Il secolo antiamericano
di Pino Bongiorno


Da molti il Novecento è stato definito il “secolo americano”. E a ragione, a parer mio. Gli Stati Uniti d’America, infatti, hanno rappresentato nel XX secolo, pur con tutti i limiti e gli errori di un’impresa umana e pertanto imperfetta, il paese che ha salvato il pianeta dagli imperialismi ereditati dall’Ottocento, prima, e dai totalitarismi nazifascista e comunista, poi. Mentre l’Europa imboccava scorciatoie, vagheggiava paradisi socioeconomici, si affidava a vari uomini della provvidenza, gli Stati Uniti hanno tenuto ben ferma la barra su quella “religione della libertà” che dal 1776 orienta la loro convivenza civile, mai allontanandosi dall’idea che la società democratica e aperta è quella che garantisce la maggior quantità di diritti e assicura le forme più tollerabili di vita comune, né da quella secondo cui l’economia di mercato, con tutti gli argini e le protezioni necessari, è la sola in grado di produrre e distribuire benessere sempre crescente e per più individui.

Eppure, nonostante queste credenziali, o forse proprio per queste credenziali, il paese a stelle e strisce si è attirato, durante il “lungo” Novecento, più inimicizie che simpatie, più riserve che attestati di stima, più alleanze di comodo che appoggi convinti. “Siamo tutti americani”, come si sente ripetere ossessivamente dall’11 settembre scorso, eppure l’America e gli Americani non ci hanno mai persuasi del tutto. Già all’inizio del secolo, dopo che gli Stati Uniti si sono imposti sia nella guerra ispano-americana del 1898 sia nella prima guerra mondiale, l’homo americanus è considerato negli schifiltosi ambienti europei un barbaro contemporaneo, interessato soltanto alla materia e alle cose, invece che allo spirito e alle idee così amati nel vecchio continente. E anche in seguito, sebbene sembri farsi strada una sorta di “mito americano”, il paese d’oltreoceano è identificato nell’immaginario collettivo con gli elettrodomestici per tutti, la vendita a rate, l’utilitaria, le case riscaldate, la spregiudicatezza femminile, la rozzezza, il chewing gum, il consumismo, ecc. Gli Stati Uniti sono percepiti come la terra dell’uomo comune, dell’uomo-qualunque, dell’uomo senza qualità. Il loro avvento mette fuori gioco quelle aristocrazie dello spirito su cui l’Europa ha costruito le sue fortune, costituisce lo scacco della Kultur e il trionfo dell’uomo-massa, affida al mercato e alla secolarizzazione quelle chiavi, per raggiungere il benessere e per parlare alle coscienze, che fino ad allora hanno gelosamente posseduto Stato e Chiesa, e spesso addirittura Stato e Chiesa insieme. Rappresentano un’anomalia, un paese senza storia che brucia le tappe e si pone, dopo poco più di un secolo di vita, come modello politico, economico e civile. Per tutti questi motivi la loro affermazione è stata vissuta con fastidio, anche quando i loro successi sono stati i nostri, e una malcelata sopportazione ha sempre accompagnato le scelte comuni.

L’Italia, in particolare, non ha mai smesso di provare, durante il suo tormentato Novecento, un viscerale, direi consustanziale, antiamericanismo. Già nel secolo precedente il giudizio sugli Stati Uniti è caratterizzato dalla combinazione “di altezzoso disprezzo e di diffidenza ostile”. Successivamente i gruppi intellettuali fiorentini, che si raccolgono intorno alle riviste “La Voce” e “Leonardo”, danno vesti teoriche a questo rifiuto. Prezzolini e Ojetti criticano la massificazione sociale ed estetica, il pragmatismo e il ‘culto’ tecnologico della società americana, fino a spingersi alla contestazione delle radici politico-filosofiche della modernità tout court. Anche gli emigranti, che pure affluiscono in America in proporzioni da esodo biblico e in un primo momento pensano di essere arrivati nella “terra promessa”, restituiscono l’immagine di un paese xenofobo, in cui il lavoro non manca, ma è dequalificato e sottopagato, e in cui gli italiani trovano posto solo nelle squallide e malsane periferie delle megalopoli industriali, dove nascono innumerevoli little Italy. Negli anni della grande guerra, gli Stati Uniti, consapevoli della diffidenza con cui il mondo italiano guarda al nuovo alleato, organizzano un battage pubblicitario martellante, che ricorre sia ai media del tempo – il cinema, la musica popolare, lo sport, le cartoline, i nastri, i bottoni, gli opuscoli – sia agli aiuti materiali ai nostri soldati, ad opera della Croce Rossa e dell’Ymca (Young men’s christian association). L’impatto della propaganda è forte, al punto che alcuni storici parlano per quegli anni di “scoperta dell’America”, ma di breve durata. La vittoria inizialmente “nazionale”, invece che “alleata”, si trasforma nel giro di qualche mese in “mutilata” e per evidenti responsabilità americane. “La fortuna di Wilson è la cartina di tornasole di questa rapidissima parabola dell’«americanismo» tra guerra e dopoguerra. Straordinario è, dapprima, il consenso intorno al presidente nella società italiana. D’Annunzio scrive nel 1918 l’ode All’America in armi, ma due anni dopo è il critico più aspro e violento del “wilsonismo”. Il suo atteggiamento fa testo. Il ritorno alla diffidenza tradizionale trova conferma nell’espressione più sconcertante dell’isolazionismo per l’osservatore italiano: la legislazione di contenimento dell’emigrazione”.

Gli anni immediatamente successivi alla guerra sono contrassegnati dal desiderio profondo di dimenticare le tragedie e le privazioni belliche; in Italia penetrano musiche e ritmi provenienti d’oltreoceano - come il jazz, il fox trot, il charleston - e si diffondono sempre più modelli e valori provenienti dalla società americana, che rappresentano, come ha scritto R. De Felice, “uno dei maggiori ostacoli alla penetrazione propagandistica del fascismo nelle classi medie italiane perché avevano in qualche modo ‘inquinato’ la loro partecipazione ideologica alle vicende del regime”. L’affermazione di Mussolini riporta l’antiamericanismo sugli scudi. Un antiamericanismo, però, che non si limita soltanto al rifiuto dei quattordici punti wilsoniani o del democraticismo imbelle e pacifista, ma che si spinge, coerentemente con l’ideologia del regime, fino alla messa in mora della civiltà americana nel suo complesso. Essa, infatti, secondo gli esponenti della cultura fascista, non può essere considerata un’alternativa plausibile alla sola forma di civiltà che per l’Europa è concepibile, e che è “fatta di sedimentazioni storiche, di tradizione, di otium come spazio della cultura, di sottigliezze, di buon gusto”. E la crisi del ’29, come scrivono R. Aron e A. Dandieu nel loro Le cancer americain, è l’inevitabile manifestazione patologica di un “organismo artificiale e morboso”, l’estrema conseguenza di un razionalismo degradato a dominio tecnico. Gli anni della seconda guerra mondiale intensificano l’antiamericanismo, con la contrapposizione tra “oro” e “sangue”, “ricco” e “povero”.

“Noi abbiamo preso le armi – scrive un militare in una lettera nell’ottobre del 1942 – per difendere il nostro pane e per assicurare una vita onesta al nostro popolo, mentre il popolo inglese e americano ci combatte per negarci la vita a profitto della sua opulenza. E’ un po’ la lotta del ricco contro il povero”. Arrivano, in seguito, lo sbarco in Sicilia, l’occupazione alleata, la liberazione, il piano Marshall, e gli Stati Uniti guadagnano parecchi punti nella considerazione italiana, sia delle classi dirigenti che dell’opinione pubblica. L’adesione al Patto atlantico, firmato il 4 aprile 1949, e quindi la scelta di stare con le democrazie occidentali contro l’Unione Sovietica e i suoi alleati, costringe il nostro paese all’abbraccio con gli Stati Uniti, cioè a una politica, sia estera che interna, bloccata. Nel mezzo secolo che separa lo storico accordo dalla caduta del muro di Berlino, l’Italia non ha mai fatto mancare il suo appoggio e la sua fedeltà non è mai venuta meno, ma il suo atlantismo è stato sempre poco convinto e alcuni suoi importanti uomini di governo – Gronchi, Fanfani, Moro, Forlani, Andreotti – lo hanno di sovente annacquato, come ha scritto S. Romano, “con una serie di iniziative mediterranee, terzomondiste, filoarabe e filosovietiche”. La “doppiezza” dell’Italia è venuta fuori anche nell’ultimo decennio. E’ stata ancora al fianco degli Stati Uniti nei momenti di grande tensione internazionale –guerra del Golfo, guerra del Kosovo e guerra al terrorismo islamico – ma sempre spaccandosi, facendo sentire forte le proprie voci di dissenso, i propri distinguo, e concedendosi più del dovuto al pacifismo di maniera.

L’antiamericanismo italiano del Novecento, che ho sbrigativamente tratteggiato, si è spesso alternato, o ha condiviso la scena, con una sorta di “mito americano”, senza però che quest’ultimo incidesse mai nel profondo, si radicasse, producesse cambiamenti sensibili di mentalità, in direzione del liberalismo, dell’individualismo, della modernità. L’antiamericanismo, invece, è la categoria con cui è possibile spiegare il nostro paese quasi antropologicamente, certo ideologicamente. E tale spiegazione rimanda alle culture che hanno segnato il Novecento politico, e non solo politico, italiano, cioè cattolicesimo, fascismo e comunismo, diverse in tutto, fuorché nella scelta di un comune “nemico”: l’America.

Antiamericanismo e cattolicesimo
Il mondo cattolico rifiuta il modello americano, l’American way of life, soprattutto perché è dottrinariamente ostile al capitalismo, che ha trovato nel secolo scorso la sua più compiuta espressione proprio negli Stati Uniti. E’ convinto, infatti, per motivi soteriologici, che la salvezza passi attraverso la povertà, dato che questa soltanto crea le condizioni d’animo ideali per ascoltare la parola di Dio. E perciò “beati pauperes”. Per i ricchi sembra non esserci scampo: o abbandonano tutto quello che hanno, nel senso perlomeno che non ne fanno un uso esclusivo e lo mettono a disposizione dei bisogni degli altri, oppure vanno incontro a una sicura condanna. “E’ più facile che un cammello entri nella cruna di un ago, che un ricco nel regno dei cieli”. Affermazioni del genere, di cui è pieno il Nuovo Testamento, sono riprese e teorizzate filosoficamente da s. Alberto e s. Tommaso, trovando il loro più grande testimone in s. Francesco, il santo dei poveri. L’etica protestante, che ha spinto i coloni americani a cercare nel lavoro le tracce della volontà di Dio, è convinta esattamente del contrario e considera ricchezza e successo come i segni più evidenti del favore divino. Gli eletti accumulano ‘tesori’ già in terra, mentre i dannati vivono di stenti e di rinunce. Alla critica del capitalismo si aggiungano, poi, quelle del liberalismo, del materialismo, della modernità, e il quadro è completo. Mondo cattolico e Stati Uniti d’America, che pure hanno stretto rapporti d’amicizia e di collaborazione in diverse fasi del Novecento, sono sostanzialmente estranei l’uno agli altri, non hanno elementi, se si escludono quelli occasionali e opportunistici, che li avvicinino e ne ispirino valori, scelte, comportamenti comuni. Di tutto ciò la storia del XX secolo offre esempi innumerevoli.

Si inizia con Leone XIII, che nella lettera “Testem benevolentiae”, inviata il 22 gennaio 1899 al cardinale Gibbons, condanna senza mezzi termini l’americanismo, in quanto sistema di valori inaccettabili, e ribadisce alcuni capisaldi della dottrina che a suo parere i cattolici americani hanno messo in discussione, contestando in particolare la loro convinzione che la Chiesa per avvicinare “coloro che ne dissentivano” debba “acconciarsi alquanto più alla civiltà del secolo progredito, ed, allentata l’antica severità, accondiscendere alle recenti teorie e alle esigenze dei popoli”. Per Leone XIII non è possibile pensare di introdurre “nella Chiesa una tal quale libertà per la quale, diminuita quasi la forza e la vigilanza dell’autorità, fosse lecito ai fedeli abbandonarsi alquanto più al proprio arbitrio e alla propria iniziativa”; gli americanisti si spingono fino al punto di ritenere che, per rendersi graditi a Dio, sia “superfluo anzi men vantaggioso ogni esterno magistero”, con il risultato che “questi amatori di novità lodavano oltremisura le verità naturali, quasi queste rispondessero più acconciamente ai costumi e alle esigenze dell’età presente”.

Nei primi anni del Novecento le preoccupazioni della Chiesa circa il paese d’oltreoceano si concentrano sulle condizioni degli emigranti, il cui trasferimento in una realtà così diversa da quella d’origine suscita “un problema religioso irto di difficoltà”, e sul “degrado morale”, che trova la sua espressione più macroscopica nello spropositato numero di divorzi: negli ultimi vent’anni si sono infatti registrate circa 327.000 separazioni coniugali, mentre nel vicino e cattolico Canada, in 32 anni, se ne sono contate appena 281. Il pontificato di Pio X ha tra i suoi bersagli preferiti il modernismo, messo all’indice con l’enciclica “Pascendi dominicis gregis” del 1907, e il liberalismo, che padre Billot nel 1909 bolla come “dottrina multiforme, che più o meno conduce all’emancipazione dell’uomo da Dio, dalla sua legge, dalla sua rivelazione, e conseguentemente separa la società civile da ogni dipendenza dalla società religiosa cioè dalla Chiesa, custode interprete e maestra della legge divinamente rivelata”. E’ evidente che la società americana è colpita, volutamente o meno, da tale anatema. Essa, infatti, fin dalle sue origini, è liberale e il liberalismo impronta ogni suo comportamento pubblico o privato. Negli Stati Uniti, inoltre, la separazione rigida tra Stato e Chiesa, che là è separazione tra lo Stato confederale e le diverse congregazioni religiose, è a regime dal 1787.

Anche le abitudini e i passatempi americani provocano allarme e vengono banditi. Con l’enciclica Sacra propediem, del 6 gennaio 1921, Benedetto XV stigmatizza, in un momento psicologicamente molto difficile, considerate le tragedie e le privazioni degli anni precedenti, la ricerca delle ricchezze, l’insaziabile “sete di piaceri” e, soprattutto, la moda dei “balli esotici e barbari, uno peggiore dell’altro”. Dieci anni dopo, la Chiesa si unisce, con l’enciclica di Pio XI, Quadragesimo anno. De ordine sociali instaurando, al coro di quanti hanno intonato, all’indomani della crisi del ’29, il de profundis per il capitalismo: “…il retto ordine dell’economia non può essere abbandonato alla libera concorrenza delle forze. Da questo capo, anzi, come da fonte avvelenata, sono derivati tutti gli errori della scienza economica individualistica, la quale, dimenticando o ignorando che l’economia ha un suo carattere sociale non meno che morale, ritenne che l’autorità pubblica la dovesse stimare e lasciare assolutamente libera a sé, come quella che nel mercato o libera concorrenza doveva trovare il suo principio direttivo, secondo cui si sarebbe diretta molto più perfettamente che per qualsiasi intelligenza creata. Ma la libera concorrenza, quantunque sia cosa certamente equa e utile se contenuta in limiti ben determinati, non può essere il timone dell’economia: il che è dimostrato anche troppo dall’esperienza…”. Sempre nel 1931, l’arcivescovo di Milano, cardinale Ildefonso Schuster, si spinge fino al punto di sostenere che la crisi del ’29 è da intendersi come l’espressione di una più generale e profonda crisi di civiltà, dato che “nell’intimo del cuore di molta parte dell’umanità Dio non c’è più con il suo soffio vivificatore”. Nell’enciclica Summi pontificatus, del 20 ottobre 1939, Pio XII incolpa la civiltà moderna anche dello scoppio della seconda guerra mondiale, conseguenza tragica dell’abbandono della dottrina della Chiesa.

Durante la “guerra fredda” i rapporti dei cattolici con il mondo americano prendono a correre su un doppio binario, quello della contingenza politico-diplomatica, da un lato, e quello della necessità etico-religiosa, dall’altro. La Democrazia Cristiana, il partito cui fanno riferimento la Chiesa e i cattolici fino al momento della sua estinzione, sceglie l’atlantismo, in funzione anticomunista e antisovietica, ma si tiene sufficientemente lontana dall’America. L’opzione occidentale non impedisce alla Chiesa di continuare a denunciare i limiti delle società liberaldemocratiche e capitalistiche. Nel 1947, mentre parte il piano Marshall con cui gli Stati Uniti finanziano la ripresa economica europea, il cardinale Schuster scrive a scanso di equivoci: “L’America vi promette prestiti di dollari; Cristo invece s’impegna a darvi tutto gratis”. Qualche anno dopo, don Primo Mazzolari, sulle pagine della rivista “Adesso”, sente il dovere di consolare pacifisti e neutralisti sostenendo che il Patto atlantico è, in quel momento storico, il “male minore”. Negli anni sessanta, prima con il pontificato di Giovanni XXIII e poi con quello di Paolo VI, la Chiesa apre ai problemi del sud del mondo e in particolare all’America Latina. Nell’enciclica “Populorum progressio”, del 26 marzo 1967, vengono denunciate con forza le dinamiche di sfruttamento dei paesi poveri e, come non manca di sottolineare la rivista dei gesuiti milanesi “Aggiornamenti sociali”, si ribadisce “che la Chiesa non si era sposata a nessun sistema, e soprattutto all’imperialismo internazionale del denaro”. La politica di potenza americana suscita in quegli anni vivaci reazioni: alcuni giovani dell’Università Cattolica del Sacro Cuore raccolgono nella primavera del 1967 più di mille firme per spingere il governo italiano a chiedere la sospensione immediata dei bombardamenti sul Vietnam. Le guerre ‘americane’ dei decenni successivi non hanno miglior fortuna nel giudizio di gran parte dell’opinione pubblica cattolica e ispirano le medesime prese di posizione, anche quando mirano a ristabilire il diritto internazionale oppure sono spinte dalla legittima difesa.

Antiamericanismo e fascismo
Le ragioni per cui il fascismo è profondamente antiamericano non sono così dissimili da quelle per cui, come abbiamo visto, lo è il mondo cattolico. Anche l’antiamericanismo fascista è in primis anticapitalismo, declinato ad esempio attraverso la contrapposizione dei mercanti ai guerrieri, dell’oro al sangue, della plutocrazia all’aristocrazia. Il dio dell’America è il vitello d’oro, scrive Cornelio di Marzio nel 1930: gli Stati Uniti sono un paese che non possiede né razza né stirpe né storia, ma soltanto ricchezza, una ricchezza oltretutto che è una maschera per nascondere una miseria estrema, una disoccupazione crescente, un divario fra le classi impressionante. Vittorio Profumi, nel 1934, ricostruisce idealmente la storia dell’America, dall’anno della sua scoperta in poi, ponendola tutta sotto il segno dell’oro: “L’America nacque con le stigmate incancellabili della materialità e dello spirito di adattamento… Tutto quello che c’era da apprendere dall’Europa fu appreso e subito degenerò… Il capitalismo, fra gente che non aveva altra mira che il guadagno, raggiunse l’apogeo del proprio sviluppo… Niente spiritualità, niente idealismi!… L’utilitarismo è il volto del Nordamerica… Tutto era il dollaro”. Due anni dopo, nel 1936, Roberto Farinacci ribadisce il concetto sostenendo che gli Stati Uniti sono un paese in cui “solo Dio e sola morale è il dollaro”. Nel 1941, Giuseppe Bottai afferma che si sta combattendo la guerra del sangue (Italia) contro l’oro (Inghilterra e America): “Sangue delle nazioni proletarie, sangue di emigranti sparsi per tutte le strade del mondo a vantaggio di tutte le plutocrazie; sangue di italiani contro l’oro dei beati possidenti, dei trafficanti di carne bianca, degli schiavisti umanitari…Oro contro sangue e sangue contro oro”. E la democrazia americana, tanto esaltata e portata ad esempio, è considerata dal pensiero fascista una demoplutocrazia, cioè nient’altro che una copertura del capitalismo, una copertura, per essere più precisi, del potere di fatto delle sessanta famiglie cui si deve il controllo non solo dell’economia, ma anche della stampa, dell’istruzione, della politica.

“L’America rappresenta…la più spietata dittatura dell’ultima fase del processo borghese: del capitale…Quella che sembra una fase di sviluppata civiltà, cioè l’antigerarchismo e la perfetta uguaglianza di tutti i cittadini, favorisce solamente il nascosto predominio degli interessi finanziari che hanno miglior giuoco in uno Stato con pochissime sfumature sociali, che non possiede cioè gangli interni intorno a cui enucleare sistemi unitari o resistenze di masse”. E’ curioso sottolineare, a questo proposito, come la critica fascista alle liberaldemocrazie utilizzi le stesse categorie dell’analisi marxista, cioè parli del sistema capitalistico come di un regime, dell’oppressione del lavoro, di imposizione del consumo, ecc. E arrivi a sostenere, rubando la scena e le parole al nemico di sempre, che il mondo è diviso fra nazioni plutocratiche e nazioni proletarie, in conseguenza del fatto che la lotta di classe da problema interno a ogni singolo Stato è diventata la questione più scottante a livello internazionale. Ancora nel 1941, Francesco Coppola, con una invettiva di straordinaria vis polemica, riassume i motivi classici dell’antiamericanismo, fascista e non: “L’America di Wilson e di Roosevelt, ricchissima, imbarazzata anzi dalla propria ricchezza, plutocratica e dottrinaria, mercantile e fanatica, cinica e puerile, orgogliosa di una potenza tanto più facilmente reputata formidabile in quanto non mai seriamente provata in un capitale cimento; naturalmente indotta dalla inesperienza storica, dalla iniziale atavica infatuazione puritana, dalla facilità della vita e del progresso meccanico, e dalla interessata adulazione altrui, nella più infantile e pedantesca presunzione; tenacemente persuasa di essere il nuovo popolo eletto, il paradigma e l’arbitro predestinato della civiltà democratica e della morale politica mondiale, il giudice di suprema istanza di una storia in cui da così poco tempo è entrata e che in grandissima parte ignora”.

Il contrasto tra le Weltanschauungen fascista e americana non poteva essere più netto. Agli artefici di una rivoluzione sociale populista e antidemocratica, antieconomicistica e antiborghese non può di certo andare a genio una civiltà che fa della democrazia, del liberalismo e del capitalismo i suoi connotati essenziali. Per i sostenitori dello Stato etico hegelo-gentiliano l’individualismo non può che essere egoistico e foriero di disordine sociale. Ai costruttori di un’umanità nuova, che ami “vivere pericolosamente” e sia “fortissima”, sappia vivere con poco e sia sempre pronta ai sacrifici e agli eroismi, coltivi lo spirito e la creatività, non può non spaventare la suggestione che esercita un mondo in cui, al contrario, si esaltano il comfort e la mollezza, il lusso e la massificazione, il materialismo e il macchinismo. L’eredità fascista è tuttora incompatibile con l’atlantismo. “E’ l’eredità ideale dei fautori della comunità organica, contrapposta alla società degli individui, che non soltanto ha alimentato il fascismo storico ma continua a nutrire tutte le correnti della destra: da quella vecchia, monarchica e tradizionalista, a quella nuova, ecologica, “glocalistica”, anticonsumista…Nell’immaginario di consistenti settori della destra (cattolica o ‘ghibellina’), gli Stati Uniti sono, ancora oggi, la grande minaccia, la cloaca destinata a inghiottire i monumenti e i valori trasmessici dagli antichi. Per l’ultimo Julius Evola, del resto, nulla era più repellente di una cantante nera di jazz e nulla mostrava meglio la degenerazione del genere umano e la sua ciclica decadenza”.

Antiamericanismo e comunismo
L’ideologia comunista, com’è noto, ha le sue radici nell’anticapitalismo marxiano. Il filosofo di Treviri, infatti, dopo aver studiato il sistema capitalistico, smontandolo e ricomponendolo, si convince che esso è fondato sullo sfruttamento, poiché i lavoratori, che vengono considerati una merce come un’altra, ricevono un salario sufficiente solo per rimanere in vita, lavorare e generare, cioè per mantenersi come forza-lavoro, sebbene con il sudore della loro fronte creino Dailyvalore e quindi profitto per il capitalista. Ai tempi di Marx, la società capitalistica per eccellenza è l’Inghilterra, che ha bruciato gli altri Stati sul tempo e già da parecchio si è data stabilità politica e industrializzazione diffusa. E’ l’Inghilterra, allora, nell’Ottocento, la patria delle ingiustizie e il luogo che per primo dovrebbe vedere l’implosione del capitalismo, distrutto dalle stesse forze che ne hanno fatto la fortuna. Nel Novecento, il primato economico, e tutto ciò che esso comporta agli occhi dei comunisti, passa agli Stati Uniti d’America, che diventano nel volgere di qualche decennio il regno del mercato, la società dei consumi, del profitto e, quindi, l’ “impero del Male”. Per di più essi si candidano “sin dalla nascita della sfida comunista, a rappresentare la strada alternativa a quella russa per l’emancipazione sociale: l’americanismo come l’ideologia democratica alternativa al comunismo, Woodrow Wilson come il leader ‘internazionalista alternativo a Vladimir Ilic Lenin. La lunga guerra fredda degli ultimi cinquant’anni non ha fatto altro che cristallizzare la repulsione…per l’America. Quest’ultima è stata vissuta come il capo-bastone di un’alleanza anticomunista, la cui finalità era quella …di imporre al mondo sia il dominio del mercato (capitalistico) che l’ipocrisia della plutocrazia democratica”.

Nel giugno 1927, la rivista teorica del PCI, “Lo Stato operaio”, scrive che il caso Sacco e Vanzetti, i due anarchici italiani giustiziati proprio quell’anno negli Stati Uniti, è l’ennesima riprova che la “legalità democratica” è solo illusoria, ribadendo l’incompatibilità fra capitalismo e vera democrazia. La stessa rivista, nel maggio 1931, cioè in piena depressione, sostiene, in un articolo dal titolo Qualche appunto sulla crisi americana, che il capitalismo americano avrebbe i giorni contati, tipica tesi della vulgata terzinternazionalista. Nel numero di agosto del 1932 si legge che non si danno ragioni per preferire, a proposito delle elezioni presidenziali statunitensi, Roosevelt a Hoover e, un anno dopo, il primo è addirittura considerato un socialfascista.

Fra il 1944 e il 1947, la percezione degli Stati Uniti da parte del PCI è estremamente ondivaga: da una sottovalutazione dell’importanza che va via via assumendo la potenza d’oltreoceano si passa, nell’immediato dopoguerra e in contrapposizione con le scelte politiche del nuovo presidente Truman, a una rivalutazione dell’amministrazione Roosevelt, per arrivare, con l’acuirsi della guerra fredda, a identificare gli Stati Uniti con il nemico tout court. Nel 1944, mentre l’Italia è ancora divisa in due, il PCI riconosce che Stati Uniti e Gran Bretagna, nonostante siano paesi capitalisti, sono governati “in modo democratico”, anche se non si manca di osservare, in linea con le posizioni della Questione ebraica di Marx, che il liberalismo si ferma agli aspetti ‘formali’ della democrazia senza curarsi di quelli ‘sostanziali’. Due anni dopo, i toni nei confronti del vecchio alleato si inaspriscono: “Nessuno ha proposto – si legge su “Rinascita” – e nessuno pensa a proporre che l’Italia entri in un blocco di paesi diretti dall’Unione Sovietica…E, invece,…sfacciatamente, da parte di agenti di cricche imperialistiche straniere, si agisce per fare del nostro paese…un piccolo botolo ringhioso tenuto alla catena, per fame o con altri mezzi, da coloro che sognano, come il signor Truman, la crociata dei capitalisti o degli imperialisti contro il paese del socialismo”. I giudizi letterari seguono a ruota quelli politici. Mario Alicata, sempre nel 1946, attacca Vittorini, reo niente meno che di critiche favorevoli nei confronti di Hemingway e Reed. Anche Pavese, che pure non ha mai nascosto certe sue simpatie, fa marcia indietro e scrive su “L’Unità” del 10 agosto 1947: “Ad essere sinceri…ci pare che la cultura americana abbia perduto il magistero, quel suo ingenuo e sagace furore che la metteva a l’avanguardia del nostro mondo intellettuale. Né si può non notare che ciò coincide con la fine…della lotta antifascista”. Il 1947 è l’anno in cui si rompe l’alleanza antihitleriana. Un anno cruciale. Un anno di svolta delle relazioni internazionali. E’ l’anno della dottrina Truman e del piano Marshall. E’ l’anno, per l’Italia, del viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti, della scissione socialista, della cacciata delle sinistre dal governo De Gasperi. E’ l’anno in cui il PCI, soprattutto dopo la nascita del Cominform nel settembre, capisce che deve adeguarsi alla logica dei blocchi e allinearsi pertanto alle posizioni sovietiche.

Negli anni cinquanta, gli Stati Uniti diventano il nemico giurato, il grande antagonista. Sul settimanale “Vie Nuove” vengono dipinti, fedelmente al credo zdanoviano, come una civiltà senza futuro, prossima al collasso, un paese nelle mani sporche di un’oligarchia di generali, banchieri, industriali e razzisti, il cui obiettivo prioritario è impedire che le legittime aspirazioni alla libertà e all’indipendenza nazionale dei paesi occidentali facciano il loro corso. Nel decennio successivo, la crisi del Vietnam viene sfruttata appieno dal PCI, e dagli altri partiti comunisti occidentali, per porsi alla testa di imponenti raduni di massa in funzione antiamericana. La lettura degli eventi è la solita, quella leninista della crisi dell’imperialismo per intenderci. Il Vietnam, perciò, è considerato l’agonia della potenza yankee, del sistema capitalistico più forte dell’Occidente. Fino alla caduta del muro di Berlino, il giudizio del PCI sugli Stati Uniti non cambia, sebbene acquisti sfumature diverse per i tempi diversi. Negli anni seguenti, l’ex PCI riconsidera la sua posizione sull’unica superpotenza rimasta sulla scena, anche se non riesce a tirarsi dietro il mondo da cui si è da poco allontanato. Durante la guerra del Golfo, Luigi Pintor scrive su “Il Manifesto” del 16 febbraio 1991 che l’ “America ha molti ammiratori e molti servi, ma pochi amici” e aggiunge che “il senso di onnipotenza e la volontà di annientamento fanno parte della subcultura americana, sono il lato negativo della storia nazionale e imperiale di quella democrazia”. Michele Serra, su “Panorama” del 10 marzo 1991, si scaglia contro l’arroganza che gli americani esibiscono nella gestione del conflitto: “Per questo l’America, e la convinzione dell’America di rappresentare il Regno del Giusto, mi fa paura come qualsiasi attribuzione di pieni poteri a un’ideologia o a un sistema culturale. Se manifestare questo timore è “antiamericanismo”, pazienza”. In occasione della guerra del Kosovo e di quella contro il terrorismo islamico le difficoltà del mondo comunista ed ex comunista nell’allinearsi alla politica del vecchio nemico sono state confermate e hanno portato ai comportamenti più lontani tra loro.

Conclusione
Alla luce della ricostruzione storica e ideologica che ho presentato dell’antiamericanismo italiano, si può concludere che la categoria presa in esame sia la cartina di tornasole del deficit di liberalismo, e dei valori a esso consustanziali, che caratterizza il nostro paese da sempre e che nel Novecento ha assunto forme ancora più imbarazzanti. L’auspicio è che l’attenzione per il mondo americano, che certi settori politici e intellettuali hanno manifestato in seguito ai tragici fatti recenti, trovi respiro nella formazione di un’autentica cultura liberale. Il timore, invece, è che oggi “siamo tutti americani” come oramai “siamo tutti liberali”.

24 maggio 2002