Economia e demografia: perché lo straniero fa paura
intervista a Michele Bagella di Cristiana Vivenzio

“Esiste un’altra faccia dell’immigrazione oltre a quella della criminalità e della prostituzione enfatizzata dai media. E’ la faccia dei lavoratori extra comunitari presenti nei bar negli alberghi e nei servizi, delle collaboratrici domestiche, e di coloro che prestano assistenza alle famiglie, agli anziani. E’ certamente la faccia più rassicurante, ma probabilmente è anche quella che più direttamente ha influito e continua a influire – vedi Francia, Olanda e Norvegia per citare i casi più noti- sui cambiamenti degli equilibri politici dei paesi europei ai quali stiamo assistendo. Questo tipo di immigrazione incide sulla offerta di lavoro domestica più debole: il lavoro dei piccoli artigiani, il lavoro dipendente nei servizi e nelle piccole o micro imprese prestato a paghe molto basse rispetto a quelle locali. E’ questa la concorrenza con cui realmente deve fare i conti il ceto piccolo borghese dei vari paesi europei , ed è da qui che inizia la sua tendenza a sentirsi minacciato e ad arroccarsi ultimamente su posizioni di netta chiusura. Se questo quadro ha una sua fondatezza, ciò significa che l’Europa deve fare attenzione al cambiamento strutturale della sua popolazione attiva”. Michele Bagella, professore di Economia monetaria presso la facoltà di Economia di Roma Tor Vergata non ha dubbi, il problema immigrazione non è certamente solo politico. “Forse ancor più incidenti nell’analisi del fenomeno sono le implicazioni economiche che esso produce. Certamente, i paesi europei non possono trascurare i benefici che derivano dalla presenza di forza lavoro a basso costo, ma rimane il problema della sua regolamentazione, del sommerso, degli afflussi degli immigrati compatibili con la domanda di lavoro”.

Eppure sono sempre più frequenti episodi di chiusura da parte della popolazione, e questo sembra fare il successo dei gruppi politici più estremi…

Il fenomeno Le Pen in Francia può essere interpretato come un atteggiamento di protesta soprattutto di questo ceto sociale. Non sono solo le campagne ad averlo votato ma anche le grandi città e le loro periferie, in passato più vicine ai partiti di sinistra da cui si sentivano protette, e che ora invece si sentono se non abbandonate di certo trascurate.

E questo, professore, che cosa comporta dal punto di vista economico e delle politiche per l’immigrazione?

Comporta la consapevolezza che la nostra offerta di lavoro va integrata con quella proveniente da altre parti del mondo. L’immigrazione è per l’Europa una necessità. Non a caso gli Stati Uniti sono divenuti il colosso economico che sono, anche grazie ad un’attenta politica di immigrazione e di integrazione produttiva e sociale. Ma il problema non è così semplice da risolvere, né di poco conto perché non si possono trascurare le conseguenze sociali di questo processo. Serve un adeguamento di sanità, scuola e assistenza in generale analogo a quella garantito per i lavoratori domestici in modo da evitare che vi siano cittadini di serie “A” e di serie”B”. E tutto questo costa.

Soprattutto oggi, in cui l’elevato tasso tecnologico ha da una parte aumentato il livello della produttività, ma dall’altro diminuito il numero degli addetti all’industria…

Questo è un elemento che aiuta a capire ciò che sta accadendo. L’aumento della produttività dei paesi industrializzati indotta dalla forte innovazione tecnologica è stato accompagnato da una sostanziale ristrutturazione dell’organizzazione interna delle aziende: da un’organizzazione di tipo fordista si è passati ad una organizzazione a rete. Non è più la scala di produzione a contribuire all’aumento della produttività ma l’organizzazione per competenze, in cui spesso le aziende preferiscono adottare una politica di outsourcing, affidando a società di servizio esterne l’esercizio di certe funzioni. Cresce così il numero delle imprese dove aumenta l’occupazione, mentre diminuisce nella grande fabbrica l’apporto storico della classe operaia.

L’aumento del livello della produttività ha prodotto un aumento nella disponibilità di beni e un aumento della mobilità sociale. Ma quali strati sono rimasti principalmente coinvolti in questo fenomeno?

Come ho detto è soprattutto la piccola borghesia cittadina, che lavora nei servizi a sentirne principalmente il peso e che cerca di reagire rispondendo con scelte politiche estreme, senza rendersi conto che la globalizzazione, prima ancora di essere determinata dalle scelte politiche di liberalizzazione, è determinata dallo sviluppo della tecnologia dei trasporti e della comunicazione. Non è con la chiusura, con il protezionismo e con la demonizzazione dell’estraneo che si cambiano queste tendenze. C’è bisogno di politiche di regolamentazione dell’accesso e di integrazione sociale, che rassicurino soprattutto i cittadini più esposti.

10 maggio 2002

c.vivenzio@libero.it