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        Alla ricerca di un ruolo nuovodi Domenico Mennitti
 
 Sta cambiando il ruolo del sindacato nella società italiana? Gli ultimi 
        avvenimenti sembrerebbero confermarlo, soprattutto se si riflette sulle 
        modificazioni che sta subendo il concetto di concertazione. Questo 
        strumento, concepito come mezzo per risolvere i problemi sociali, 
        soprattutto negli ultimi anni si era trasformato nella dotazione di un 
        forte potere di veto conferito alle organizzazioni sindacali. In 
        particolare si era finito per affidare alla concertazione un compito di 
        rappresentanza generale che neppure la somma degli interressi raccolti 
        intorno ai soggetti che vi prendevano parte era in grado di esprimere. 
        All'atto pratico, ottenendo in calce a un protocollo le firme di decine 
        di organizzazioni, si potevano si evitare scioperi e manifestazioni, ma 
        non poteva considerarsi risolto il problema del consenso, dato che in 
        una democrazia c'è una istituzione specifica - il Parlamento - che 
        legittimamente esprime la volontà generale.
 
 Il caso più macroscopico lo si è registrato con la riforma delle 
        pensioni nel 1995, quando il governo ha atteso che intervenisse 
        un'intesa tra le confederazioni sindacali e si è limitato a tradurne i 
        contenuti in un testo articolato, mentre il Parlamento si era 
        determinato a rinviare l'approvazione della legge, in attesa che si 
        svolgesse un referendum confermativo tra i lavoratori. Il risultato è 
        stato quello di una confusione di ruoli che, ovviamente, non poteva 
        essere idonea a trovare soluzioni ai problemi nuovi. A snaturare, 
        comunque, la stessa concertazione era stato il rapporto privilegiato che 
        - dal primo governo D'Alema in poi - gli esecutivi di centro sinistra 
        hanno avuto con la Cgil. Tanto che la regola era diventata una sola: è 
        ammesso al tavolo del confronto solo chi è disposto ad accettare i temi 
        e le proposte del sindacato diretto da Sergio Cofferati.
 
 Oggi - dopo le elezioni del 13 maggio 2001 che hanno riportato al 
        governo Berlusconi - la Cgil si pone nel movimento sindacale italiano in 
        una posizione singolare. La confederazione guidata da Sergio Cofferati 
        ha assunto ed accentuato una posizione "antagonista" e, dopo aver dato 
        l'impressione lo scorso anno di scommettere sulla sconfitta politica 
        della sinistra, sta giocando la carta dell'arroccamento allo scopo di 
        far fronte comune con l'opposizione politica e prepararsi ad anni di 
        lotta dura ed irriducibile, anche per prescindere dai contenuti di 
        merito. Per portare avanti questa linea occorrono non solo l'orgoglio di 
        organizzazione e la demonizzazione dell'avversario, ma pure la presa di 
        distanza dagli altri sindacati, non solo da quelli confederali, 
        accusandoli tutti di intelligenza col nemico. Non si può davvero credere 
        infatti, nel valore dell'umiltà se non si è disposti a considerare il 
        pluralismo una grande ricchezza, al punto di riconoscere alle posizioni 
        altrui quel rispetto che ciascuna organizzazione pretende per la 
        propria.
 
 Eppure la Cgil ha avviato la fase della post-concertazione all'insegna 
        del nuovo "antagonismo", soprattutto contrastando la riforma del mercato 
        del lavoro e la proposta di modifica dell'art. 18. Una strategia che è 
        partita denunciando un collateralismo tra governo, Confindustria ed 
        altre istituzioni economiche, persino la Banca Centrale, e una parallele 
        marginalizzazione del metodo della concertazione. Ma si tratta di 
        un'analisi evidentemente paradossale perché, di fatto, non conviene a 
        nessun governo escludere pregiudizialmente un importante attore sociale. 
        A maggior ragione quando il venir meno della responsabilità della 
        condivisione attenuerebbe di molto l'impegno di quel medesimo attore 
        nella dinamica reale dei rapporti che si sviluppano a valle delle 
        decisioni del governo stesso. La verità è che l'obsolescenza della 
        concertazione è oggettiva e non è il risultato di una pregiudiziale 
        ideologica alimentata dalla nuova maggioranza politica. Essa, infatti, 
        rappresentava forse un cemento necessario per rafforzare la base di 
        consenso negli anni Novanta per due ragioni contingenti: la fragilità 
        estrema delle maggioranze parlamentari e l'esistenza di un traguardo 
        imposto da cause di forza maggiore.
 
 Se l'Italia voleva essere accettata nel club europeo della moneta unica 
        e della stabilità doveva normalizzare la gestione della propria finanza 
        pubblica. Questa opzione fu interpretata dai governi in carica come 
        esigenza di realizzare un'immediata stretta fiscale per accedere ad una 
        successiva fase di espansione economica. In quel contesto la 
        condivisione del traguardo, e del percorso scelto per raggiungerlo, era 
        decisiva ed imponeva la massima area di consenso sociale. A riprova di 
        questa interpretazione ci sono i risultati: il traguardo è stato 
        tagliato pagando il prezzo di un sostanziale blocco della crescita nella 
        seconda metà degli anni Novanta. Il tasso medio annuo di espansione del 
        reddito, tra il 1995 ed il 2000, è stato pari ad 1,66 per cento. Il 
        resto è cronaca.
 
 Oggi però l'obsolescenza della concertazione è sotto gli occhi di tutti. 
        Soprattutto per tre fatti oggettivi: L'esistenza di una chiara e stabile 
        maggioranza parlamentare che sostiene l'esecutivo; l'esigenza di trovare 
        una politica economica che si fondi sulla mobilitazione di una pluralità 
        di azioni individuali, orientate alla crescita, e non su grandi 
        programmi di stabilizzazione, onerosi fiscalmente e condivisi 
        socialmente; le aspettative di una nuova generazione di lavoratori, che 
        vedono il proprio futuro affidato alla knowledge economy ed alla sua 
        capacità di adattarsi ai processi economici, e non grandi architetture 
        organizzative, che l'incertezza travolge proprio in ragione della loro 
        intrinseca rigidità. A questo punto appare davvero inevitabile un 
        diverso profilarsi del sindacato italiano nell'ambito della domanda di 
        modernizzazione sociale e istituzionale del paese. E in questo senso 
        appare in tutta la sua evidenza la tendenza sempre più marcata ad una 
        traslazione del bipolarismo dal sistema delle relazioni politiche a 
        quello delle relazioni sindacali. Un sistma che appare distinto e 
        organizzato in due poli: un polo "partecipativo" in cui possono 
        riconoscersi la Cisl, la Uil, l'Ugl, la Cisal, e un contrapposto polo 
        "antagonista", nel quale si concentrano la Cgil e i Cobas. E' uno 
        scenario nuovo col quale bisognerà fare i conti oltre il richiamo alla 
        ormai superata unità sindacale. E', soprattutto, uno scenario che può 
        preludere ad una semplificazione e ad una razionalizzazione positiva e 
        propulsiva delle relazioni del mondo del lavoro italiano.
 
 7 giugno 2002
 
 domenico@mennitti.it
 
 (da Conquiste del lavoro)
 
 
 
 
 
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