L'Aventino di Cofferati
di Giuseppe Pennisi


Ormai il dato è tratto: la Ggil ha lasciato la sedia vuota e non si è seduta al tavolo dove si delinea il futuro del mercato del lavoro e dello stato sociale. Ha anzi proclamato lo sciopero generale. Anche molti iscritti al sindacato cominciano a chiedersi se lo sciopero sia dei padri contro i figli o invece a favore proprio delle generazioni future e dei loro diritti. Altri invece rilevano l'arcaismo dello Statuto dei lavoratori del 1970, la rarità straordinaria in Europa delle tutele reintegratorie e le deroghe peraltro limitate previste nelle proposte dell'esecutivo; e si domandano se lo sciopero generale non sia solo un pretesto per ritentare una mossa (di mobilitazione ed indignazione permanente) che diede frutti nel novembre-dicembre 1994.

Lo Statuto dei lavoratori ha avuto un significato importante nell'Italia dell'industrializzazione trionfante, dove erano vivi i ricordi delle condizioni in cui vivevano "Rocco ed i suoi fratelli" di viscontiana memoria. Il suo ruolo (di difesa dei lavoratori da misure ingiuste ed ingiustificate) si è appannato mano mano che la struttura economica del paese ha viaggiato verso il terziario avanzato. Ed è quasi del tutto tramontato nell'epoca della new economy, dove le differenziazioni stesse tra datore di lavoro e lavoratore sono diventate tanto sfumate da essere impercettibili. All'inizio degli anni Novanta, due libri pubblicati dalla casa editrice della Cgil (uno scritto addirittura dall'Organizzazione internazionale del lavoro) ne suggerivano l'abrogazione a ragione delle disfunzioni (segmentazione del mercato del lavoro, sommerso) da esso causate. La questione principale posta dallo sciopero indetto dalla Cgil riguarda il ruolo che questa confederazione sindacale intende avere nel riassetto delle istituzioni del mercato del lavoro in linea con le trasformazioni economiche e sociali; se starne dentro o se, invece, tirarsene fuori per situarsi in un Aventino sui generis.

Lo spiega con efficacia un bel libro di Gilles Sant-Paul, professore di economia del lavoro alla Università Paul Fabra e membro del Cepr di Londra e dello Iza di Bonn, due dei "pensatoi economici" di maggiore peso in Europa. Il libro, The political economy of labour market reform (L'economia politica delle riforme del mercato del lavoro) è uscito un anno e mezzo fa per i tipi della Oxford University Press. Saint-Paul è distinto e distante dalle vicende attinenti alle relazioni sindacali in Italia ma lo studio è stato scritto quando nella Penisola di riforma dell'art.18 dello Statuto dei lavoratori si interessavano unicamente alcune frange, peraltro molto minoritarie, di quella che allora era l'opposizione. Saint-Paul definisce rendita il differenziale tra il benessere del lavoratore occupato e quello del lavoratore che vorrebbe avere un impiego ma non riesce ad ottenerlo a ragione delle tutele normative a favore di chi il posto già lo ha. E' questa rendita alla base del supporto politico a favore dei benefici che essa conferisce a coloro che sono "dentro" la cittadella delle protezioni. Come tutte le rendite, però, indebolisce il paese nel suo complesso e rende alla lunga necessaria una chiusura più o meno forte rispetto al resto del mondo. Il processo d'integrazione economica internazionale porta, prima o poi, alla riduzione ed eventualmente alla scomparsa di rendite non compatibili con economie aperte al resto del mondo. Il percorso, però, non è lineare. La Cgil è ad un bivio: o partecipare a questo percorso, per difficoltoso che sia, o restarne fuori, abbarbicandosi alla difesa dell'esistente. Lo sciopero appare la trincea dell'esistente, mentre due terzi sono già sulla strada della modernizzazione. Strada in salita e tuttavia indirizzata al futuro, nella consapevolezza che chi difende l'esistente perde sempre.

7 giugno 2002

gipennisi@agora.it