Come la Lady di ferro "riformò" i sindacati
di Cristina Missiroli
“Gli effetti economici del potere sindacale erano già penosamente
chiari. I salari aumentavano eccesivamente mentre le prospettive
aziendali precipitavano con l’inizio della recessione”. Margaret
Thatcher racconta così nel suo diario i primi giorni di governo in cui
maturò la convinzione che la battaglia numero uno del suo mandato
sarebbe stata quella per depotenziare il sindacato. “Era necessaria –
scrive ancora - una ferma strategia finanziaria per migliorare la nostra
efficienza economica: ma non abbiamo mai creduto che fosse sufficiente,
anche con i tagli fiscali e l’eliminazione dei controlli sull’industria.
Dovevamo anche affrontare il problema del potere dei sindacati, problema
reso ancora peggiore dai successivi goveni laburisti e sfruttato dai
comunisti e dai militanti che erano arrivati a posizioni chiave nel
movimento sindacale”.
Era la fine degli Settanta e le Trade Unions facevano il bello e il
cattivo tempo in Gran Bretagna. Le aziende avevano da tempo accettato
l’obbligo di assumere personale solo attraverso i sindacati come un
inevitabile fatto della vita. “Così – racconta la Thatcher – il potere
dei sindacati sui loro membri era più o meno assoluto. Alcuni datori di
lavoro, desiderosi di quieto vivere, preferivano che così fosse. Ma
questo significava che quando sorgeva una vertenza, il sindacato
esercitava una pressione sui suoi membri che rasentva l’intimidazione.
Gli operai che volevano continuare a lavorare potevano sentirsi
minacciati di espulsione dal sindacato, il che aveva appunto per
conseguenza la perdita del posto di lavoro”.
La Lady di Ferro era appena arriva a 10 Downing Street e si apprestava
ad innescare la “rivoluzione blu”, la grande rivoluzione liberale che
tra il 1979 e il 1990 ha rivoltato la Gran Bretagna come un calzino,
trasformandola da grande malato dell'Europa nel Paese più dinamico, più
libero e soprattutto meno afflitto dalla disoccupazione dell'Unione
Europea. Compiendo un miracolo nienteffatto transitorio. Perché è ormai
unanimemente riconosciuto che, in una prospettiva storica, “Maggie” ha
aperto la strada, con le sue riforme, a una delle più importanti svolte
nella storia economica dell'Occidente: quella della vittoria del privato
sul pubblico, dell'individualismo sul pansindacalismo, della
meritocrazia sull'egualitarismo.
Quando iniziò la sua opera, era sola contro tutti. In un clima forse
ancora più drammatico e violento di quello che si trova oggi ad
affrontare Silvio Berlusconi. Ma, proprio come oggi in Italia, con il
mandato pieno degli elettori. Quando avviò il processo di
privatizzazioni, la Thatcher fu indicata al generale ludibrio dalla
dominante cultura di sinistra. Quando combatté la sua storica battaglia
contro il sindacato dei minatori per ridimensionare lo strapotere delle
Trade Unions, fu vilipesa come la nemica numero uno delle classi
lavoratrici. Quando decise di vendere tutte le case di proprietà
pubblica ai rispettivi inquilini, fu denunciata perché dilapidava il
patrimonio nazionale. Ma per nulla al mondo si lasciò fuorviare dalla
missione che si era riproposta. E oggi, a vent'anni di distanza, il
principio da lei affermato per prima, in una fase di statalismo
dilagante, che le funzioni dello Stato in una moderna società
democratica e liberale devono essere drasticamente ridotte, viene oggi
ripetuto quasi pappagallescamente da pressochè tutti i governi.
Non è dunque certo un caso che il suo primo grande scontro sia stato
quello con i sindacati, allora legati a filo doppio al partito
laburista, custodi implacabili quanto ottusi di anacronistici privilegi
e principali responsabili del declino industriale della Gran Bretagna.
Scioperare era la regola, più o meno come lo era in quell'epoca in
Italia: si scioperava per la paga, per l'orario, per solidarietà con
altre categorie, per risolvere contrasti tra una Union e l'altra. Il
primo sciopero che si trovò ad affronatre fu quello dei metalmeccanici.
“Non fu –scrive – uno sciopero politico né uno sciopero che minacciava
di paralizzare la vita della nazione. Ma era proprio quel tipo di
sciopero che nessun paese che lotta per il proprio avvenire industriale
poteva permettersi di tollerare, una lezione pratica di ciò che andava
male”.
Margaret Thatcher mise fine a tutto questo con una legge che dichiarava
lo sciopero illegale se non veniva previamente approvato a voto segreto
dalla maggioranza dei lavoratori e rendeva i capi sindacali civilmente
responsabili dei danni provocati da agitazioni non conformi alle regole.
Tutti, compresi alcuni dei più stretti collaboratori, le consigliarono a
più riprese di tirare i remi in barca. Cosa che Maggie rifiutò
categoricamente di fare. “Tutti i miei istinti mi dicevano che avremmo
trovato un forte sostegno pubblico per un’ulteriore azione intesa a
ridurre il potere dei sindacati e ne ebbi ampia dimostrazione. Un
sondaggio di opinione nel ‘Times’ del 21 gennaio 1980 poneva ai lettori
la domanda: “Ritenete che gliscioperi e i blocchi di solidarietà siano
armi legittime da usare in una vertenza industriale, oppure che la nuova
legge dovrebbe restringerne l’uso?”. Il 71 per cento di quelli che
risposero, e il 62 per cento dei membri dei sindacati che lo fcero,
dissero che una nuova legge effettivamente doveva restingerne l’uso”.
Thatcher andò avanti per la sua strada anche si fronte ai dubbi dei capi
della confindustria britannica. Ad uno dei più potenti di questi signori
che le chiedeva “cautela”, rispose: “Se noi indietreggiamo davanti a
questo compito ora che abbiamo dalla nostra parte l’opinione pubblica e
una gran parte dei lavoratori sindacalizzati, probabilmente non avranno
più fiducia nel fatto che noi si riesca ad assolvere il nostro compito
il prossimo inverno”. E finì citando Shakespeare, Misura per misura: “I
nostri dubbi sono traditori,/ E ci fanno perdere il bene che potremmo
ottenere,/ Per timore di un tentativo”. Soprattutto, la Lady di Ferro
mostrò la sua determinazione nella vertenza per la chiusura delle
miniere di carbone che ormai da moltissimo tempo operavano in perdita e,
da grande risorsa quale erano state fino al 1950, si erano trasformate
in una palla al piede dell'economia.
Il leader del sindacato dei minatori Arthur Scargill, un demagogo
marxista vecchio stile, saltò sulle barricate e proclamò che mai e poi
mai avrebbe tollerato un simile sopruso in nome del mercato. La lotta fu
senza esclusione di colpi, con il governo che impose per oltre un anno
severe restrizioni al consumo di carbone a tutta la nazione e il
sindacato che non esitò (anche se la cosa si seppe molto dopo) a farsi
finanziare dalla Libia per poter continuare a pagare un sussidio agli
scioperanti. Perfino nel partito conservatore ci fu chi espresse una
certa simpatia per i minatori, una categoria resa popolare dai romanzi
di Cronin e che tutto sommato aveva contribuito onestamente alla
prosperità del Regno Unito. Ma Maggie sapeva che su quello sciopero si
giocava tutto, e fu inflessibile: alla fine gli scioperanti, regione
dopo regione, cedettero, e la regola che lo Stato non era più
disponibile a sussidiare aziende non suscettibili di risanamento fu
affermata una volta per sempre. Da allora, non solo il potere delle
Trade Unions nelle imprese è stato tagliato, ma le nuove generazioni di
lavoratori hanno cominciato a rendersi conto che con il sindacato si
perdeva, e nella loro stragrande maggioranza hanno cessato di
iscriversi.
Una volta riformate le relazioni industriali, con un notevole
rafforzamento del management nei confronti della base, la Thatcher
avviò, con la vendita di British Telecom nel 1894, il primo grande
programma europeo di privatizzazioni. Alla British Telecom seguirono in
rapida successione British Gas, British Airways, la Jaguar, la Rover e
buona parte delle aziende di pubblico servizio, comprese alcune ferrovie
(ma non le poste, che nel Regno Unito funzionano benissimo e fanno
perfino un consistente utile). Ma questa è un altro capitolo della
storia.
7 giugno 2002
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