previsti per queste decisioni
sono pensati in funzione di Camere in cui nulla si poteva deliberare se
non attraverso compromessi e lottizzazioni tra molte forze politiche,
nessuna delle quali era normalmente in grado di avere una maggioranza.
Il contesto formato dalla prassi e dalle istituzioni è insomma rimasto
quello antico, e stride con i risultati di elezioni condotte col nuovo
sistema. Ed in questo contesto ancora “vecchia Repubblica” rientra la
mentalità di coloro che hanno ottenuto una reputazione di
“intellettuali” grazie alla pratica della lottizzazione.
Il maggioritario culturale
Il disagio evidente suscitato dal distorto dibattito politico
dell’Italia odierna, e l’eccitazione di taluni media stranieri, che
guardano all’Italia e alle sue imprese come terra di conquista,
discendono direttamente da una visione deformata della questione dei
rapporti tra intellettuali e politica. Non si vuole infatti prendere in
considerazione il fatto che l’esistenza di una maggioranza forte, e il
sistema bipolare che la rende possibile, sono solo un modo per
assicurare la governabilità del Paese, ma non implicano un bipolarismo
culturale. Non si riesce a capire che lo stesso bipolarismo politico
verrebbe meno, se si giungesse ad una spaccatura del paese in due – e
soltanto due – campi d’opinione tra loro contrapposti in tutto, e del
tutto omogenei al loro interno. Anzi, come abbiamo visto, ciò che fa dei
paesi che adottano il sistema maggioritario le grandi democrazie a
tradizione democratica è proprio il fatto che, al di fuori delle due
minoranze ideologicamente molto caratterizzate, esiste un’ampia e
determinante area non etichettabile ideologicamente.
Del resto il passaggio da un sistema elettorale proporzionale a quello
maggioritario, non è significato la sparizione delle vecchie tradizioni
e familles politiques. L’esperienza costituzionale francese dell’ultimo
cinquantennio ne è un eccellente esempio. Né le molteplici mutazioni, di
sistema elettorale durante la Quarta Repubblica, né il passaggio alla
Repubblica presidenziale, né le successive esperienze della lunga
“monarchia elettiva” mitterandiana, e della diarchia della cohabitation,
sono riuscite a scalfire il sistema di inquadramento permanente
dell’elettorato in “fedeltà” addirittura ereditarie, mentre le cariche
dello Stato passavano alternativamente dalla destra alla sinistra e
viceversa. Da parte di alcuni gruppetti micro-intellettuali italiani, il
sistema maggioritario viene invece visto proprio così, come uno scontro
tra “pensieri unici” contrapposti, tra i quali ognuno sarebbe obbligato
– rinunciando ad ogni capacità e diritto di critica – a scegliere per
un’adesione totale. La dialettica politica sarebbe ridotta alla
contrapposizione perfetta di due modi di concepire la società e
addirittura la vita: uno dominato dal fine di (volgarmente) migliorare
le condizioni economiche, l’altro di preservare i canoni etici, ed
addirittura estetici, che costituiscono i (presunti) “quarti” di nobiltà
dei ceti intellettuali. Ne risulterebbe una sorta di consacrazione della
guerra civile permanente.
Ciò per fortuna non accade se non negli slogan di qualche becero
conduttore di talk show, nei deliri senili di qualche giudice in
pensione, nell’esibizionismo di qualche regista, e nell’agitazione al
limite del ballo di San Vito, di qualche professore. Costoro si
spacciano così per difensori di una “europeità” dell’Italia che dicono
minacciata. Ma provincialmente ignorano e faziosamente trascurano il
fatto che, proprio nelle grandi democrazie a sistema maggioritario, una
tale spaccatura, una tale perdita di capacità di giudizio autonomo da
parte dell’opinione pubblica non direttamente coinvolta nella (e non
dipendente economicamente dalla) politica sarebbe considerata una vera
tragedia. E in un paese come il nostro – con tradizione democratica
recente o distorta dalle contrapposizioni ideologiche dell’ultimo
cinquantennio – significherebbe ricadere in un clima di sterile scontro
frontale tanto più gridato e venato di odio personale, in quanto tale
scontro non trova più le giustificazioni tipiche degli anni in cui
un’invisibile cortina di ferro attraversava il paese, e in cui i leaders
d’opinione non erano interni alla società italiana, bensì si trovavano a
Mosca e all’Avana da un lato, e a Washington e in Vaticano dall’altro.
Significherebbe perdere tutto il beneficio delle recenti conquiste del
nostro paese. Perché la fine della frammentazione mondiale ha
significato per l’Italia che un’enorme fascia mediana dell’opinione
pubblica è stata rimessa in libertà, e restituita al suo ruolo
decisionale, sino ad allora brutalmente espropriato: un ruolo assai
impegnativo che richiede dagli intellettuali un equilibrio, un’autonomia
intellettuale e critica, ed una capacità di leadership cui essi non
erano abituati, che ad essi non era sino a ieri richiesta, e che molti
non ce la fanno ad improvvisare.
A disagio con la comunità scientifica
Come quei preti che non capivano il latino, quella dei “chierici” è, in
Italia, una categoria tanto più autoreferenziale e arrogante quanto più
tagliata fuori dal sapere contemporaneo, e tanto più dedita a fare
politica quanto più distaccata dalla realtà socio-economica del
ventunesimo secolo. In ciò, il nostro Paese sembra imitare lo stantìo
modello francese, dove gli intellettuali sono una casta che vive di
frasi fatte e atteggiamenti fasulli, strettamente ereditaria e
fortemente sovvenzionata dallo Stato, una casta non a caso
autodefinitasi “mandarinale”. Assai distante è invece il modello
vincente dei Paesi anglosassoni, dove l’élite intellettuale ha forte
carattere scientifico-tecnico, lascia ampi margini al merito, oltre che
all’origine sociale, e misura il proprio contributo alla vita della
collettività più in termini di brevetti e premi Nobel che non attraverso
l’attività di firmare manifesti più o meno “indignati”.
Nelle società, come quella italiana, poco dinamiche dal punto di vista
tecnologico (a differenza di quelle anglosassoni), ma poco rigida (a
differenza di quella francese) nella divisione stagna tra le classi
sociali, non si incontrano né i superbi e arroganti “mandarini”
tratteggiati da Simone de Beauvoir né gli scienziati sempre in
concorrenza per il successo, che popolano Silicon Valley. Esiste invece
solo un “generone” intellettuale, con cui tende ad identificarsi una
quota assai rilevante della forza-lavoro che svolge attività di tipo
terziario. Ed una parte cospicua dell’opinione pubblica è composta da un
ampio strato impiegatizio che però, anche se svolge un lavoro frustrante
e mal pagato, cerca di farsi passare – agli occhi altrui e soprattutto
ai propri – come fondamentalmente diverso e “superiore” rispetto a
coloro che svolgono attività legate alla produzione.
Non a caso, è costante la lamentazione da parte dei piccoli
“intellettuali” di guadagnare meno dell’idraulico, mentre il piccolo
imprenditore viene sprezzantemente chiamato “industrialotto”, bottegaio
o “scarparo”. Questa pretesa “superiorità”, insomma, non è economica,
bensì percepita, e soprattutto esibita, come sociale e addirittura
morale. La mentalità di questa lower middle class porta spesso a
comportamenti economicamente irrazionali, come quelli visibili – ad
esempio – nella situazione che si registrava a Prato, negli anni
Ottanta. In una piccola città in cui c’erano circa ottocento diplomati
disoccupati, si manifestava un tale fabbisogno di operai che, a chi
accettava di lavorare un sabato alla cardatura degli stracci si offriva
di guadagnare un milione – di allora – in un solo giorno. Tra l’offerta
e la domanda di lavoro si inseriva infatti un pregiudizio sociale e
“culturale” che faceva considerare degradante il lavoro in fabbrica agli
esponenti del ceto mini-intellettuale. Si inserivano cioè le
frustrazioni di una generazione che credeva, per aver approfittato della
scolarità di massa, di aver cambiato classe sociale rispetto ai propri
genitori, e che avrebbe vissuto come un fallimento peggiore della stessa
disoccupazione la necessità di accettare un lavoro dello stesso tipo di
quello grazie al quale i padri avevano potuto, negli anni precedenti,
mantenerla agli studi.
Inutile dire che a questo particolare strato delle cosiddette classi
“colte” appartiene anche la grandissima maggioranza degli insegnanti
necessari alla prolungata scolarizzazione di massa tipica delle società
terziarizzate. Anzi, basta guardare ai leaders della triste
manifestazione dei professori di Firenze, per vedere come l’insegnamento
sia stato il rifugio di tutti coloro che, specie dopo il ’68, non sono
riusciti ad inserirsi nel sistema produttivo, e che traducono il loro
fallimento personale e politico in una vera e propria aggressione
intellettuale ai loro sfortunati studenti, cui essi tentano di
trasmettere una minestra riscaldata degli slogan pseudo-rivoluzionari
della propria generazione. Il disperato orgoglio con cui questa
categoria sociale enfatizza il carattere “non-manuale” della propria
attività è tanto più paradossale non solo perché tutta la sua retorica è
tratta dagli slogan storici del movimento operaio, ma anche perché
proprio con le categorie operaie “in tuta blu” essa ha oggi in comune il
difficile rapporto con il progresso tecnologico, che determina ormai le
trasformazioni sociali, e che li emargina sempre di più.
Una finta sinistra
Non è irrazionale che questa categoria sociale, pur nella sua sciocca
presunzione e nell’atteggiamento di disprezzo verso chi fa un lavoro
manuale, percepisca se stessa come politicamente a sinistra. La sinistra
organizzata è, per una nobile tradizione, quella in cui si riconoscono
le posizioni sociali più fragili. Non a caso le sue origini rimontano
alle organizzazioni degli operai sfruttati a sangue all’epoca della
rivoluzione industriale. Con il progresso tecnico, sempre più accelerato
degli ultimi anni, essa è tuttavia giunta talora ad atteggiamenti quasi
luddisti, volti a difendere posizioni fragilizzate dalla naturale
evoluzione dei tempi. Basti un esempio. Alla metà del Ventesimo secolo,
i sindacati inglesi imponevano ancora all’amministrazione ferroviaria di
tenere su ogni treno due tenderers, cioè due addetti al tender, il
vagone del carbone agganciato immediatamente dietro la locomotiva. E ciò
quando la locomotiva non andava più a carbone da decenni, e il tender
era scomparso. Oggi, con logica analoga, ai movimenti politici incapaci
di interpretare in maniera moderna il glorioso passato delle lotte
contro lo sfruttamento dei lavoratori, finiscono per fare riferimento
quelle categorie piccolo-impiegatizie, dotate di una infarinatura di
cultura, che percepiscono bene come il loro status sociale stia
rapidamente scendendo, anzi stia letteralmente precipitando, e che non
hanno, per ragioni intellettuali, di formazione o di età, la capacità di
autoriciclarsi in qualcosa di più professionale o coincidente con le
richieste del mercato, cioè in una attività intellettuale anche di tipo
minimamente creativo.
L’ambiguo rapporto tra vecchi lavoratori dell’industria e lower middle
class appariva evidente nella manifestazione dei professori universitari
di Firenze. Era infatti chiaro come essi avvertissero di appartenere a
un ceto sociale ammuffito e spinto da parte dall’evoluzione sociale. Ma
era anche chiara la loro incapacità di reagire con lo strumento del loro
lavoro – la penna – anziché attraverso un corteo. Ci insegnano le storie
patrie che la penna fu l’arma con cui un uomo solo, Silvio Pellico, dal
fondo di una prigione inflisse all’Impero “più danno di una battaglia
perduta”. Ma cosa sarebbe stato Silvio Pellico in un corteo? Il corteo è
lo strumento di coloro che individualmente non riescono ad incidere, che
hanno solo il numero, la massa anonima per ottenere un briciolo di
“potenza”. E i professori di Firenze, rinunciando alle armi a loro
disposizione per conquistarsi una più creativa presenza sociale e
intellettuale, hanno scelto la via di una manifestazione che non ha
potuto che umiliarli ancora di più, soprattutto ai loro stessi occhi,
perché li ha fatti assomigliare ai lavoratori “del braccio”, da cui essi
tanto accanitamente tendono a distinguersi. Il disprezzo degli
“intellettuali” per coloro che svolgono un lavoro produttivo è un
fenomeno sociale e politico ben noto, che negli anni Venti ha portato i
piccoli impiegati a sostenere il fascismo contro l’emergente classe
operaia, che minacciava di erodere il loro esiguo margine di vantaggio
sociale. Ai professori di oggi – un tempo “baroni della cattedra”, ma
che non a caso da qualche anno vengono chiamati semplicemente “docenti”,
titolo un tempo usato solo per i maestri elementari – si pone però un
problema aggiuntivo, quello della perdita di ogni potere sociale. Alla
fine dell’Ottocento, persino il maestro era nel piccolo villaggio un
leader d’opinione. In Francia, era il pilastro dell’ideologia
repubblicana, dopo che si erano alternate due rivoluzioni, tre
repubbliche e due imperi. Oggi, questo ruolo è strappato persino ai
professori universitari da parte di altri – e assai più ricchi e
scintillanti – gruppi sociali.
Il popolo delle partite Iva
Un caso emblematico è quello accaduto qualche anno fa a proposito
dell’Osservatorio vesuviano, una struttura di ricerca sul vulcano e
soprattutto di controllo della sua attività, a fini di sicurezza della
popolazione. La carica di direttore di questa istituzione era sempre
spettata a un eminente vulcanologo dell’università di Napoli, che si
vedeva così conferito anche un potere “strategico” importante come
quello di dare l’ordine di evacuazione della popolazione. Ad uno degli
ultimi rinnovi di questa carica, tuttavia, qualcuno propose di cambiare
criterio e di dare questo ruolo ad un personaggio della televisione,
Piero Angela. Inutile dire quali furono le parole usate di fronte a
questa proposta. Tra i professori naturalmente prevalse la parola
“indignazione”, e gli ambienti universitari napoletani “insorsero”. A
nulla valse l’ovvia obiezione che se l’allarme fosse stato dato da Piero
Angela – su suggerimento, come è ovvio, di un vulcanologo – il milione e
passa di persone a rischio che abitano a bordo del cratere sarebbero
effettivamente scappate, mentre non era sicuro che avrebbero creduto ad
uno sconosciuto professore. Buon senso troppo terra terra! In realtà,
troppo forte era la frustrazione della categoria universitaria per la
perdita del proprio ruolo di leader d’opinione a vantaggio dei
cosiddetti “mezzobusti” televisivi.
Il difficile rapporto tra il “ceto intellettuale” e la cultura
scientifico-tecnica è un fatto generale, ed è molto ben mostrato
dall’impatto che hanno avuto l’introduzione del computer (negli anni
Ottanta) e il boom della rete (negli anni Novanta). Come strumenti di
lavoro, il computer e la rete determinano infatti un notevole aumento
della produttività di alcuni gruppi sociali, mentre possono
rappresentare addirittura una minaccia per l’occupazione della lower
middle class impiegatizia, ed hanno seriamente contribuito a farne uno
strato sociale che in un mondo dominato dal progresso tecnico appare
sempre sul punto di essere spazzato via. A tutto ciò si aggiunge
l’impatto della standardizzazione e la diffusione della cultura
gestionale e del rischio. Questo altro aspetto della società
scientifico-tecnica contemporanea, mentre attribuisce a una parte delle
classi professionali la possibilità di vendere in maniera autonoma i
frutti del proprio lavoro, emargina totalmente le classi impiegatizie
abituate al tran-tran e al rifiuto di ogni responsabilità.
Non può, quindi, sorprendere che queste ultime guardino ai sindacati e
ai partiti di tradizione operaia come strumento di rappresentanza
politica, mentre gli strati professionali che possiamo chiamare upper
middle class, non si riconoscono in tale rappresentanza e chiedono,
piuttosto, condizioni che favoriscano la loro capacità di spendersi
individualmente. Più in generale, gli uni percepiscono il perseguimento
del proprio interesse economico e sociale come un’azione collettiva, gli
altri come un’azione individuale. È chiaro, insomma, che è ad un ceto
intellettuale troppo ignorante dal punto di vista tecnico per inserirsi
nella new economy e nella società dell’informazione, può parlare solo
una forza politica che si spaccia per sinistra, ma è in realtà
fortemente conservatrice dal punto di vista sociale. Cioè una “sinistra”
che sinistra non è, anzi è il suo esatto contrario.
La forte presenza di questa lower middle class, pseudo-intellettuale
nell’opinione “di sinistra” in Italia, non solo impedisce che venga
svolta quell’azione di elaborazione e di proposta che, in un sistema
bipolare, tocca – come abbiamo visto – agli intellettuali “organici”, ma
finisce per avere effetti devastanti sulle stesse organizzazioni
politiche dei lavoratori. La “fascia bassa” delle classi colte, per
l’assenza di chiara coscienza della propria vera collocazione nella
gerarchia dei rapporti di produzione, andrebbe considerata, in termini
marxisti, come parte del sottoproletariato. Ed essendo, come
quest’ultima amorfa massa, facile preda di ogni populismo e di ogni
demagogia, essa ha dunque un rapporto assai difficile con la classe
operaia, come lo ha con l’upper middle class. Ed inevitabilmente
attribuisce alla politica non solo obiettivi, ma anche “modi” operativi
molto differenti da quelli tradizionali del movimento operaio.
Nell’esaminare le caratteristiche e il ruolo politico delle cosiddette
“classi colte” bisogna perciò distinguere la lower middle class
dall’upper middle class, che in Italia viene oggi detta “il popolo delle
Partite Iva” e che lavora nelle cosiddette professioni liberali e
nell’industria culturale, entrambe enormemente sviluppatesi negli ultimi
anni.
Questa seconda categoria – in cui rientra quella minoranza di professori
universitari che non si dedicano solo a risibili lotte per il potere
accademico – si distingue dalla lower middle class anche per motivi non
politici, e per il tipo di lavoro. Essa può infatti vantare una
caratteristica “creativa” della propria attività, che non può essere
invece riconosciuta alla prima categoria.
La “scintilla” che la contraddistingue può essere piccola o grande,
talora assai visibile – come nel caso del giornalista – e talora anche
minima, ma basta comunque a differenziarla dalla micro-intelligencija
impiegatizia, dai semplici passacarte. Perché anche quando è di secondo
livello, il lavoro creativo rimane differente, e presenta aspetti che lo
fanno assomigliare a quello dell’artigiano, cioè ad un tipo di
lavoratore che notoriamente trae grande gratificazione dalla propria
attività. Ed un artigiano – sempre per restare nella terminologia
marxista – non appartiene al proletariato, ma svolge una professione
tipica delle forme che precedono la produzione capitalistica, e non è
perciò coinvolto nella “reificazione dell’umano” e nella conseguente
degradazione morale.
Produttori e ripetitori di idee
La linea di demarcazione tra due componenti della middle class coincide
largamente con la distinzione tra consumatori e produttori di cultura.
Questa distinzione implica una differenza concettualmente assai chiara.
Ad esempio, per quel che riguarda la cultura cinematografica, i
newyorkesi sono quasi esclusivamente consumatori, mentre i produttori si
trovano a Los Angeles. Ciò – almeno a prima vista – significa che, in
una società come quella americana in cui il cinema svolge un vero e
proprio ruolo di costruzione del consenso, gran parte del pensiero dei
consumatori è pesantemente condizionato dai produttori losangelegni di
un prêt-à-penser accuratamente elaborato. Cioè che i primi dipendono dai
secondi. New York da Los Angeles. La lower middle class pensa in pratica
con la testa dell’upper middle class. Ma come si spiega allora che la
massa della lower middle class può sviluppare un proprio autonomo
atteggiamento politico-culturale-estetico, e che in Italia questo prenda
l’assetto – a tutti visibile – di un rigetto di un’élite politica, che
essa avverte come a sé estranea, e che invidia nel profondo al punto di
odiarla? Come si spiega che queste frustrazioni vengano espresse, come
ha scritto Emsden, "da celebrità che hanno ottenuto una reputazione
culturale"?
Si spiega col fatto che, nella società dei consumi culturali di massa,
anche i produttori dipendono, da un punto di vista di mercato, dai
consumatori, specie in un’epoca in cui i maitres-à-penser non si
esprimono più – come avveniva all’epoca di Omero – in versi da
diffondere e tramandare a memoria, oppure – come è avvenuto dall’epoca
di Martin Lutero sino alla Rivoluzione francese – in pamphlets passati
di mano in mano, bensì attraverso costosissime produzioni
cinematografiche. Tra il creatore e il consumatore di cultura si
inseriscono perciò figure nuove, come colui che finanzia la produzione e
coloro che curano la distributore e la promozione, ecc. Di fatto,
insomma, il creativo è vincolato – in realtà più nei suoi atteggiamenti
come persona pubblica, che nella sua opera – da gusti, tic e pregiudizi
della massa dei consumatori. Il mercato culturale impone cioè alla parte
bassa dei ceti colti le creazioni della parte alta, ma trasmette anche
nel senso inverso potenti condizionamenti. Il meccanismo è, insomma, in
tutti i campi, analogo a quello che vediamo nella moda, dove le scelte
dei creativi vengono imposte ai consumatori anche contro ogni buon
senso, ma in cui il malgusto dei consumatori, il loro bisogno di
supplire all’assenza di personalità con la stravaganza nel vestire viene
anche tenuto in grandissima considerazione dai creativi.
Significativo è ciò che avviene sul mercato del cinema. Qui, per i
creativi che hanno difficoltà ad affermarsi, diventa essenziale
l’imposizione dei loro prodotti al pubblico da parte di quella complessa
macchina di diffusione del prêt-à-penser che è il sistema
pubblicità-critici cinematografici-stampa politicamente impegnata. E
diventa perciò utilissimo che il regista, o l’attore, si dichiarino –
nella loro vita personale – politicamente allineati con le posizioni e
gli interessi di questa complessa struttura, fatta di persone che –
almeno in Italia – vivono di occupazioni para-pubbliche, e che sono
state inserite nelle strutture culturali dello Stato e delle
amministrazioni locali sulla base della loro fedeltà acritica all’unica
forza politica che ha fatto sistematicamente quel “lavoro culturale”
deliziosamente descritto da Luciano Bianciardi in un famoso romanzo.
Questo demi monde pseudo-colto finisce col dare una linea precisa a
coloro che, privi di ogni talento, cercano non di meno il successo
culturale. Non è un caso se le critiche a D’Alema, il solleticamento
delle frustrazioni dei bassi livelli dei ceti colti, non siano venute da
Roberto Benigni, che è riuscito a sfondare sul mercato mondiale,
aggirando persino il formidabile muro del protezionismo americano. Non è
un caso che essa sia invece venuta da Nanni Moretti, che l’Oscar non è
riuscito neanche a sfiorarlo e il cui successo non trova nessuno spazio
se non fuori da un preciso ambiente mini-intellettuale italiano, di cui
peraltro i suoi film riproducono le frustrazioni e le problematiche. La
lower middle class che “dice cose di sinistra”, le “classi colte”
impiegatizie o comunque non professionali, non potrebbero neanche
balbettare la metà dei loro luoghi comuni senza essere riforniti di
slogan belli e pronti da parte di quei particolari gruppi sociali che
gli inglesi chiamano, the chattering classes, “le classi chiacchierone”,
che dominano il mercato culturale, e le grandi istituzioni della
comunicazione. Il loro modello di riferimento, per quel che riguarda la
leadership, è infatti quello del rapporto tra il pubblico dei villaggi
vacanze e il cosiddetto “animatore culturale”, o – se si preferisce –
quello del rapporto che intercorre tra il conduttore di un talk show
televisivo e i cosiddetti bravieri: una sottocategoria – meglio pagata –
del pubblico che presente durante le trasmissioni ha il compito di
battere le mani quando si accende il pannello “applausi”. I bravieri
sono l’élite di questa massa poco differenziata perché, ad un apposito
segnale, non solo battono le mani, ma gridano anche “bravo! bravo!”, e
per questo guadagnano di più.
L’industria del prêt-a-penser ha dunque, come ogni settore
dell’economia, un’offerta e una domanda, alcuni produttori specializzati
ed un mercato ben identificato come orientamento culturale, come livello
economico e come collocazione sociale. Ciò si riflette sulla natura e la
definizione del prodotto offerto che, naturalmente, non ha solo lo scopo
di consentire di partecipare al suddetto chiasso della vita politica
italiana, ma anche funzioni – ben più importanti economicamente – di
svago e soprattutto di soddisfazione psicologica attraverso la
promozione dell’auto-immagine. L’industria culturale, rispetto a questi
ceti che costituiscono il suo naturale mercato, deve fornire anche gli
strumenti per compensare psicologicamente il disagio creato dal fatto
che l’impiegato, pur credendosi “superiore” guadagna meno dell’idraulico
o del tassista. I media rivolti a questo pubblico (ad esempio il
quotidiano Repubblica) si differenziano perciò dai media rivolti agli
idraulici e ai tassisti (come la Gazzetta dello Sport) perché accanto
alle pagine sportive offrono anche pagine culturali.
È facile capire la finalità di queste pagine, come dei prodotti
culturali (film, libri) che da queste vengono promosse. Basta guardare
alla sostanziale incomprensibilità e alla totale inconcludenza degli
articoli pubblicati. È esperienza comune leggere un intero paginone
centrale di Repubblica, senza veramente riuscire a capire di cosa si
stia parlando, o arrivare all’ultima pagina dell’Espresso, con la
dolorosa constatazione di aver capito ancora meno del mondo di quanto
non si capisse quando si è affrontata la prima pagina. Eppure, i più
frustrati dei lettori ricevono da ciò una sorta di promozione
psicologica che si spiega solo con i parametri mentali di Woody Allen,
che non a caso è uno dei loro idoli. Woody Allen diceva: «Io non
accetterei mai di entrare in un club che prendesse come socio uno come
me». I lettori di Repubblica, invece, si sentono promossi
intellettualmente e socialmente per il fatto di leggere articoli così
“colti” da essere incomprensibili. Seguendo lo stesso meccanismo
psicologico, essi compreranno – come suggerito dal loro giornale – Il
pendolo di Foucault di Umberto Eco. Non riusciranno mai ad andare oltre
la terza pagina (anche saltando la lunga citazione iniziale in ebraico)
ma lo esibiranno sul tavolinetto del loro salotto come uno status
symbol. Utilizzeranno cioè questo libro tanto “fico” da essere
addirittura illeggibile come uno strumento di promozione sociale.
La rottura dei ceti colti
La fondamentale differenza di collocazione socio-economica di questi
“intellettuali” perdenti rispetto a quelli che riescono ad essere, in
qualche modo, “vincenti”, non può che produrre un diverso atteggiamento
psicologico e politico. Nel primo caso sarà frustrato e rancoroso e, nel
secondo, ottimista (anche se talora solo dell’ottimismo della volontà) e
collaborativo. E soprattutto porta ad una diversa collocazione politica,
ad una diversa domanda di rappresentanza e ad un diverso tipo di critica
nei confronti del sistema e del potere. La rottura tra “ceti colti” di
successo e “ceti colti” ripiegati su se stessi, che si è consumata in
Italia negli ultimi dieci-quindici anni sfugge completamente al “nuovo”
teorico di importazione della sinistra, il professor Paul Ginsborg, che
forse non a caso costituisce un esempio più unico che raro di “fuga di
cervelli” da un sistema universitario assai avanzato – e che garantisce
visibilità mondiale – come quello anglosassone ad uno semidisastrato e
provinciale come il nostro. Ginsborg, in un suo articolo su Repubblica,
accomuna infatti in un’unica, e da sempre ambigua, categoria – il“ceto
medio” – figure professionali tra loro assai diverse: "insegnanti,
professionisti, operatori sociali, donne da poco inserite nel mercato
del lavoro, studenti, figure professionali legate alla new economy,
tecnici, dirigenti del settore pubblico".
Nulla è meno marxista di questa ammucchiata, che non tiene conto della
collocazione di queste ed altre simili figure professionali, nel sistema
dei rapporti di produzione, e della fondamentale diversità dei due modi
in cui si forma il loro reddito. I salariati, in cambio di danaro,
offrono le ore della loro vita (sono cioè degli “alienati” nel senso più
marxista del termine), e si scontrano di conseguenza con un limite
invalicabile di quanto può essere ottenuto col loro lavoro, anche
attraverso gli straordinari, cioè attraverso l’autosfruttamento. I
professionisti – invece – possono guadagnare tanto di più quanto
maggiore è la loro fantasia, creatività, capacità di innovare e di
spendersi sul mercato. In ciò, essi hanno un significativo punto di
contatto con la classe operaia vera e propria, che è quella da cui
provengono quasi tutti i tanto disprezzati “industrialotti”. Perché
l’operaio vero – nel sistema di piccole imprese collegate in una
fittissima rete di subappalti che caratterizza l’economia italiana – può
nutrire la speranza di mettersi in proprio. Egli assomiglia perciò, e
guarda come modello-obiettivo, proprio al “popolo delle partite Iva”.
La rivolta delle “classi colte” della sinistra contro i loro leaders
tradizionali, è stata una rivolta di una folla impiegatizia di frustrati
e dei loro fornitori di luoghi comuni, contro il pragmatismo politico di
ciò che resta o discende dallo storico “gruppo dirigente” del Partito
comunista italiano. Ma è stato anche un fenomeno in cui la propaganda
comunista, di anni e anni, si è rivoltata contro questo gruppo. La
rivolta di Moretti e dei suoi infantili girotondisti – un episodio, come
si è detto, in cui i bambini hanno mangiato i comunisti – non ha nulla a
che fare col governo del Paese e i suoi problemi, come non ha nulla a
che fare col dire o meno “qualcosa di sinistra”. L’approccio di Moretti
nel porre il problema della sinistra è, infatti, quanto di meno marxista
si possa immaginare. La responsabilità della sconfitta dei Ds e loro
alleati nello scontro politico e elettorale del 2001 può difficilmente
essere dei “capi”, perché – in quel tipo di analisi – i grandi conflitti
storici superano le persone, e vedono protagoniste le masse, mobilitate
dalla presa di coscienza dei loro interessi di classe. E tutta la deriva
qualunquistica tendente a personalizzare i contrasti politici, che oggi
si vede soprattutto nella demonizzazione di Berlusconi, è peraltro un
vizio antico del mondo comunista. In definitiva, non è che un’operazione
eguale – anche se capovolta – rispetto al culto della personalità. E
poi, che razza di sinistra marxista era quella che – nel suo momento più
bello – poté concepire l’idea che tutto dipendesse da un solo uomo
politico, Aldo Moro, e che, in occasione niente di meno che di una
svolta nei destini del Paese tanto grande da essere etichettata
“compromesso storico”, il leader democristiano fosse addirittura da
considerare “unico”.
La debolezza politica e ideologica dei politici che pretendono di essere
“di sinistra” appare quindi antica. Ed essa è oggi tanto più allarmante
in quanto essi, di fronte alla rivolta di questa lower middle class
pseudo-intellettuale, hanno immediatamente abbandonato, la strategia
tendente a conquistare attraverso la moderazione e la proposta politica
la parte centrale dell’opinione pubblica alle proposte della sinistra,
così come era riuscito a fare il più politico Prodi. Alle prime bordate
di fischi essi si sono invece arresi all’idea di diventare una diversa
sinistra, molto meno politica e molto più “intellettuale”, molto meno
operaia e molto più vicina alle “classi chiacchierone”. E sono passati
ad una strategia che tende ad annettersi il centro attraverso la
personalizzazione dello scontro, la demagogia e – come è stato detto da
parte non sospetta – addirittura l’odio. E francamente delude vedere che
– nientemeno che sul Corriere della Sera – Paolo Mieli finisca per dare
il proprio contributo a questo allontanamento dell’appena scoperta
logica dell’alternanza, cioè dalla grande tradizione democratica
occidentale, quando banalizza il fatto che l’Italia si vada
radicalizzando. E sorprende che Mieli arrivi a scrivere che l’odio
sarebbe connaturato al passato cattolico della stragrande maggioranza
degli italiani. È invece evidente che la grande massa degli italiani,
che ha votato Berlusconi perché apparentemente impolitico e addirittura
anti-politico, associa il clima di odio e di calunnia proprio alle risse
politiche di sette assai poco cattoliche. E che mai un intellettuale
dovrebbe accettare con tanta leggerezza una radicalizzazione che
significa nei fatti la restrizione dello spazio concesso alla libertà
critica.
Un milione di tute blu
In questo quadro di degenerazione piccolo-borghese, e di tradimento dei
chierici di sinistra del ruolo di elaborazione di proposte e strategie
che ad essi toccherebbe, è forse possibile dire che uno degli aspetti
positivi della manifestazione sindacale del 16 aprile, sta nel fatto che
le classi lavoratrici tradizionali, i cosiddetti blue collars, hanno in
quell’occasione ripreso sulla scena sociale e politica buona parte dello
spazio occupato negli ultimi mesi dalla chiassosa lower middle class,
che per avere molta invidia, ma non veri e propri interessi (come invece
li ha la classe operaia) da contrapporre a quelli del “popolo delle
Partite Iva”, può alimentare solo sterili polemiche. Il sindacato,
infatti, proprio perché istituzionalmente difensore di interessi
costituiti e assai ben identificabili, non ha bisogno di dar fiato a
questi atteggiamenti. Il sindacato può certo duramente opporsi al
programma e all’azione del governo, ma non ha interesse a creare un
clima di odio come quello che ha portato all’uccisione di Marco Biagi e
che in passato si è ritorto anche contro coraggiosi sindacalisti. Esso
può indubbiamente essere criticato perché – in quanto espressione della
parte “protetta”e anziana dei lavoratori a scapito dei precari e
soprattutto dei giovani – è troppo conservatore. E giustamente Padoa
Schioppa, sul Corriere della Sera, ha definito il proletariato
contemporaneo come quella forza sociale che "appagata dalle proprie
conquiste ha amministrato la rendita divenendo una forza di
conservazione volta a impedire in tutti i modi che il mondo continuasse
a cambiare". Resta però il fatto che i lavoratori – quelli veri – pur
non essendo in grado di rispondere con una proposta politica complessiva
alle esigenze di crescita della società italiana, hanno un interesse
evidente a che essa non scivoli nello scontro civile e nel sangue. Essi
sono cioè psicologicamente e politicamente al polo opposto rispetto alla
lower middle class e ai suoi leaders parolai che hanno solo frustrazioni
da sfogare, e che costituiscono quindi il più fertile terreno di cultura
per l’esaltazione parapolitica e per il terrorismo culturale.
Gli interessi che i sindacati rappresentano non coincidono insomma con
le "insensatezze" di qualche anziano professore2, con il livore contro
il mondo intero di qualche conduttore televisivo e con le personali
ambizioni di qualche dirigente della Rai, cui ha fatto riferimento
esplicito Vittorio Agnoletto quando – al congresso di Rifondazione
comunista – ha detto: "crediamo nel pluralismo dell’informazione, ma
Zaccaria non può certo rappresentarlo". Anzi, è proprio sulla base di
come si sono comportati in Rai gli Zaccaria e i Santoro che si può dare
ragione a Sylos quando scrive che "sarebbe stato assurdo pensare che" la
Signora Margaret Thatcher volesse "minare la libertà di informazione. Da
noi non è affatto assurdo". La differenza tra questi “intellettuali” e
le tute blu non potrebbe essere più chiara. Questi non hanno altra
scelta che giocare il tutto per tutto, tentando di dare una spallata al
sistema, prima che la maggioranza uscita dalle urne del 13 maggio,
riesca a smussare almeno le punte più vistose delle strutture del
“consenso organizzato” formatesi negli anni del centro-sinistra. Gli
operai “protetti”, invece, hanno interesse solo a contrastare il
programma della maggioranza, impedendo ogni riforma, e a tenere in vita
tutto l’apparato tradizionale del welfare state, anche quando tale
immobilismo cozza chiaramente contro il fatto che alcuni aspetti del
welfare state di queste sono responsabili della crisi fiscale dello
Stato, e che prolungarli senza innovazione significa mettere a rischio
tutto un insieme di grandi conquiste sociali e civili, che le società
europee considerano giustamente irrinunciabili.
Si può sperare che una maggiore presenza del sindacato anche in sede di
elaborazione programmatica e culturale, e di una maggior rilevanza anche
politica dei leaders da esso provenienti, faccia cambiare il tono di una
propaganda politica che è ormai rivolta solo alle “classi chiacchierone”
e ad un pubblico di classe medio-bassa, preso a tenaglia tra un
atteggiamento di snobistica arroganza nei confronti della classe
operaia, e la propria incapacità di imitare il “popolo delle Partite
Iva”. Si può sperare che un altro approccio subentri a quello di un ceto
micro-intellettuale, che ha sviluppato non tanto un atteggiamento di
protezione delle conquiste – e talora dei privilegi – della classe
lavoratrice, bensì un rifiuto totale di accettare che la società
italiana progredisca lungo la via di una modernizzazione che
inevitabilmente lo emargina, come accade a tutti i ceti sociali fuori
passo con la realtà del mondo tecnico-produttivo. Tutta la società
italiana, avrebbe da guadagnare se nel paese si manifestasse una vera
opposizione politica, fondata sulle classi a danno delle quali rischia
di ritorcersi la riforma dello Stato sociale, anziché su una lower
middle class mossa non da interessi, ma solo dalla vanità e
dall’invidia, le cui posizioni non possono che essere velleitarie e
perdenti sul terreno politico, e che si rifugiano nella
personalizzazione estrema, con una condanna che vuol essere etica, ed
addirittura estetica, del ceto dirigente – per la verità, assai
improvvisato – nato dal crollo, nei primi anni ’90, degli equilibri di
potere internazionali, e di quelli interni ad essi collegati.
L’interesse collettivo del paese sarebbe – in altri termini – altamente
servito se nascesse un’opposizione capace di appuntarsi sugli errori
veri dell’attuale governo – che sono talora anche gravi – anziché sullo
stesso risultato elettorale, e sul meccanismo che lo ha reso possibile.
Risulterebbe nell’interesse di tutti gli italiani se si attaccasse la
maggioranza politico-parlamentare per gli errori che essa commette e si
cessasse di denunciarla come una minaccia ai “valori” e alla “cultura”.
E soprattutto se si cessasse di sventolare queste belle bandiere
dall’alto delle posizioni più privilegiate e meglio protette, cioè dalle
istituzioni dello Stato, e soprattutto del para-Stato, conquistate
grazie alla lunga opera di occupazione togliattiana di tutte le
posizioni non elettive di potere e di influenza politico-culturale.
The others
Gli “intellettuali” che, dal ridicolo e mortificante mondo di
frustrazione e di fantasmi della lower middle class, riescono ad uscire,
e guardano ovviamente altrove, a punti di riferimento che gli consentano
di tenersi al passo con l’evoluzione della tecnica, della società, delle
occasioni professionali, sono naturalmente visti come degli alieni, o
meglio come gli “altri” del film con Nicole Kidman che, per appartenere
al mondo reale, finivano per apparire quasi mostruosi. Inevitabilmente,
per non condividere i tic e le frustrazioni di un ceto sociale che si
autoconsola della propria marginalità e dei proprio fallimento,
avvolgendosi abusivamente nella più gloriosa bandiera della sinistra,
essi finiscono per essere considerati “di destra”. Un’etichetta
durissima e per molti di essi tanto più inaccettabile in quanto accusa
scagliata da una “sinistra” che ha scavalcato in attaccamento al passato
ogni possibile forza conservatrice. Unica consolazione è il fatto che
questa etichetta di “destra” è in realtà attribuita arbitrariamente a
quasi tutti i media e gli opinion leaders in grado di uscire dal
conformismo dell’indignazione e della “insurrezione” permanente, e
naturalmente al pubblico cui essi si rivolgono, cioè al pubblico non
inquadrato nelle legioni di destra e di sinistra, il pubblico che,
esercitando la propria libertà di giudizio, esprime il “voto
d’opinione”.
Si tratta perciò di un ambiente e di un pubblico di livello
intellettuale ovviamente elevato, ma soprattutto di un ambiente e di un
pubblico che può fregiarsi della definizione di “laico”, in quanto
rifiuta tutte le opinioni preconfezionate, le invettive e le scomuniche
delle “sette” di destra come di sinistra, nonché il prêt-à-penser di
ogni industria, artigianato o bottega culturale. E dipende proprio da
questo rifiuto di ogni prèt-a-penser il fatto che non esista, come fatto
collettivo, una cultura diversa da quella della sinistra, qualcosa di
comparabile alla claque di “bravieri” che applaude agli slogan
preconfezionati, o risuscitati dalle guerre già combattute nel secolo
scorso, come “resistere-resistere-resistere” o addirittura la “linea del
Piave”. L’attribuzione di un’etichetta di destra a tutti coloro che non
sono disposti a consumare e riprodurre un qualunque prêt-à-penser è
tanto più irritante in quanto la cultura della destra, concepita come
“pensiero unico” cui aderire, ed incarnato da intellettuali cui si può
attribuire l’appellativo gramsciano di “organici” è ancora più datata e
superata di quella di sinistra.
E' quella che Massimo Fini ha definito destra "residuale" e che egli
giustamente caratterizza come "anti atlantista, anti americana,
fortemente nazionale e sociale, più giustizialista che garantista,
eretica, giacobina, decisamente più neo-fascista che conservatrice,
moderata e liberaleggiante". Non può meravigliare che dei battitori
liberi come sono i veri intellettuali rifiutano di farvisi imprigionare
solo per compiacere i bisogni di simmetria intellettuale delle quadrate
legioni del pensiero di sinistra. In realtà, quella che viene rifiutata
è l’idea stessa che l’intelligencija di una società – tutta
l’intelligencija, non solo quella marxista – debba piegarsi all’idea
gramsciana della “organizzazione della cultura” e all’organicità degli
intellettuali rispetto a questo o a quell’insieme di interessi
socio-economico organizzati e quindi rispetto a quella forza politica.
Senza per questo cadere nell’eccesso opposto, per cui taluni
intellettuali sono – come il generale De Gaulle – certi di aver ragione
solo quando sono in disaccordo con tutti gli altri, è normale che un
intellettuale creativo si preoccupi quando si trova d’accordo con Oriana
Fallaci o Eugenio Scalari e coi luoghi comuni di cui si nutre tutta la
bassa intelligencija.
L’intelligencija dell’anticomunismo
Non che non sia concepibile una contrapposizione organizzata alla
prevalenza culturale della sinistra. Ed è, infatti, esistito in passato
un tentativo analogo a quello che viene oggi richiesto da coloro che
accusano il centro-destra di non avere spessore politico-culturale, e di
non annoverare tra i propri ispiratori che pochi intellettuali di
prestigio. Questa contrapposizione ha preso – tra il 1950 e il 1975 – la
forma del Congresso per la Libertà della cultura. Ineccepibile dal punto
di vista morale e intellettuale, questa organizzazione, che in Italia
ebbe i suoi punti di riferimento in Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte
e nella rivista Tempo Presente, più qualche connessione nel gruppo
facente capo a Il mondo di Mario Pannunzio, finiva però col mostrare
l’origine intellettuale di molti dei suoi esponenti che venivano
dall’esperienza del comunismo, che mantenevano la tipica struttura
mentale dello “spretato”, e in definitiva dimostrarono di continuare ad
adottare in pieno il criterio gramsciano del rapporto organico tra
cultura e formazioni politiche. Del resto, è allo stesso Silone che si
fa risalire la convinzione che lo “scontro finale” sarebbe stato tra
comunisti ed ex comunisti. E che molti di costoro non fossero comunisti
pentiti, bensì comunisti idealisti, che si sentivano “traditi” dal
cinico realismo di Stalin e dal suo servo e complice Palmiro Togliatti
nella loro aspirazione ad un comunismo che instaurasse “il regno della
libertà”, è dimostrato dall’uso dell’aggettivo “finale”. Un aggettivo
che tradisce una visione escatologica della storia, ed una visione
messianica del ruolo dell’intellettuale al di là del semplice impegno
morale alla perpetua ricerca della verità e della libertà.
Nella cultura liberal-democratica non è possibile nessuno “scontro
finale”. Non c’è nessun punto d’arrivo. La cultura è ricerca
ininterrotta e senza fine. L’idea di un ordine finale da raggiungere è
tipica del fideismo comunista e del sostanziale antistoricismo di Karl
Marx che – ipotizzando tutto l’agire umano come mosso dal conflitto di
classe, e contemporaneamente predicando il progetto di una società senza
classi – aveva di fatto già ipotizzato la “fine della storia”.
Naturalmente, non solo ex comunisti, ma anche intellettuali
liberal-democratici, o semplicemente dalla mentalità libera e talora
provocatoria, furono coinvolti nel Congresso per la Libertà della
cultura. Quell’esperienza tentò di replicare per gli intellettuali
anticomunisti e antifascisti – specie per quelli che vivevano al di là
della cortina di ferro e in Spagna, Portogallo e altri Paesi a regime
totalitari – la struttura di coordinamento e di aiuto reciproco che
funzionava così egregiamente tra gli intellettuali comunisti o “compagni
di strada” in Europa occidentale e persino in America. Ed è proprio per
la sostanziale differenza di approccio tra la componente ex comunista e
quella liberal-democratica – e la loro diversa disponibilità ad
accettare compromessi – che, dopo venticinque anni di straordinaria
attività il Congresso entrò in crisi e si dissolse, proprio sul problema
dei rapporti con la potenza leader dell’Occidente nella contrapposizione
tra Est e Ovest.
L’esperienza del Congresso per la Libertà della Cultura è insomma tipica
dello scontro tra comunisti ed ex comunisti dell’epoca del manicheismo
Est-Ovest e fu solo per quel clima e per la prevalenza anche nella
cultura occidentale e persino americana di una visione gramsciana del
rapporto tra intellettuali e forze politiche, che esso poté coinvolgere
figure intellettuali che quella visione non condividevano. Oggi la
contrapposizione Est-Ovest è finita. Non avrebbe perciò senso, né
nessuna possibilità di successo, riproporre oggi l’idea di una simile
organizzazione per quell’ampia fascia di uomini di cultura il cui
impegno politico grave nell’area del voto d’opinione. Non a caso tutti
quelli che, con libri o inchieste, sono andati in questi mesi alla
ricerca della “cultura della destra” vengono essi stessi dall’estrema
destra, sono cioè portatori di un’altra visione “organicistica” della
cultura, che era stata sconfitta già cinquant’anni prima del crollo del
comunismo. In quest’area culturale sopravvive una visione organicistica
come nella “bassa cultura” di sinistra che non riesce ad uscire dallo
schema manicheo neanche dopo il fallimento storico del comunismo. E solo
in virtù della propria miopia questo strato sociale può giungere ad
ostentare il disprezzo per il centro dello schieramento politico perché
non ha una sua struttura culturale organica. E per la stessa incapacità
di capire come funziona una grande società democratica dell’Occidente,
essa considera poco meno che traditori quei dirigenti politici della
sinistra che hanno appreso la lezione storica del fallimento del
comunismo, e che in questi anni hanno cercato un dialogo con tutte le
forze politiche e con tutti gli intellettuali non organici della società
italiana.
Il settarismo di una parte della sinistra, come di coloro che vorrebbero
oggi ripetere l’esperienza del Congresso per la Libertà della cultura,
crea così una situazione di assoluto equivoco. Ogni tentativo di
rispondere all’efficacia del gioco di squadra dell’intelligencija di
sinistra con un’organizzazione di un’analoga “squadra” di centro-destra
finirebbe per spingere nello stesso letto degli strange bedfellows
inconciliabili, non solo per visione politica – come gli intellettuali
“di destra” e quelli semplicemente liberi – ma di fatto toglierebbe ogni
ruolo politico e persino distruggerebbe ogni capacità creativa e ogni
utilità di questo tipo di intellettuali. Se insomma, fuori dalle
parrocchie ideologiche, non ci sono intellettuali organici, è per lo
stesso motivo per cui l’elettorato d’opinione non riempie le piazze. E'
il motivo per cui la marcia dei quarantamila è rimasta nella storia
d’Italia, a segnare una svolta, come nessuna delle adunate, più o meno
“oceaniche” delle estreme potrà mai rimanere.
21 giugno 2002
(da
Ideazione 3-2002, maggio-giugno 2002)
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