L’egemonia della sinistra: il grande bluff
di Luciano Lanna
La domanda è semplice, quasi banale: qual è – quale dovrebbe essere – il
giusto rapporto tra intellettuali e politica, tra uomini di pensiero e
partiti, tra operatori culturali e coalizioni politiche? In altre
parole: come dovrebbe definirsi in termini virtuosi il legame tra la
elaborazione delle idee e la prassi della politica? Come concepire,
infine, questa relazione al di fuori della vecchia impostazione
organicista? Anche alla luce della più recente stagione politica, tale
rapporto sembra svilupparsi secondo criteri da un lato di pura
strumentalità e di subordinazione, dall’altro di vero e proprio
mimetismo o, nel migliore dei casi, sulla base di un totale
appiattimento delle ragioni della cultura a quelle della politica.
Guardiamo, brevemente, ai due fronti dello scenario politico italiano
dei nostri giorni, alle coalizioni del centro-destra e del
centro-sinistra. Nel primo caso il coinvolgimento di esponenti del ceto
intellettuale di un certo prestigio in ruoli e responsabilità di tipo
politico-istituzionale sembrerebbe sinora aver obbedito più a obiettivi
strumentali e di riposizionamento che a una necessaria strategia
politicamente definita: è forse servito più per cercare di contrastare
l’immagine polemica che vorrebbe disegnare un centro-destra italiano
abitato dal solo pragmatismo e da un presunto disinteresse per l’impegno
sul fronte delle idee che per impostare su nuove basi il rapporto
politica/idee.
Nel secondo caso, l’incapacità degli intellettuali ad imprimere un
qualche slancio progettuale e programmatico ha assunto aspetti a dir
poco drammatici, soprattutto tenendo conto della memoria storica della
sinistra italiana, nella quale il peso della componente intellettuale è
stato sempre, se non determinante dal punto di vista delle scelte, certo
decisivo dal punto di vista dell’elaborazione e dell’identità stessa di
tale area politica. Gli “intellettuali” della sinistra, per quanto
nobile ed autorevole fosse il loro curriculum, in questi ultimi anni si
sono comportati nell’arena politica non certo da intellettuali, ma
spesso da aspiranti politici tout court, vanificando così la loro antica
ambizione a proporsi come coscienza critica e molla dei processi
storici. In molti casi hanno addirittura puntato a rappresentare
l’ennesima azione di “supplenza” di una politica sempre più ritratta
sulle manovre di Palazzo e sulle “cose da fare”. Il recente fenomeno dei
“girotondini” ne costituisce l’esempio più plastico e sintomatico.
L’ossessione residuale dell’egemonia
Nel contesto di questo quadro generale, la pubblicistica e il
giornalismo culturale insistono pigramente nel trasporre le dinamiche
del bipolarismo politico in uno schematico e semplicistico “bipolarismo
della cultura”, prospettando mappe e tabelle determinate dall’ossessione
dell’egemonia. E il ritornello è quasi sempre lo stesso: una volta
abbozzato il presunto atlante della cultura non di sinistra, con tanto
di figurine e qualifiche personali, arriva la puntuale domanda
sull’incapacità del centro-destra di espugnare la roccaforte della
cultura, sulla difficoltà di accreditare una “sua” classe intellettuale
nei vari filoni dell’establishment, sui ritardi nel determinare
un’iniziativa di contro-egemonia. A parte il fatto che questa
impostazione continua a risentire dello schema organicistico dal quale
dovremmo – invece – liberarci definitivamente, resta sul suo sfondo la
pesante cappa di una serie di pregiudizi, di equivoci e di non detti sui
quali si è giocata per decenni la cosiddetta “egemonia culturale della
sinistra”. A sollevare la questione è stato Giovanni Raboni sul Corriere
della Sera, contestando dalle fondamenta la convinzione – “talmente
diffusa e soprattutto, si direbbe, così profondamente radicata, da
trasformarsi nell’immaginario collettivo in una sorta di luogo comune
metastorico” – secondo la quale i cosiddetti intellettuali sono “tutti
di sinistra”.
Raboni va alle radici del luogo comune e lo trova del tutto infondato:
“molti, anzi moltissimi tra i protagonisti o quanto meno tra le figure
di maggior rilievo della letteratura del Novecento appartengono o sono
comunque collegabili a una delle diverse culture di destra che si sono
intrecciate o contrastate o coesistite nel corso del ventesimo secolo”.
E giù con l’elenco, rigorosamente alfabetico: Barrés, Benn, Bloy,
Borges, Céline, Cioran, Claudel, Croce, D’Annunzio, Drieu la Rochelle,
T.S. Eliot, E.M. Forster, C.E. Gadda, Hamsun, Hesse, Ionesco,
Jouhandeau, Jünger, Landolfi, Thomas Mann, Marinetti, Mauriac, Maurras,
Montale, Montherlant, Nabokov, Palazzeschi, Papini, Pirandello, Pound,
Prezzolini, Tomasi di Lampedusa, W.B. Yeats.... Un elenco incompleto,
del resto, e limitato al piano letterario. Basterebbe spostarsi, anche
sul piano filosofico, politologico, antropologico, cinematografico per
vedere l’elenco estendersi a dismisura. Raboni cita anche i tanti
transfughi della sinistra che, folgorati dalla rivelazione dei disastri
delle utopie giacobine e leniniste, hanno poi finito con l’attestarsi su
posizioni di anti-sinistra: Auden, Gide, Hemingway, Koestler, Maulraux,
Orwell, Silone, Vittorini... Ai quali potremmo, poi, aggiungere quelle
figure definite come “irregolari” e non certo collocabili a sinistra, da
Leonardo Sciascia a Piovene, a Anna Maria Ortese, da Parise a Pietro
Germi, da Federico Fellini a Diego Fabbri. Lo stesso ragionamento
andrebbe applicato all’oggi, dove a scandagliare bene si scopre che
autorevoli firme di Repubblica – da Mario Vargas Llosa a Francis
Fukuyama fino a Marc Fumaroli – sono tutt’altro che “di sinistra”, come
sicuramente non lo sono i temi e le prospettive delle incursioni
filosofiche e intellettuali curate sulle sue pagine da Franco Volpi o a
Antonio Gnoli.
Analoga osservazione andrebbe condotta sul catalogo Adelphi e sugli
scritti del suo animatore Roberto Calasso. Come non ricordare, del
resto, che la stessa Feltrinelli ha iniziato la sua fortuna pubblicando
due testi “reazionari” come Il gattopardo e Il dottor Zivago? E sono
forse “di sinistra” figure come – citiamo volutamente in ordine sparso e
a volo d’uccello – Alberto Arbasino, Giulio Cattaneo, Pietro Citati,
Giuseppe Conte, Franco Branciaroli, Giancarlo Dotto, Franco Battiato,
Mogol, Enrico Ruggeri? Erano “di sinistra” i compianti Carmelo Bene,
Hugo Pratt, Benito Jacovitti? Sono forse “di sinistra” i principali
intellettuali-commentatori del Corriere della Sera – gli analisti che
oggi dettano i temi e spesso i criteri del dibattito pubblico dei nostri
giorni – ovvero Sergio Romano, Ernesto Galli della Loggia, Angelo
Panebianco, Geminello Alvi?
Sostituire una cuccia all’altra?
L’impressione è, allora, quella di essere prigionieri di un
condizionamento mentale duro a morire e alle origini di quell’assurdo
“pensiero unico” sulla “superiorità intellettuale della sinistra”. Un
condizionamento mentale che impone incomprensibili complessi di
inferiorità e ingiustificate sensazioni di “impresentabilità culturale”.
Un condizionamento mentale che, come in una sorta di mito incapacitante,
porta gli stessi uomini di cultura a non vedere il reale stato delle
cose e a dover pagare una sorta di pedaggio morale alla cittadella
fortificata e privilegiata (spesso oltre ogni merito) di un
establishment mediatico-giornalistico di segno progressista. Perché
l’unico fatto vero è questo: l’egemonia della sinistra, entrata in crisi
negli anni Ottanta e poi deflagrata per via dell’ ’89 e dell’evoluzione
tecnica e comunicativa degli anni Novanta, sopravvive ormai solo
virtualmente e solo per via del cordone sanitario costituito dalla
casamatta assistita del circuito mediatico-giornalistico-editoriale.
Tanto che la sua archiviazione non può – e non deve – avvenire
attraverso la costruzione di una patetica contro-egemonia o da goffi
tentativi di espugnare la cittadella fortificata, ma rompendo
definitivamente con la cultura delle gabbie e delle identità e aprendo
la strada al mercato delle idee e alla vera libertà nella cultura.
Non si tratta di sostituire a un establishment di sinistra uno di
destra. Tutt’altro. Basterebbe prendere atto di tutto ciò che si muove
davvero nel Paese sul piano delle idee, dei tanti creativi e dei tanti
uomini di cultura che producono e operano spesso in silenzio, dei tanti
ricercatori che spesso si muovono in aree e crinali davvero innovativi.
Basterebbe dare spazio e modalità di interazione ad un circuito virtuoso
tra ciò che la società oggi sente, prova ed esprime culturalmente e le
istituzioni preposte a dare forma politica a tutto questo. Ha ragione
Giampiero Mughini: se si intende uscire dai recinti nei quali
abitualmente vivono e pensano quelli “di sinistra”, non occorre affatto
“sostituire una cuccia a un’altra, perché di cucce nel mondo moderno non
ne esistono”. Del resto, come ha avuto modo di affermare lo stesso
Berlusconi sulle pagine di questa rivista (n. 6, 2000), l’idea di una
cultura organica alla politica, ormai inservibile in quanto tale, “resta
soltanto come alibi alla sinistra per giustificare l’arroccamento nella
cittadella dei privilegi, ancora ben salda nell’apparato culturale e
mass-mediatico [...] D’altro canto la situazione non può essere
normalizzata sostituendo gli uomini della sinistra con altri di
orientamento diverso. Occorre invece sbloccare il meccanismo perverso
liberalizzando e adeguando l’industria culturale italiana al modello di
un autentico “mercato delle idee”, anche attraverso l’opportunità di
favorire e dare spazio a tutta la cultura irregolare e non allineata,
perché se ne gioverebbe il paese nel suo complesso”.
Ma una volta preso atto dell’inconsistenza della presunta “superiorità”
della cultura di sinistra, resta da definire il giusto atteggiamento
degli uomini di cultura da un lato, e dei politici, dall’altro, ai fini
della costruzione di quella situazione post-organica evocata all’inizio.
La strada percorribile è quella del ristabilimento di un percorso
virtuoso tra politica e cultura, tra intellettuali e partiti, alla luce
di un libero orizzonte di circolarità e comunicazione tra le due sfere.
Un orizzonte, del resto, che corrisponde al ruolo degli intellettuali
così come, ad esempio, lo ipotizzava Adriano Olivetti. Un ruolo
neo-rinascimentale in grado di ridare senso alla politica e,
simultaneamente, ridare senso alla produzione delle idee. Non basta,
infatti, dire che una certa idea di politica fa cultura – occorre dire
di più: la politica è cultura – se buca con la sua evidenza l’ovvio e la
plastica della sterilizzazione dell’immaginario. Il passaggio necessario
è quello che va dalla vecchia “politica culturale” ad una nuova “cultura
politica”.
La politica come equilibrio tra teoria e prassi
In una prospettiva di rilancio della politica stessa, di nuova
mobilitazione civile la cultura deve giocare un ruolo decisivo, a patto
che venga sottratta alla sterilità accademica, alla contemplazione di se
stessa, alle ricadute nel pessimismo che avvelenano e discreditano la
produzione intellettuale. L’immaginazione e la produzione culturale
ritrovano un senso e un ruolo solo se sono in grado di sedurre
all’azione, di contrastare la rassegnazione e il naturale logorio della
abitudinarietà della politica politicante, se riescono a dimostrare, con
assoluto e splendente rigore, che l’orizzonte del cambiamento è
possibile, qui e ora. Solo allora la cultura corrisponde alla sua più
intima vocazione: quella di com-prensione, di presa sulle cose: immagine
tutta politica, polemica ed efficace. Ma questa dinamica diventa
operativa se trova sensibilità e rispondenza nell’altro versante del
nostro binomio: il mondo politico, la classe politica. E qui, purtroppo,
sembrerebbe che nel complesso, le idee e l’elaborazione teorica contino
poco (o nulla) nell’azione quotidiana. Ma la scissione tra (vera)
politica e (vera) cultura non può esserci. Come ha scritto Pietro
Barcellona, “la politica permette la trasformazione
dell’indeterminatezza delle pulsioni in azioni intenzionali verso
obiettivi e mete condivise anche dagli altri membri della comunità”. E
per farlo ha bisogno di una continua osmosi con la produzione delle
idee.
Senza il necessario radicamento culturale la politica contemporanea si
troverebbe, infatti, di fronte ad una alternativa: limitarsi, più o meno
consapevolmente, ad amministrare le cose, lasciandole così come vengono
trovate; oppure a ricorrere alla cultura come sua decorazione estetica,
come sovrastruttura ideologica attraverso una nuova forma di
cortigianeria, in cui tutto si ridurrebbe all’occupazione di spazi e
alla presunzione di ruoli. Prospettare, invece, un’autentica azione
politica significa impegnarsi in un percorso di trasformazione
dell’esistente, di innovazione civile oltreché istituzionale, di
modernizzazione nelle strutture e nella mentalità. Ma l’impegno per il
cambiamento, spesso sbandierato dai politici, rischia di essere una mera
affermazione rituale e retorica se sottovaluta la forza delle idee e
dell’interpretazione estetica e retorica e si lascia travolgere dai
mille rivoli delle complicazioni burocratiche, dalle tentazioni
puntualmente compromissorie, dalla lenta azione erosiva con la quale un
atavico scetticismo quotidiano corrode la volontà di innovare. E oggi la
politica – sottovalutando il significato della capacità di pensarsi
culturalmente – rischia di appannarsi e di apparire sempre più
amministrazione delle cose e sempre meno capacità di dirigere i processi
sociali. Senza la cultura, la politica può infatti correre il rischio di
allontanarsi da qualsiasi speranza di cambiare le cose e le vite, di
determinare “opere”, di lasciare il segno. Urge, quindi, un segnale di
discontinuità: ma gli intellettuali che fanno? È su questa sfida – non
su questioni marginali – che va oggi ripensata e ridefinita la
connessione politica/cultura.
D’altra parte, il mondo della cultura – l’universo degli uomini di
pensiero e degli operatori culturali – appare perlopiù o completamente
subordinato alle vecchie modalità di lotta partitica, oppure del tutto
impotente a far sentire politicamente la propria voce, scisso in
un’azione di compiacimento decorativo tipica della cultura post-moderna.
Interprete sempre meno accorto e sensibile dei cambiamenti che hanno
investito le società contemporanee, l’intellettuale tradizionale appare
oggi spesso incapace ad incidere in una qualche forma sulla scena
politica, di imporre le proprie vedute o chiavi di lettura, di
proiettare sullo schermo del mondo una diversa immaginazione della
realtà. E anche per questo – in assenza di un nuovo e virtuoso rapporto
teoria/prassi – la politica può rischiare di ridursi patologicamente
alle “cose da fare”: espunte le motivazioni ideali e una retorica in
grado di spiegare i processo di cambiamento, tutto può degenerare ad una
deriva pragmatista e minimalista (quando non anti-politica).
E anche per questo – in difetto di un’interpretazione generale capace di
riattivare passioni, senso del conflitto, capacità di governare i
processi sociali – le stesse “cose da fare” tendono a venire spesso
eluse o a essere “fatte male”. Si dimentica infatti che la politica è
originariamente poiesis: operazione culturale di inventio e dispositio,
teorica e tecnica insieme. Azione culturale per eccellenza. Cosa possono
– e cosa debbono – allora fare gli intellettuali nell’attuale contesto
storico-politico, singolarmente e come gruppo articolato di potere per
determinare una nuova stagione – quella post-gramsciana e post-organica
– dell’impegno politico? La domanda deve essere tematizzata a fondo
perché spetta comunque agli intellettuali spezzare l’attuale impasse e
riprendere il filo rosso della propria vocazione alla politica, unica
strada perché la stessa politica riscopra la propria natura più
profonda.
Un’iniziativa intellettuale contro l’anti-politica
Anche per chi accetta senza difficoltà il ruolo di affiancare sul piano
della produzione di idee e sintesi una formazione o un più vasto
schieramento politico, occorre affrancarsi dai vecchi schemi “organici”
in maniera da rendere davvero incisiva e operativamente politica la
propria azione intellettuale, soprattutto al fine di evitare che la
realtà scivoli sempre più nella deriva anti-politica. Ha scritto in
proposito James Hillman, tentando di ridefinire l’essenza del politico:
“L’inclusione di ciò che è eccessivo e anormale intessendolo nel
quotidiano: è questa l’arte della coscienza politica”. L’accento
hillmaniano insiste sulla tessitura: non ruolo costitutivamente
disperato dell’intellettuale che testimonia, con didascalica acidità, a
favore di autentici e imprecisabili valori traditi dalla classe
politica, ma attitudine, maturata nel più serio rigore, a stare nella
politica indicandovi con linguaggio ad essa consonante i significati
ulteriori e insoliti già presenti in ciò che sembra abituale e scontato.
Si tratta di indicare puntualmente i varchi, sconnettendo e
riconnettendo un filo dopo l’altro, anziché proclamare con un unico
gesto retorico la pretesa insufficienza del reale e di formulare modelli
astratti e utopici. Solo così irrompe sulla realtà il vero “progetto
politico” che è, poi, la decisione che qualcosa avvenga, la capacità di
avere parole e sintesi per dare forma politica alle tensioni sociali.
Come direbbe Hannah Arendt la politica sorge in Occidente quando appare
lo spazio scenico della rappresentazione, dell’interpretazione. Ancora
meglio Hillman, per il quale la politica “è prima racconto e poi fatto,
è il dare senso all’insignificante [...] la storia non sta solo nei
fatti accaduti, ma anche nel racconto che li tiene insieme” (La vana
fuga degli dei). Su questo deve agire uno sforzo immaginativo di
chiarezza concettuale, così come sottolineato dalla Arendt in Sulla
rivoluzione: “Questa mancanza di chiarezza concettuale e di precisione
rispetto alla realtà e alle esperienze esistenti è stata il peggior male
della storia occidentale fin da quando, sulla scia dell’età periclea,
gli uomini d’azione si separarono dagli uomini di pensiero e il pensiero
cominciò a emanciparsi completamente dalla realtà, specialmente dalla
realtà e dall’esperienza dei fatti politici. La grande speranza dell’età
moderna, e delle rivoluzioni dell’età moderna, è stata fin dall’inizio
che questa frattura si potesse sanare...”.
Del resto in uno scollamento generale, la cultura rischia di perdere il
suo ruolo civile, limitandosi a decorazione, chiusa nei recinti
disciplinari, effetto di un isterilimento della creatività, al massimo
impegnata nel ruolo simulacrico di copertura estetica dei processi
politici. La produzione culturale e l’elaborazione creativa tendono
ormai spesso ad apparire settoriali, asettiche, “pure” e incontaminate,
quasi rifiutando l’impasto quotidiano con le cose e con il reale.
Incapace di riconnettersi con la realtà, se non nelle forme del
cortigianesimo e dell’accademia, la cultura “pura” rifiuta l’avventura e
l’arrischio nel mondo. Risponde, nel migliore dei casi, alla massima di
Theodor W. Adorno secondo il quale “la speranza di un intellettuale non
è quella di influenzare il mondo, ma che qualcuno, un giorno, da qualche
parte, legga quanto egli ha scritto esattamente come lo ha scritto”. Tra
questa visione astratta e incontaminata dell’impegno e la pseudo-cultura
del circo mass-mediatico esiste, però, un terzo paradigma: quello della
tradizione rinascimentale, quello del miglior Novecento, quello che
auspica il ritorno della politica. È il paradigma espresso in tutta la
sua potenza da Guy Debord: “Quello che si è compreso, non lo si va a
dire in televisione, né si aspira ai sussidi della ricerca scientifica,
né agli elogi degli intellettuali da giornale, trattandosi di portare
olio dove brucia il fuoco”.
21 giugno 2002
(da
Ideazione 3-2002, maggio-giugno 2002)
lucianolanna@hotmail.com
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