Ceti “colti” e lotta politica in Italia
di Giuseppe Sacco

Con questa magistrale pagina giornalistica, Christopher Emsden, ha commentato, per i lettori dell’International Herald Tribune1 l’assassinio dell’intellettuale che aveva osato sfidare il clima della contrapposizione totale e – senza cambiare i propri convincimenti politici di fondo – aveva accettato di collaborare col nuovo governo del suo Paese, dopo il cambiamento avvenuto in virtù del sistema elettorale maggioritario ormai in vigore in Italia. Ma il giornalista americano ha contemporaneamente dato una definizione dell’intellettuale assai diversa da quella corrente, ed ha toccato le molte questioni che si sono venute ponendo relativamente al ruolo dei “ceti colti” nel quadro della vita politica italiana, su come sia mutato il rapporto tra intellettuali e politica dopo le profonde trasformazioni avvenute nello scorso decennio: il crollo del comunismo, la fine dei governi a guida democristiana, ed il passaggio dal sistema proporzionale a qualcosa che rassomiglia molto al maggioritario in vigore nei Paesi occidentali dalla grande tradizione democratica, in primo luogo in Inghilterra. Si tratta di interrogativi di non poco momento. Perché un così grande numero di coloro che si autodefiniscono “intellettuali” si rifiutano di accettare il cambio di maggioranza liberamente deciso dagli Italiani?

Non basta dunque la vittoria ottenuta alle urne il 13 maggio, con lo stesso sistema elettorale che aveva portato al potere Romani Prodi, per dare legittimità ad un governo di cui si mette sprezzantemente in luce sempre e soltanto la componente descamisada delle valli prealpine? O invece, anche in politica vale – almeno per l’Italia – il principio sostenuto dall’aristocrazia del danaro, che i voti non si contano, ma si pesano? E che la sola fiducia del Parlamento non basta per governare, ma occorre anche – e soprattutto – la legittimazione data dai “chierici” della cultura? E, d’altro canto, cosa può contrapporre quella parte che ha portato al potere l’attuale maggioranza all’evidente mobilitazione contro di essa di una vasta area di intelligencija, che ha finito addirittura per contestare i suoi propri esponenti politici, perché considerati troppo concilianti, troppo disposti a lasciare che il verdetto delle urne trovi riscontro in un governo accettato da tutti? E perché le simpatie politiche degli uomini di cultura e degli esponenti delle professioni liberali che hanno votato per il centro-destra, o lo sostengono apertamente, non pesano, nel dibattito politico, quanto quelle per la sinistra? Perché le loro simpatie politiche rimangono un fatto individuale, ed essi non riescono (per usare un orrendo, ma diffuso, modo di dire) a “fare branco”?

Il pendolo delle grandi democrazie

Per trovare una risposta a questi interrogativi è necessario risalire alle caratteristiche e al funzionamento del meccanismo elettorale bipolare e maggioritario che tende faticosamente ad affermarsi nel sistema politico italiano. Il modello è quello del sistema che, nella grande tradizione democratica dell’Inghilterra, determina lo spostamento del “pendolo” del potere, alternativamente dai conservatori ai laburisti, e viceversa. In questo modello, solo alcuni ceti sociali si organizzano attorno ai propri interessi. È il caso, in Inghilterra, di lavoratori dipendenti che – attraverso i loro sindacati – hanno a lungo, sino all’avvento di Tony Blair, costituito la spina dorsale del partito laburista, così come la Confederation of British Industry è stata – e rimane – (assieme alla Corona e alla Finanza) un punto di riferimento essenziale del Partito conservatore. A queste forze, che rappresentano i due poli della dialettica politico-sociale, tocca il ruolo di farsi elaboratrici e portatrici delle diverse proposte politiche tra le quali l’elettorato è chiamato a scegliere.

Al “voto d’opinione” – che è poi quello dei ceti sociali “colti”, informati e dotati di capacità critica – tocca invece un altro ruolo assolutamente determinante. Il “voto d’opinione”, lasciandosi alternativamente convincere da una delle due estreme, sceglie chi debba essere l’inquilino di Downing Street, e quindi decide l’alternanza di politiche che di volta in volta danno la priorità all’accumulazione oppure alla distribuzione delle risorse. Parafrasando un proverbio, il funzionamento di tale sistema potrebbe, perciò, essere riassunto dicendo che la destra e la sinistra propongono, e il centro dispone. Mentre il voto delle classi lavoratrici e popolari è stabilmente di sinistra e quello delle classi imprenditrici e più ricche è stabilmente di destra, è il voto d’opinione – che sociologicamente è politicamente non estremista – coincide in gran parte con le classi medie impiegatizie e professionali – che, spostandosi alternativamente verso la proposta politica che proviene da ciascuna delle due estreme, determina di volta in volta le oscillazioni del pendolo del potere. Anche senza avere partiti propri, anzi proprio perché non ha struttura di inquadramento permanente, il voto d’opinione esercita insomma un potere assolutamente decisivo, appoggiando una linea più conservatrice o più progressista a seconda sia delle situazioni obiettive sia delle capacità dei leaders dei due lati.

Ciò chiarisce il diverso ruolo degli intellettuali organici e non-organici. Mentre gli intellettuali che si identificano stabilmente con la destra o con la sinistra debbono svolgere un’intensa attività di elaborazione e proposta politica, dando contenuti, carica e vivacità alla contrapposizione politica, agli intellettuali non organici, che si collocano nell’area del “voto d’opinione” tocca un ruolo che richiede più capacità critica che spirito propositivo, maggiore freddezza e indipendenza di giudizio. Tocca il ruolo di informare onestamente l’opinione pubblica, di orientare il “voto fluttuante” nella sua libera critica del governo e dell’opposizione, e nella decisiva oscillazione elettorale. Le due estreme hanno, perciò, a fini di elaborazione delle loro proposte, bisogno di un nucleo di intellettuali organici – per i laburisti sono noti anche in Italia quelli della Fabian Society – mentre la società nel suo insieme ha bisogno di intellettuali critici, che facciano da opinion leaders, di intellettuali che esercitando di volta in volta il proprio giudizio, senza imbarazzarsi di altra fedeltà che non sia quella con la propria coscienza e le proprie convinzioni di fondo, cioè pensando ed esprimendosi in piena libertà, consentano alla società nel suo complesso di indirizzare di volta in volta il proprio percorso. È la presenza nella società di una forte rappresentanza di questo tipo di intellettuali che garantisce la libertà e il pluralismo delle opinioni, e non la lottizzazione delle istituzioni culturali da intellettuali organici dei due bordi. Ed è per questo che il successo professionale degli intellettuali che si collocano nell’area politica corrispondente al “voto di opinione”, dovrà – pena un collasso del sistema dell’alternanza – essere indipendente dalla loro“fedeltà” ad uno dei due campi, e che tale indipendenza dovrà essere garantita dai meccanismi classici della società liberal-democratica, come l’inamovibilità dei professori universitari.

Il sistema maggioritario tipico dei grandi Paesi dell’Occidente a tradizione democratica stenta però a mettere radici in Italia, nonostante esso sia stato introdotto nella legge elettorale. Ed infatti molte delle vicende che hanno fornito il pretesto per accusare l’attuale maggioranza di scarsa abitudine alla prassi democratica sono, in realtà, legate alla difficoltà del passaggio dalla vecchia logica tipica del sistema proporzionale a quella del maggioritario. Non solo le difficoltà nell’elezione dei componenti del Csm e della Corte costituzionale, ma anche quelle incontrate nella nomina del Cda della Rai discendono in larga misura dal fatto che i meccanismi previsti per queste decisioni sono pensati in funzione di Camere in cui nulla si poteva deliberare se non attraverso compromessi e lottizzazioni tra molte forze politiche, nessuna delle quali era normalmente in grado di avere una maggioranza. Il contesto formato dalla prassi e dalle istituzioni è insomma rimasto quello antico, e stride con i risultati di elezioni condotte col nuovo sistema. Ed in questo contesto ancora “vecchia Repubblica” rientra la mentalità di coloro che hanno ottenuto una reputazione di “intellettuali” grazie alla pratica della lottizzazione.

Il maggioritario culturale

Il disagio evidente suscitato dal distorto dibattito politico dell’Italia odierna, e l’eccitazione di taluni media stranieri, che guardano all’Italia e alle sue imprese come terra di conquista, discendono direttamente da una visione deformata della questione dei rapporti tra intellettuali e politica. Non si vuole infatti prendere in considerazione il fatto che l’esistenza di una maggioranza forte, e il sistema bipolare che la rende possibile, sono solo un modo per assicurare la governabilità del Paese, ma non implicano un bipolarismo culturale. Non si riesce a capire che lo stesso bipolarismo politico verrebbe meno, se si giungesse ad una spaccatura del paese in due – e soltanto due – campi d’opinione tra loro contrapposti in tutto, e del tutto omogenei al loro interno. Anzi, come abbiamo visto, ciò che fa dei paesi che adottano il sistema maggioritario le grandi democrazie a tradizione democratica è proprio il fatto che, al di fuori delle due minoranze ideologicamente molto caratterizzate, esiste un’ampia e determinante area non etichettabile ideologicamente.

Del resto il passaggio da un sistema elettorale proporzionale a quello maggioritario, non è significato la sparizione delle vecchie tradizioni e familles politiques. L’esperienza costituzionale francese dell’ultimo cinquantennio ne è un eccellente esempio. Né le molteplici mutazioni, di sistema elettorale durante la Quarta Repubblica, né il passaggio alla Repubblica presidenziale, né le successive esperienze della lunga “monarchia elettiva” mitterandiana, e della diarchia della cohabitation, sono riuscite a scalfire il sistema di inquadramento permanente dell’elettorato in “fedeltà” addirittura ereditarie, mentre le cariche dello Stato passavano alternativamente dalla destra alla sinistra e viceversa. Da parte di alcuni gruppetti micro-intellettuali italiani, il sistema maggioritario viene invece visto proprio così, come uno scontro tra “pensieri unici” contrapposti, tra i quali ognuno sarebbe obbligato – rinunciando ad ogni capacità e diritto di critica – a scegliere per un’adesione totale. La dialettica politica sarebbe ridotta alla contrapposizione perfetta di due modi di concepire la società e addirittura la vita: uno dominato dal fine di (volgarmente) migliorare le condizioni economiche, l’altro di preservare i canoni etici, ed addirittura estetici, che costituiscono i (presunti) “quarti” di nobiltà dei ceti intellettuali. Ne risulterebbe una sorta di consacrazione della guerra civile permanente.

Ciò per fortuna non accade se non negli slogan di qualche becero conduttore di talk show, nei deliri senili di qualche giudice in pensione, nell’esibizionismo di qualche regista, e nell’agitazione al limite del ballo di San Vito, di qualche professore. Costoro si spacciano così per difensori di una “europeità” dell’Italia che dicono minacciata. Ma provincialmente ignorano e faziosamente trascurano il fatto che, proprio nelle grandi democrazie a sistema maggioritario, una tale spaccatura, una tale perdita di capacità di giudizio autonomo da parte dell’opinione pubblica non direttamente coinvolta nella (e non dipendente economicamente dalla) politica sarebbe considerata una vera tragedia. E in un paese come il nostro – con tradizione democratica recente o distorta dalle contrapposizioni ideologiche dell’ultimo cinquantennio – significherebbe ricadere in un clima di sterile scontro frontale tanto più gridato e venato di odio personale, in quanto tale scontro non trova più le giustificazioni tipiche degli anni in cui un’invisibile cortina di ferro attraversava il paese, e in cui i leaders d’opinione non erano interni alla società italiana, bensì si trovavano a Mosca e all’Avana da un lato, e a Washington e in Vaticano dall’altro. Significherebbe perdere tutto il beneficio delle recenti conquiste del nostro paese. Perché la fine della frammentazione mondiale ha significato per l’Italia che un’enorme fascia mediana dell’opinione pubblica è stata rimessa in libertà, e restituita al suo ruolo decisionale, sino ad allora brutalmente espropriato: un ruolo assai impegnativo che richiede dagli intellettuali un equilibrio, un’autonomia intellettuale e critica, ed una capacità di leadership cui essi non erano abituati, che ad essi non era sino a ieri richiesta, e che molti non ce la fanno ad improvvisare.

A disagio con la comunità scientifica

Come quei preti che non capivano il latino, quella dei “chierici” è, in Italia, una categoria tanto più autoreferenziale e arrogante quanto più tagliata fuori dal sapere contemporaneo, e tanto più dedita a fare politica quanto più distaccata dalla realtà socio-economica del ventunesimo secolo. In ciò, il nostro Paese sembra imitare lo stantìo modello francese, dove gli intellettuali sono una casta che vive di frasi fatte e atteggiamenti fasulli, strettamente ereditaria e fortemente sovvenzionata dallo Stato, una casta non a caso autodefinitasi “mandarinale”. Assai distante è invece il modello vincente dei Paesi anglosassoni, dove l’élite intellettuale ha forte carattere scientifico-tecnico, lascia ampi margini al merito, oltre che all’origine sociale, e misura il proprio contributo alla vita della collettività più in termini di brevetti e premi Nobel che non attraverso l’attività di firmare manifesti più o meno “indignati”.

Nelle società, come quella italiana, poco dinamiche dal punto di vista tecnologico (a differenza di quelle anglosassoni), ma poco rigida (a differenza di quella francese) nella divisione stagna tra le classi sociali, non si incontrano né i superbi e arroganti “mandarini” tratteggiati da Simone de Beauvoir né gli scienziati sempre in concorrenza per il successo, che popolano Silicon Valley. Esiste invece solo un “generone” intellettuale, con cui tende ad identificarsi una quota assai rilevante della forza-lavoro che svolge attività di tipo terziario. Ed una parte cospicua dell’opinione pubblica è composta da un ampio strato impiegatizio che però, anche se svolge un lavoro frustrante e mal pagato, cerca di farsi passare – agli occhi altrui e soprattutto ai propri – come fondamentalmente diverso e “superiore” rispetto a coloro che svolgono attività legate alla produzione.

Non a caso, è costante la lamentazione da parte dei piccoli “intellettuali” di guadagnare meno dell’idraulico, mentre il piccolo imprenditore viene sprezzantemente chiamato “industrialotto”, bottegaio o “scarparo”. Questa pretesa “superiorità”, insomma, non è economica, bensì percepita, e soprattutto esibita, come sociale e addirittura morale. La mentalità di questa lower middle class porta spesso a comportamenti economicamente irrazionali, come quelli visibili – ad esempio – nella situazione che si registrava a Prato, negli anni Ottanta. In una piccola città in cui c’erano circa ottocento diplomati disoccupati, si manifestava un tale fabbisogno di operai che, a chi accettava di lavorare un sabato alla cardatura degli stracci si offriva di guadagnare un milione – di allora – in un solo giorno. Tra l’offerta e la domanda di lavoro si inseriva infatti un pregiudizio sociale e “culturale” che faceva considerare degradante il lavoro in fabbrica agli esponenti del ceto mini-intellettuale. Si inserivano cioè le frustrazioni di una generazione che credeva, per aver approfittato della scolarità di massa, di aver cambiato classe sociale rispetto ai propri genitori, e che avrebbe vissuto come un fallimento peggiore della stessa disoccupazione la necessità di accettare un lavoro dello stesso tipo di quello grazie al quale i padri avevano potuto, negli anni precedenti, mantenerla agli studi.

Inutile dire che a questo particolare strato delle cosiddette classi “colte” appartiene anche la grandissima maggioranza degli insegnanti necessari alla prolungata scolarizzazione di massa tipica delle società terziarizzate. Anzi, basta guardare ai leaders della triste manifestazione dei professori di Firenze, per vedere come l’insegnamento sia stato il rifugio di tutti coloro che, specie dopo il ’68, non sono riusciti ad inserirsi nel sistema produttivo, e che traducono il loro fallimento personale e politico in una vera e propria aggressione intellettuale ai loro sfortunati studenti, cui essi tentano di trasmettere una minestra riscaldata degli slogan pseudo-rivoluzionari della propria generazione. Il disperato orgoglio con cui questa categoria sociale enfatizza il carattere “non-manuale” della propria attività è tanto più paradossale non solo perché tutta la sua retorica è tratta dagli slogan storici del movimento operaio, ma anche perché proprio con le categorie operaie “in tuta blu” essa ha oggi in comune il difficile rapporto con il progresso tecnologico, che determina ormai le trasformazioni sociali, e che li emargina sempre di più.

Una finta sinistra

Non è irrazionale che questa categoria sociale, pur nella sua sciocca presunzione e nell’atteggiamento di disprezzo verso chi fa un lavoro manuale, percepisca se stessa come politicamente a sinistra. La sinistra organizzata è, per una nobile tradizione, quella in cui si riconoscono le posizioni sociali più fragili. Non a caso le sue origini rimontano alle organizzazioni degli operai sfruttati a sangue all’epoca della rivoluzione industriale. Con il progresso tecnico, sempre più accelerato degli ultimi anni, essa è tuttavia giunta talora ad atteggiamenti quasi luddisti, volti a difendere posizioni fragilizzate dalla naturale evoluzione dei tempi. Basti un esempio. Alla metà del Ventesimo secolo, i sindacati inglesi imponevano ancora all’amministrazione ferroviaria di tenere su ogni treno due tenderers, cioè due addetti al tender, il vagone del carbone agganciato immediatamente dietro la locomotiva. E ciò quando la locomotiva non andava più a carbone da decenni, e il tender era scomparso. Oggi, con logica analoga, ai movimenti politici incapaci di interpretare in maniera moderna il glorioso passato delle lotte contro lo sfruttamento dei lavoratori, finiscono per fare riferimento quelle categorie piccolo-impiegatizie, dotate di una infarinatura di cultura, che percepiscono bene come il loro status sociale stia rapidamente scendendo, anzi stia letteralmente precipitando, e che non hanno, per ragioni intellettuali, di formazione o di età, la capacità di autoriciclarsi in qualcosa di più professionale o coincidente con le richieste del mercato, cioè in una attività intellettuale anche di tipo minimamente creativo.

L’ambiguo rapporto tra vecchi lavoratori dell’industria e lower middle class appariva evidente nella manifestazione dei professori universitari di Firenze. Era infatti chiaro come essi avvertissero di appartenere a un ceto sociale ammuffito e spinto da parte dall’evoluzione sociale. Ma era anche chiara la loro incapacità di reagire con lo strumento del loro lavoro – la penna – anziché attraverso un corteo. Ci insegnano le storie patrie che la penna fu l’arma con cui un uomo solo, Silvio Pellico, dal fondo di una prigione inflisse all’Impero “più danno di una battaglia perduta”. Ma cosa sarebbe stato Silvio Pellico in un corteo? Il corteo è lo strumento di coloro che individualmente non riescono ad incidere, che hanno solo il numero, la massa anonima per ottenere un briciolo di “potenza”. E i professori di Firenze, rinunciando alle armi a loro disposizione per conquistarsi una più creativa presenza sociale e intellettuale, hanno scelto la via di una manifestazione che non ha potuto che umiliarli ancora di più, soprattutto ai loro stessi occhi, perché li ha fatti assomigliare ai lavoratori “del braccio”, da cui essi tanto accanitamente tendono a distinguersi. Il disprezzo degli “intellettuali” per coloro che svolgono un lavoro produttivo è un fenomeno sociale e politico ben noto, che negli anni Venti ha portato i piccoli impiegati a sostenere il fascismo contro l’emergente classe operaia, che minacciava di erodere il loro esiguo margine di vantaggio sociale. Ai professori di oggi – un tempo “baroni della cattedra”, ma che non a caso da qualche anno vengono chiamati semplicemente “docenti”, titolo un tempo usato solo per i maestri elementari – si pone però un problema aggiuntivo, quello della perdita di ogni potere sociale. Alla fine dell’Ottocento, persino il maestro era nel piccolo villaggio un leader d’opinione. In Francia, era il pilastro dell’ideologia repubblicana, dopo che si erano alternate due rivoluzioni, tre repubbliche e due imperi. Oggi, questo ruolo è strappato persino ai professori universitari da parte di altri – e assai più ricchi e scintillanti – gruppi sociali.

Il popolo delle partite Iva

Un caso emblematico è quello accaduto qualche anno fa a proposito dell’Osservatorio vesuviano, una struttura di ricerca sul vulcano e soprattutto di controllo della sua attività, a fini di sicurezza della popolazione. La carica di direttore di questa istituzione era sempre spettata a un eminente vulcanologo dell’università di Napoli, che si vedeva così conferito anche un potere “strategico” importante come quello di dare l’ordine di evacuazione della popolazione. Ad uno degli ultimi rinnovi di questa carica, tuttavia, qualcuno propose di cambiare criterio e di dare questo ruolo ad un personaggio della televisione, Piero Angela. Inutile dire quali furono le parole usate di fronte a questa proposta. Tra i professori naturalmente prevalse la parola “indignazione”, e gli ambienti universitari napoletani “insorsero”. A nulla valse l’ovvia obiezione che se l’allarme fosse stato dato da Piero Angela – su suggerimento, come è ovvio, di un vulcanologo – il milione e passa di persone a rischio che abitano a bordo del cratere sarebbero effettivamente scappate, mentre non era sicuro che avrebbero creduto ad uno sconosciuto professore. Buon senso troppo terra terra! In realtà, troppo forte era la frustrazione della categoria universitaria per la perdita del proprio ruolo di leader d’opinione a vantaggio dei cosiddetti “mezzobusti” televisivi.

Il difficile rapporto tra il “ceto intellettuale” e la cultura scientifico-tecnica è un fatto generale, ed è molto ben mostrato dall’impatto che hanno avuto l’introduzione del computer (negli anni Ottanta) e il boom della rete (negli anni Novanta). Come strumenti di lavoro, il computer e la rete determinano infatti un notevole aumento della produttività di alcuni gruppi sociali, mentre possono rappresentare addirittura una minaccia per l’occupazione della lower middle class impiegatizia, ed hanno seriamente contribuito a farne uno strato sociale che in un mondo dominato dal progresso tecnico appare sempre sul punto di essere spazzato via. A tutto ciò si aggiunge l’impatto della standardizzazione e la diffusione della cultura gestionale e del rischio. Questo altro aspetto della società scientifico-tecnica contemporanea, mentre attribuisce a una parte delle classi professionali la possibilità di vendere in maniera autonoma i frutti del proprio lavoro, emargina totalmente le classi impiegatizie abituate al tran-tran e al rifiuto di ogni responsabilità.

Non può, quindi, sorprendere che queste ultime guardino ai sindacati e ai partiti di tradizione operaia come strumento di rappresentanza politica, mentre gli strati professionali che possiamo chiamare upper middle class, non si riconoscono in tale rappresentanza e chiedono, piuttosto, condizioni che favoriscano la loro capacità di spendersi individualmente. Più in generale, gli uni percepiscono il perseguimento del proprio interesse economico e sociale come un’azione collettiva, gli altri come un’azione individuale. È chiaro, insomma, che è ad un ceto intellettuale troppo ignorante dal punto di vista tecnico per inserirsi nella new economy e nella società dell’informazione, può parlare solo una forza politica che si spaccia per sinistra, ma è in realtà fortemente conservatrice dal punto di vista sociale. Cioè una “sinistra” che sinistra non è, anzi è il suo esatto contrario.

La forte presenza di questa lower middle class, pseudo-intellettuale nell’opinione “di sinistra” in Italia, non solo impedisce che venga svolta quell’azione di elaborazione e di proposta che, in un sistema bipolare, tocca – come abbiamo visto – agli intellettuali “organici”, ma finisce per avere effetti devastanti sulle stesse organizzazioni politiche dei lavoratori. La “fascia bassa” delle classi colte, per l’assenza di chiara coscienza della propria vera collocazione nella gerarchia dei rapporti di produzione, andrebbe considerata, in termini marxisti, come parte del sottoproletariato. Ed essendo, come quest’ultima amorfa massa, facile preda di ogni populismo e di ogni demagogia, essa ha dunque un rapporto assai difficile con la classe operaia, come lo ha con l’upper middle class. Ed inevitabilmente attribuisce alla politica non solo obiettivi, ma anche “modi” operativi molto differenti da quelli tradizionali del movimento operaio. Nell’esaminare le caratteristiche e il ruolo politico delle cosiddette “classi colte” bisogna perciò distinguere la lower middle class dall’upper middle class, che in Italia viene oggi detta “il popolo delle Partite Iva” e che lavora nelle cosiddette professioni liberali e nell’industria culturale, entrambe enormemente sviluppatesi negli ultimi anni.

Questa seconda categoria – in cui rientra quella minoranza di professori universitari che non si dedicano solo a risibili lotte per il potere accademico – si distingue dalla lower middle class anche per motivi non politici, e per il tipo di lavoro. Essa può infatti vantare una caratteristica “creativa” della propria attività, che non può essere invece riconosciuta alla prima categoria.
La “scintilla” che la contraddistingue può essere piccola o grande, talora assai visibile – come nel caso del giornalista – e talora anche minima, ma basta comunque a differenziarla dalla micro-intelligencija impiegatizia, dai semplici passacarte. Perché anche quando è di secondo livello, il lavoro creativo rimane differente, e presenta aspetti che lo fanno assomigliare a quello dell’artigiano, cioè ad un tipo di lavoratore che notoriamente trae grande gratificazione dalla propria attività. Ed un artigiano – sempre per restare nella terminologia marxista – non appartiene al proletariato, ma svolge una professione tipica delle forme che precedono la produzione capitalistica, e non è perciò coinvolto nella “reificazione dell’umano” e nella conseguente degradazione morale.

Produttori e ripetitori di idee

La linea di demarcazione tra due componenti della middle class coincide largamente con la distinzione tra consumatori e produttori di cultura. Questa distinzione implica una differenza concettualmente assai chiara. Ad esempio, per quel che riguarda la cultura cinematografica, i newyorkesi sono quasi esclusivamente consumatori, mentre i produttori si trovano a Los Angeles. Ciò – almeno a prima vista – significa che, in una società come quella americana in cui il cinema svolge un vero e proprio ruolo di costruzione del consenso, gran parte del pensiero dei consumatori è pesantemente condizionato dai produttori losangelegni di un prêt-à-penser accuratamente elaborato. Cioè che i primi dipendono dai secondi. New York da Los Angeles. La lower middle class pensa in pratica con la testa dell’upper middle class. Ma come si spiega allora che la massa della lower middle class può sviluppare un proprio autonomo atteggiamento politico-culturale-estetico, e che in Italia questo prenda l’assetto – a tutti visibile – di un rigetto di un’élite politica, che essa avverte come a sé estranea, e che invidia nel profondo al punto di odiarla? Come si spiega che queste frustrazioni vengano espresse, come ha scritto Emsden, "da celebrità che hanno ottenuto una reputazione culturale"?

Si spiega col fatto che, nella società dei consumi culturali di massa, anche i produttori dipendono, da un punto di vista di mercato, dai consumatori, specie in un’epoca in cui i maitres-à-penser non si esprimono più – come avveniva all’epoca di Omero – in versi da diffondere e tramandare a memoria, oppure – come è avvenuto dall’epoca di Martin Lutero sino alla Rivoluzione francese – in pamphlets passati di mano in mano, bensì attraverso costosissime produzioni cinematografiche. Tra il creatore e il consumatore di cultura si inseriscono perciò figure nuove, come colui che finanzia la produzione e coloro che curano la distributore e la promozione, ecc. Di fatto, insomma, il creativo è vincolato – in realtà più nei suoi atteggiamenti come persona pubblica, che nella sua opera – da gusti, tic e pregiudizi della massa dei consumatori. Il mercato culturale impone cioè alla parte bassa dei ceti colti le creazioni della parte alta, ma trasmette anche nel senso inverso potenti condizionamenti. Il meccanismo è, insomma, in tutti i campi, analogo a quello che vediamo nella moda, dove le scelte dei creativi vengono imposte ai consumatori anche contro ogni buon senso, ma in cui il malgusto dei consumatori, il loro bisogno di supplire all’assenza di personalità con la stravaganza nel vestire viene anche tenuto in grandissima considerazione dai creativi.

Significativo è ciò che avviene sul mercato del cinema. Qui, per i creativi che hanno difficoltà ad affermarsi, diventa essenziale l’imposizione dei loro prodotti al pubblico da parte di quella complessa macchina di diffusione del prêt-à-penser che è il sistema pubblicità-critici cinematografici-stampa politicamente impegnata. E diventa perciò utilissimo che il regista, o l’attore, si dichiarino – nella loro vita personale – politicamente allineati con le posizioni e gli interessi di questa complessa struttura, fatta di persone che – almeno in Italia – vivono di occupazioni para-pubbliche, e che sono state inserite nelle strutture culturali dello Stato e delle amministrazioni locali sulla base della loro fedeltà acritica all’unica forza politica che ha fatto sistematicamente quel “lavoro culturale” deliziosamente descritto da Luciano Bianciardi in un famoso romanzo.

Questo demi monde pseudo-colto finisce col dare una linea precisa a coloro che, privi di ogni talento, cercano non di meno il successo culturale. Non è un caso se le critiche a D’Alema, il solleticamento delle frustrazioni dei bassi livelli dei ceti colti, non siano venute da Roberto Benigni, che è riuscito a sfondare sul mercato mondiale, aggirando persino il formidabile muro del protezionismo americano. Non è un caso che essa sia invece venuta da Nanni Moretti, che l’Oscar non è riuscito neanche a sfiorarlo e il cui successo non trova nessuno spazio se non fuori da un preciso ambiente mini-intellettuale italiano, di cui peraltro i suoi film riproducono le frustrazioni e le problematiche. La lower middle class che “dice cose di sinistra”, le “classi colte” impiegatizie o comunque non professionali, non potrebbero neanche balbettare la metà dei loro luoghi comuni senza essere riforniti di slogan belli e pronti da parte di quei particolari gruppi sociali che gli inglesi chiamano, the chattering classes, “le classi chiacchierone”, che dominano il mercato culturale, e le grandi istituzioni della comunicazione. Il loro modello di riferimento, per quel che riguarda la leadership, è infatti quello del rapporto tra il pubblico dei villaggi vacanze e il cosiddetto “animatore culturale”, o – se si preferisce – quello del rapporto che intercorre tra il conduttore di un talk show televisivo e i cosiddetti bravieri: una sottocategoria – meglio pagata – del pubblico che presente durante le trasmissioni ha il compito di battere le mani quando si accende il pannello “applausi”. I bravieri sono l’élite di questa massa poco differenziata perché, ad un apposito segnale, non solo battono le mani, ma gridano anche “bravo! bravo!”, e per questo guadagnano di più.

L’industria del prêt-a-penser ha dunque, come ogni settore dell’economia, un’offerta e una domanda, alcuni produttori specializzati ed un mercato ben identificato come orientamento culturale, come livello economico e come collocazione sociale. Ciò si riflette sulla natura e la definizione del prodotto offerto che, naturalmente, non ha solo lo scopo di consentire di partecipare al suddetto chiasso della vita politica italiana, ma anche funzioni – ben più importanti economicamente – di svago e soprattutto di soddisfazione psicologica attraverso la promozione dell’auto-immagine. L’industria culturale, rispetto a questi ceti che costituiscono il suo naturale mercato, deve fornire anche gli strumenti per compensare psicologicamente il disagio creato dal fatto che l’impiegato, pur credendosi “superiore” guadagna meno dell’idraulico o del tassista. I media rivolti a questo pubblico (ad esempio il quotidiano Repubblica) si differenziano perciò dai media rivolti agli idraulici e ai tassisti (come la Gazzetta dello Sport) perché accanto alle pagine sportive offrono anche pagine culturali.

È facile capire la finalità di queste pagine, come dei prodotti culturali (film, libri) che da queste vengono promosse. Basta guardare alla sostanziale incomprensibilità e alla totale inconcludenza degli articoli pubblicati. È esperienza comune leggere un intero paginone centrale di Repubblica, senza veramente riuscire a capire di cosa si stia parlando, o arrivare all’ultima pagina dell’Espresso, con la dolorosa constatazione di aver capito ancora meno del mondo di quanto non si capisse quando si è affrontata la prima pagina. Eppure, i più frustrati dei lettori ricevono da ciò una sorta di promozione psicologica che si spiega solo con i parametri mentali di Woody Allen, che non a caso è uno dei loro idoli. Woody Allen diceva: «Io non accetterei mai di entrare in un club che prendesse come socio uno come me». I lettori di Repubblica, invece, si sentono promossi intellettualmente e socialmente per il fatto di leggere articoli così “colti” da essere incomprensibili. Seguendo lo stesso meccanismo psicologico, essi compreranno – come suggerito dal loro giornale – Il pendolo di Foucault di Umberto Eco. Non riusciranno mai ad andare oltre la terza pagina (anche saltando la lunga citazione iniziale in ebraico) ma lo esibiranno sul tavolinetto del loro salotto come uno status symbol. Utilizzeranno cioè questo libro tanto “fico” da essere addirittura illeggibile come uno strumento di promozione sociale.

La rottura dei ceti colti

La fondamentale differenza di collocazione socio-economica di questi “intellettuali” perdenti rispetto a quelli che riescono ad essere, in qualche modo, “vincenti”, non può che produrre un diverso atteggiamento psicologico e politico. Nel primo caso sarà frustrato e rancoroso e, nel secondo, ottimista (anche se talora solo dell’ottimismo della volontà) e collaborativo. E soprattutto porta ad una diversa collocazione politica, ad una diversa domanda di rappresentanza e ad un diverso tipo di critica nei confronti del sistema e del potere. La rottura tra “ceti colti” di successo e “ceti colti” ripiegati su se stessi, che si è consumata in Italia negli ultimi dieci-quindici anni sfugge completamente al “nuovo” teorico di importazione della sinistra, il professor Paul Ginsborg, che forse non a caso costituisce un esempio più unico che raro di “fuga di cervelli” da un sistema universitario assai avanzato – e che garantisce visibilità mondiale – come quello anglosassone ad uno semidisastrato e provinciale come il nostro. Ginsborg, in un suo articolo su Repubblica, accomuna infatti in un’unica, e da sempre ambigua, categoria – il“ceto medio” – figure professionali tra loro assai diverse: "insegnanti, professionisti, operatori sociali, donne da poco inserite nel mercato del lavoro, studenti, figure professionali legate alla new economy, tecnici, dirigenti del settore pubblico".

Nulla è meno marxista di questa ammucchiata, che non tiene conto della collocazione di queste ed altre simili figure professionali, nel sistema dei rapporti di produzione, e della fondamentale diversità dei due modi in cui si forma il loro reddito. I salariati, in cambio di danaro, offrono le ore della loro vita (sono cioè degli “alienati” nel senso più marxista del termine), e si scontrano di conseguenza con un limite invalicabile di quanto può essere ottenuto col loro lavoro, anche attraverso gli straordinari, cioè attraverso l’autosfruttamento. I professionisti – invece – possono guadagnare tanto di più quanto maggiore è la loro fantasia, creatività, capacità di innovare e di spendersi sul mercato. In ciò, essi hanno un significativo punto di contatto con la classe operaia vera e propria, che è quella da cui provengono quasi tutti i tanto disprezzati “industrialotti”. Perché l’operaio vero – nel sistema di piccole imprese collegate in una fittissima rete di subappalti che caratterizza l’economia italiana – può nutrire la speranza di mettersi in proprio. Egli assomiglia perciò, e guarda come modello-obiettivo, proprio al “popolo delle partite Iva”.

La rivolta delle “classi colte” della sinistra contro i loro leaders tradizionali, è stata una rivolta di una folla impiegatizia di frustrati e dei loro fornitori di luoghi comuni, contro il pragmatismo politico di ciò che resta o discende dallo storico “gruppo dirigente” del Partito comunista italiano. Ma è stato anche un fenomeno in cui la propaganda comunista, di anni e anni, si è rivoltata contro questo gruppo. La rivolta di Moretti e dei suoi infantili girotondisti – un episodio, come si è detto, in cui i bambini hanno mangiato i comunisti – non ha nulla a che fare col governo del Paese e i suoi problemi, come non ha nulla a che fare col dire o meno “qualcosa di sinistra”. L’approccio di Moretti nel porre il problema della sinistra è, infatti, quanto di meno marxista si possa immaginare. La responsabilità della sconfitta dei Ds e loro alleati nello scontro politico e elettorale del 2001 può difficilmente essere dei “capi”, perché – in quel tipo di analisi – i grandi conflitti storici superano le persone, e vedono protagoniste le masse, mobilitate dalla presa di coscienza dei loro interessi di classe. E tutta la deriva qualunquistica tendente a personalizzare i contrasti politici, che oggi si vede soprattutto nella demonizzazione di Berlusconi, è peraltro un vizio antico del mondo comunista. In definitiva, non è che un’operazione eguale – anche se capovolta – rispetto al culto della personalità. E poi, che razza di sinistra marxista era quella che – nel suo momento più bello – poté concepire l’idea che tutto dipendesse da un solo uomo politico, Aldo Moro, e che, in occasione niente di meno che di una svolta nei destini del Paese tanto grande da essere etichettata “compromesso storico”, il leader democristiano fosse addirittura da considerare “unico”.

La debolezza politica e ideologica dei politici che pretendono di essere “di sinistra” appare quindi antica. Ed essa è oggi tanto più allarmante in quanto essi, di fronte alla rivolta di questa lower middle class pseudo-intellettuale, hanno immediatamente abbandonato, la strategia tendente a conquistare attraverso la moderazione e la proposta politica la parte centrale dell’opinione pubblica alle proposte della sinistra, così come era riuscito a fare il più politico Prodi. Alle prime bordate di fischi essi si sono invece arresi all’idea di diventare una diversa sinistra, molto meno politica e molto più “intellettuale”, molto meno operaia e molto più vicina alle “classi chiacchierone”. E sono passati ad una strategia che tende ad annettersi il centro attraverso la personalizzazione dello scontro, la demagogia e – come è stato detto da parte non sospetta – addirittura l’odio. E francamente delude vedere che – nientemeno che sul Corriere della Sera – Paolo Mieli finisca per dare il proprio contributo a questo allontanamento dell’appena scoperta logica dell’alternanza, cioè dalla grande tradizione democratica occidentale, quando banalizza il fatto che l’Italia si vada radicalizzando. E sorprende che Mieli arrivi a scrivere che l’odio sarebbe connaturato al passato cattolico della stragrande maggioranza degli italiani. È invece evidente che la grande massa degli italiani, che ha votato Berlusconi perché apparentemente impolitico e addirittura anti-politico, associa il clima di odio e di calunnia proprio alle risse politiche di sette assai poco cattoliche. E che mai un intellettuale dovrebbe accettare con tanta leggerezza una radicalizzazione che significa nei fatti la restrizione dello spazio concesso alla libertà critica.

Un milione di tute blu

In questo quadro di degenerazione piccolo-borghese, e di tradimento dei chierici di sinistra del ruolo di elaborazione di proposte e strategie che ad essi toccherebbe, è forse possibile dire che uno degli aspetti positivi della manifestazione sindacale del 16 aprile, sta nel fatto che le classi lavoratrici tradizionali, i cosiddetti blue collars, hanno in quell’occasione ripreso sulla scena sociale e politica buona parte dello spazio occupato negli ultimi mesi dalla chiassosa lower middle class, che per avere molta invidia, ma non veri e propri interessi (come invece li ha la classe operaia) da contrapporre a quelli del “popolo delle Partite Iva”, può alimentare solo sterili polemiche. Il sindacato, infatti, proprio perché istituzionalmente difensore di interessi costituiti e assai ben identificabili, non ha bisogno di dar fiato a questi atteggiamenti. Il sindacato può certo duramente opporsi al programma e all’azione del governo, ma non ha interesse a creare un clima di odio come quello che ha portato all’uccisione di Marco Biagi e che in passato si è ritorto anche contro coraggiosi sindacalisti. Esso può indubbiamente essere criticato perché – in quanto espressione della parte “protetta”e anziana dei lavoratori a scapito dei precari e soprattutto dei giovani – è troppo conservatore. E giustamente Padoa Schioppa, sul Corriere della Sera, ha definito il proletariato contemporaneo come quella forza sociale che "appagata dalle proprie conquiste ha amministrato la rendita divenendo una forza di conservazione volta a impedire in tutti i modi che il mondo continuasse a cambiare". Resta però il fatto che i lavoratori – quelli veri – pur non essendo in grado di rispondere con una proposta politica complessiva alle esigenze di crescita della società italiana, hanno un interesse evidente a che essa non scivoli nello scontro civile e nel sangue. Essi sono cioè psicologicamente e politicamente al polo opposto rispetto alla lower middle class e ai suoi leaders parolai che hanno solo frustrazioni da sfogare, e che costituiscono quindi il più fertile terreno di cultura per l’esaltazione parapolitica e per il terrorismo culturale.

Gli interessi che i sindacati rappresentano non coincidono insomma con le "insensatezze" di qualche anziano professore2, con il livore contro il mondo intero di qualche conduttore televisivo e con le personali ambizioni di qualche dirigente della Rai, cui ha fatto riferimento esplicito Vittorio Agnoletto quando – al congresso di Rifondazione comunista – ha detto: "crediamo nel pluralismo dell’informazione, ma Zaccaria non può certo rappresentarlo". Anzi, è proprio sulla base di come si sono comportati in Rai gli Zaccaria e i Santoro che si può dare ragione a Sylos quando scrive che "sarebbe stato assurdo pensare che" la Signora Margaret Thatcher volesse "minare la libertà di informazione. Da noi non è affatto assurdo". La differenza tra questi “intellettuali” e le tute blu non potrebbe essere più chiara. Questi non hanno altra scelta che giocare il tutto per tutto, tentando di dare una spallata al sistema, prima che la maggioranza uscita dalle urne del 13 maggio, riesca a smussare almeno le punte più vistose delle strutture del “consenso organizzato” formatesi negli anni del centro-sinistra. Gli operai “protetti”, invece, hanno interesse solo a contrastare il programma della maggioranza, impedendo ogni riforma, e a tenere in vita tutto l’apparato tradizionale del welfare state, anche quando tale immobilismo cozza chiaramente contro il fatto che alcuni aspetti del welfare state di queste sono responsabili della crisi fiscale dello Stato, e che prolungarli senza innovazione significa mettere a rischio tutto un insieme di grandi conquiste sociali e civili, che le società europee considerano giustamente irrinunciabili.

Si può sperare che una maggiore presenza del sindacato anche in sede di elaborazione programmatica e culturale, e di una maggior rilevanza anche politica dei leaders da esso provenienti, faccia cambiare il tono di una propaganda politica che è ormai rivolta solo alle “classi chiacchierone” e ad un pubblico di classe medio-bassa, preso a tenaglia tra un atteggiamento di snobistica arroganza nei confronti della classe operaia, e la propria incapacità di imitare il “popolo delle Partite Iva”. Si può sperare che un altro approccio subentri a quello di un ceto micro-intellettuale, che ha sviluppato non tanto un atteggiamento di protezione delle conquiste – e talora dei privilegi – della classe lavoratrice, bensì un rifiuto totale di accettare che la società italiana progredisca lungo la via di una modernizzazione che inevitabilmente lo emargina, come accade a tutti i ceti sociali fuori passo con la realtà del mondo tecnico-produttivo. Tutta la società italiana, avrebbe da guadagnare se nel paese si manifestasse una vera opposizione politica, fondata sulle classi a danno delle quali rischia di ritorcersi la riforma dello Stato sociale, anziché su una lower middle class mossa non da interessi, ma solo dalla vanità e dall’invidia, le cui posizioni non possono che essere velleitarie e perdenti sul terreno politico, e che si rifugiano nella personalizzazione estrema, con una condanna che vuol essere etica, ed addirittura estetica, del ceto dirigente – per la verità, assai improvvisato – nato dal crollo, nei primi anni ’90, degli equilibri di potere internazionali, e di quelli interni ad essi collegati.

L’interesse collettivo del paese sarebbe – in altri termini – altamente servito se nascesse un’opposizione capace di appuntarsi sugli errori veri dell’attuale governo – che sono talora anche gravi – anziché sullo stesso risultato elettorale, e sul meccanismo che lo ha reso possibile. Risulterebbe nell’interesse di tutti gli italiani se si attaccasse la maggioranza politico-parlamentare per gli errori che essa commette e si cessasse di denunciarla come una minaccia ai “valori” e alla “cultura”. E soprattutto se si cessasse di sventolare queste belle bandiere dall’alto delle posizioni più privilegiate e meglio protette, cioè dalle istituzioni dello Stato, e soprattutto del para-Stato, conquistate grazie alla lunga opera di occupazione togliattiana di tutte le posizioni non elettive di potere e di influenza politico-culturale.

The others

Gli “intellettuali” che, dal ridicolo e mortificante mondo di frustrazione e di fantasmi della lower middle class, riescono ad uscire, e guardano ovviamente altrove, a punti di riferimento che gli consentano di tenersi al passo con l’evoluzione della tecnica, della società, delle occasioni professionali, sono naturalmente visti come degli alieni, o meglio come gli “altri” del film con Nicole Kidman che, per appartenere al mondo reale, finivano per apparire quasi mostruosi. Inevitabilmente, per non condividere i tic e le frustrazioni di un ceto sociale che si autoconsola della propria marginalità e dei proprio fallimento, avvolgendosi abusivamente nella più gloriosa bandiera della sinistra, essi finiscono per essere considerati “di destra”. Un’etichetta durissima e per molti di essi tanto più inaccettabile in quanto accusa scagliata da una “sinistra” che ha scavalcato in attaccamento al passato ogni possibile forza conservatrice. Unica consolazione è il fatto che questa etichetta di “destra” è in realtà attribuita arbitrariamente a quasi tutti i media e gli opinion leaders in grado di uscire dal conformismo dell’indignazione e della “insurrezione” permanente, e naturalmente al pubblico cui essi si rivolgono, cioè al pubblico non inquadrato nelle legioni di destra e di sinistra, il pubblico che, esercitando la propria libertà di giudizio, esprime il “voto d’opinione”.

Si tratta perciò di un ambiente e di un pubblico di livello intellettuale ovviamente elevato, ma soprattutto di un ambiente e di un pubblico che può fregiarsi della definizione di “laico”, in quanto rifiuta tutte le opinioni preconfezionate, le invettive e le scomuniche delle “sette” di destra come di sinistra, nonché il prêt-à-penser di ogni industria, artigianato o bottega culturale. E dipende proprio da questo rifiuto di ogni prèt-a-penser il fatto che non esista, come fatto collettivo, una cultura diversa da quella della sinistra, qualcosa di comparabile alla claque di “bravieri” che applaude agli slogan preconfezionati, o risuscitati dalle guerre già combattute nel secolo scorso, come “resistere-resistere-resistere” o addirittura la “linea del Piave”. L’attribuzione di un’etichetta di destra a tutti coloro che non sono disposti a consumare e riprodurre un qualunque prêt-à-penser è tanto più irritante in quanto la cultura della destra, concepita come “pensiero unico” cui aderire, ed incarnato da intellettuali cui si può attribuire l’appellativo gramsciano di “organici” è ancora più datata e superata di quella di sinistra.

E' quella che Massimo Fini ha definito destra "residuale" e che egli giustamente caratterizza come "anti atlantista, anti americana, fortemente nazionale e sociale, più giustizialista che garantista, eretica, giacobina, decisamente più neo-fascista che conservatrice, moderata e liberaleggiante". Non può meravigliare che dei battitori liberi come sono i veri intellettuali rifiutano di farvisi imprigionare solo per compiacere i bisogni di simmetria intellettuale delle quadrate legioni del pensiero di sinistra. In realtà, quella che viene rifiutata è l’idea stessa che l’intelligencija di una società – tutta l’intelligencija, non solo quella marxista – debba piegarsi all’idea gramsciana della “organizzazione della cultura” e all’organicità degli intellettuali rispetto a questo o a quell’insieme di interessi socio-economico organizzati e quindi rispetto a quella forza politica. Senza per questo cadere nell’eccesso opposto, per cui taluni intellettuali sono – come il generale De Gaulle – certi di aver ragione solo quando sono in disaccordo con tutti gli altri, è normale che un intellettuale creativo si preoccupi quando si trova d’accordo con Oriana Fallaci o Eugenio Scalari e coi luoghi comuni di cui si nutre tutta la bassa intelligencija.

L’intelligencija dell’anticomunismo

Non che non sia concepibile una contrapposizione organizzata alla prevalenza culturale della sinistra. Ed è, infatti, esistito in passato un tentativo analogo a quello che viene oggi richiesto da coloro che accusano il centro-destra di non avere spessore politico-culturale, e di non annoverare tra i propri ispiratori che pochi intellettuali di prestigio. Questa contrapposizione ha preso – tra il 1950 e il 1975 – la forma del Congresso per la Libertà della cultura. Ineccepibile dal punto di vista morale e intellettuale, questa organizzazione, che in Italia ebbe i suoi punti di riferimento in Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte e nella rivista Tempo Presente, più qualche connessione nel gruppo facente capo a Il mondo di Mario Pannunzio, finiva però col mostrare l’origine intellettuale di molti dei suoi esponenti che venivano dall’esperienza del comunismo, che mantenevano la tipica struttura mentale dello “spretato”, e in definitiva dimostrarono di continuare ad adottare in pieno il criterio gramsciano del rapporto organico tra cultura e formazioni politiche. Del resto, è allo stesso Silone che si fa risalire la convinzione che lo “scontro finale” sarebbe stato tra comunisti ed ex comunisti. E che molti di costoro non fossero comunisti pentiti, bensì comunisti idealisti, che si sentivano “traditi” dal cinico realismo di Stalin e dal suo servo e complice Palmiro Togliatti nella loro aspirazione ad un comunismo che instaurasse “il regno della libertà”, è dimostrato dall’uso dell’aggettivo “finale”. Un aggettivo che tradisce una visione escatologica della storia, ed una visione messianica del ruolo dell’intellettuale al di là del semplice impegno morale alla perpetua ricerca della verità e della libertà.

Nella cultura liberal-democratica non è possibile nessuno “scontro finale”. Non c’è nessun punto d’arrivo. La cultura è ricerca ininterrotta e senza fine. L’idea di un ordine finale da raggiungere è tipica del fideismo comunista e del sostanziale antistoricismo di Karl Marx che – ipotizzando tutto l’agire umano come mosso dal conflitto di classe, e contemporaneamente predicando il progetto di una società senza classi – aveva di fatto già ipotizzato la “fine della storia”. Naturalmente, non solo ex comunisti, ma anche intellettuali liberal-democratici, o semplicemente dalla mentalità libera e talora provocatoria, furono coinvolti nel Congresso per la Libertà della cultura. Quell’esperienza tentò di replicare per gli intellettuali anticomunisti e antifascisti – specie per quelli che vivevano al di là della cortina di ferro e in Spagna, Portogallo e altri Paesi a regime totalitari – la struttura di coordinamento e di aiuto reciproco che funzionava così egregiamente tra gli intellettuali comunisti o “compagni di strada” in Europa occidentale e persino in America. Ed è proprio per la sostanziale differenza di approccio tra la componente ex comunista e quella liberal-democratica – e la loro diversa disponibilità ad accettare compromessi – che, dopo venticinque anni di straordinaria attività il Congresso entrò in crisi e si dissolse, proprio sul problema dei rapporti con la potenza leader dell’Occidente nella contrapposizione tra Est e Ovest.

L’esperienza del Congresso per la Libertà della Cultura è insomma tipica dello scontro tra comunisti ed ex comunisti dell’epoca del manicheismo Est-Ovest e fu solo per quel clima e per la prevalenza anche nella cultura occidentale e persino americana di una visione gramsciana del rapporto tra intellettuali e forze politiche, che esso poté coinvolgere figure intellettuali che quella visione non condividevano. Oggi la contrapposizione Est-Ovest è finita. Non avrebbe perciò senso, né nessuna possibilità di successo, riproporre oggi l’idea di una simile organizzazione per quell’ampia fascia di uomini di cultura il cui impegno politico grave nell’area del voto d’opinione. Non a caso tutti quelli che, con libri o inchieste, sono andati in questi mesi alla ricerca della “cultura della destra” vengono essi stessi dall’estrema destra, sono cioè portatori di un’altra visione “organicistica” della cultura, che era stata sconfitta già cinquant’anni prima del crollo del comunismo. In quest’area culturale sopravvive una visione organicistica come nella “bassa cultura” di sinistra che non riesce ad uscire dallo schema manicheo neanche dopo il fallimento storico del comunismo. E solo in virtù della propria miopia questo strato sociale può giungere ad ostentare il disprezzo per il centro dello schieramento politico perché non ha una sua struttura culturale organica. E per la stessa incapacità di capire come funziona una grande società democratica dell’Occidente, essa considera poco meno che traditori quei dirigenti politici della sinistra che hanno appreso la lezione storica del fallimento del comunismo, e che in questi anni hanno cercato un dialogo con tutte le forze politiche e con tutti gli intellettuali non organici della società italiana.

Il settarismo di una parte della sinistra, come di coloro che vorrebbero oggi ripetere l’esperienza del Congresso per la Libertà della cultura, crea così una situazione di assoluto equivoco. Ogni tentativo di rispondere all’efficacia del gioco di squadra dell’intelligencija di sinistra con un’organizzazione di un’analoga “squadra” di centro-destra finirebbe per spingere nello stesso letto degli strange bedfellows inconciliabili, non solo per visione politica – come gli intellettuali “di destra” e quelli semplicemente liberi – ma di fatto toglierebbe ogni ruolo politico e persino distruggerebbe ogni capacità creativa e ogni utilità di questo tipo di intellettuali. Se insomma, fuori dalle parrocchie ideologiche, non ci sono intellettuali organici, è per lo stesso motivo per cui l’elettorato d’opinione non riempie le piazze. E' il motivo per cui la marcia dei quarantamila è rimasta nella storia d’Italia, a segnare una svolta, come nessuna delle adunate, più o meno “oceaniche” delle estreme potrà mai rimanere.

21 giugno 2002

(da Ideazione 3-2002, maggio-giugno 2002)