L'eterno conflitto tra riformisti e massimalisti
di Alessandro Bezzi
Lo strappo è avvenuto. E alla fine i tre principali sindacati italiani
hanno deciso di percorrere strade diverse nel confronto con il governo
di centrodestra sulla riforma del mercato del lavoro. Cisl e Uil da una
parte, decise ad affrontare le proposte dell'esecutivo e a dare
battaglia sul tavolo delle trattative. Cigl dall'altra, ferma su una
posizione di chiusura assoluta e votata a indire scioperi su scioperi,
in un momento di impasse dell'economia del paese. In questa scelta c'è
lo scontro di fondo tra un sindacato riformista, moderno, che intende
farsi carico delle politiche economiche del paese e un sindacato
conservatore, populista e demagogico, che guarda al passato e innalza
vecchie barricate. Non si scappa da questo punto. E dopo scioperi
generali unitari che nascondevano appena la profonda divisione tra le
due linee sindacali, la strategia divergente è venuta allo scoperto.
Non senza conseguenze sul piano politico. La sinistra riformista, che
pure è stata soccombente rispetto alla ventata populista che ha travolto
l'opposizione dopo la sconfitta elettorale del 2001, appoggia la scelta
pragmatica di Pezzotta e Angeletti. Lo ha ribadito Rutelli, criticando
la scelta di Cofferati di rifiutare aprioristicamente il confronto con
il governo. E non si capisce come possano andare a braccetto, in un
ipotetico ticket elettorale fra quattro anni, quel Romano Prodi che da
Bruxelles tuona contro le resistenze sindacali alla liberalizzazione del
mercato del lavoro e quel "Cinese" che proprio di quelle resistenze è
l'alfiere principale. La sinistra massimalista, riemersa dietro le lotte
di retroguardia della Cgil, si accalora per i referendum di Bertinotti e
scivola verso una deriva senza ritorno. E si allontana dal moderno
sindacalismo europeo. In altri stati d'Europa i rappresentanti sindacali
non lesinano critiche ai rispettivi governi (di destra o di sinistra) ma
hanno da tempo abbandonato posizioni irriducibili e, come dimostrano gli
esempi di Spagna, Germania e paesi scandinavi, collaborano positivamente
con gli esecutivi per innovare le politiche economiche e sociali e
renderle competitive. Senza rinunciare alla difesa dei diritti dei
lavoratori: semplicemente reinterpretandoli alla luce del mondo che
cambia. Ponendosi al passo coi tempi, riescono ad attrarre i nuovi
soggetti del mondo del lavoro, attivando un circolo virtuoso che non li
isola dai cambiamenti della società: si configurano come sindacati
aperti.
Di questa elaborazione dottrinale, i sindacati italiani sembrano
sprovvisti. Sono tutti in ritardo e una profonda analisi della loro
struttura evidenzia segnali di debolezza che vanno al di là
dell'effimero successo derivante da una manifestazione di piazza.
L'analisi a tutto tondo è stata realizzata dalla redazione economica del
più autorevole quotidiano italiano, il Corriere della Sera, e pubblicata
sull'inserto settimanale Corriere Economia con il titolo: Sindacato Spa.
Emerge un ritratto non proprio esaltante del sindacalismo italiano,
tutto votato a far politica mentre perde iscritti tra i lavoratori, non
attira (e dunque non rappresenta) le nuove professioni e si gonfia di
pensionati. Le tre confederazioni sono però ricchissime, incassando ogni
anno tra i 570 e gli 850 milioni di euro dal tesseramento e altri 300
milioni dallo Stato per patronati e Caaf. Un'isola di privilegio,
irrorata dalla presenza di almeno 2mila funzionari "distaccati" e molti
altri in aspettativa non retribuita.
Se fosse un'azienda, si potrebbe dire che il sindacato italiano si sta
allontanando dal proprio core business, che dovrebbe essere quello di
difendere i lavoratori, non quello di far politica. E proprio la voglia
di politica di Cofferati sarebbe, secondo alcuni osservatori, la molla
della svolta irriducibile della Cgil: la necessità di costituirsi un
credito da spendere tra qualche tempo, quando abbandonata la segreteria
della Cgil, il Cinese dovrà gettarsi nell'arena politica per non
sfiorire in una fabbrica di provincia. Lui nega, ovviamente. Ma gli
indizi sono tanti. Ecco dunque che Pezzotta e Angeletti hanno deciso la
rottura. Se a loro interessa più il futuro del sindacato che quello
personale in politica, sarebbe ora di percorrere strade nuove. Il tempo
perduto è già tanto. E l'Italia ha bisogno di un sindacato moderno. Di
un sindacato europeo.
7 giugno 2002
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