“Competizione e solidarietà, binomio indissolubile”
intervista a Paolo Del Debbio di Cristiana Vivenzio


Global non è l’ennesimo libro sulla globalizzazione. Non cavalca i luoghi comuni, più o meno validi, della protesta no global, non attacca indiscriminatamente i centri di potere dell’economia globale, né esalta una visione neo-liberista dell’ordine economico globale. Questo è un libro – come afferma Paolo Del Debbio – in cui vengono prese le difese della globalizzazione. Una linea che, almeno nella pubblicistica più ricorrente, appare controcorrente. Questo vuol dire che la globalizzazione non rappresenta il demonio del terzo millennio? E che le proteste che da Seattle a Barcellona hanno direttamente investito questo processo non hanno alcun fondamento? “Certamente le proteste contro l’economia globale hanno un loro reale fondamento – afferma Paolo Del Debbio. E il fondamento è costituito dall’innegabile valore delle cause di cui si prendono le difese. Ma io credo che non si possa risolvere il problema, come vorrebbero i no global, estirpando il male alla radice, interrompendo questo processo irreversibile. Pensiamo alla globalizzazione come ad una macchina in cui l’economia di mercato è il motore e la politica il volante. Si pretende di curare gli effetti negativi del transito togliendo di mezzo la macchina, senza comprendere che in questo modo si ferma lo sviluppo”.

Eppure qualcosa è realmente cambiato dopo l’11 settembre. Certamente l’idea che da quel momento in poi non è più possibile un pensiero unico della globalizzazione…

L’11 settembre ha confermato l’idea di fondo che pur accantonando, anche solo per un momento, qualsiasi logica filantropica e pensando in modo esclusivamente utilitaristico, nessuna potenza può più occuparsi dello sviluppo del proprio paese senza tener conto dello scenario globale: questo significa risolvere innanzi tutto il problema dalla povertà, e dello sviluppo dei paesi sottosviluppati. Poche cose come il crollo delle Torri gemelle avrebbe potuto far sentire il mondo come il mondo di tutti, e renderci coscienti di quanto la sorte degli uni sia legata profondamente alla sorte degli altri. E poche cose ci avrebbero potuto far individuare oggi quello che, vedendole crollare, abbiamo intuito come un cammino che dobbiamo seguire. Costruire il presente e il futuro con la consapevolezza che ogni singolo componente di questa avventura comune (Nord e Sud, mercato e tutela dei poveri, competizione e cooperazione) non può avere un futuro se ritiene di poter rimanere sulla scena da sola. Il valore della competizione oggi non può essere considerato se non affiancato da un altro valore: la solidarietà.

E allora, scendendo sul piano pratico, quali sono i possibili rimedi ai rischi di una globalizzazione senza regole?

Il problema è principalmente politico, e investe gli aspetti più pratici. Si dice: c’è un problema di violazione dei labour standard. Vero: il problema è rafforzare l’organizzazione internazionale del lavoro, non bloccare il mercato del lavoro. Si dice ancora: c’è un problema di concorrenza. La soluzione non è certo abolire la concorrenza, ma dare vita ad unità antitrust nazionali, là dove non esistono. Questo, però, significa non solo fornire a quei paesi in cui si va ad operare un aiuto monetario. Significa, soprattutto, fornire loro un aiuto tecnico. Altrimenti, rischiamo di incorrere negli stessi errori del passato. Lo sviluppo e la ricchezza non sono una torta da dividere. Ma da cucinare.

Nel suo libro lei parla anche della riforma del welfare, come uno dei modi per moltiplicare i benefici della globalizzazione. In che modo procedere sulla strada delle politiche sociali senza sottrarre risorse al processo di sviluppo?

Bisogna evitare di commettere gli errori del passato, soprattutto in Italia. Lo stato sociale non è stato altro se non un meccanismo di ottenimento del consenso da parte delle classi politiche, attraverso l’elargizione di risorse. Non si è badato in alcun modo a risolvere questioni reali, preferendo, piuttosto mettere in atto sistemi universalistici, che andavano bene per tutti o che funzionavano perfettamente in condizioni di stabilità. E questo significava sottrarre risorse allo sviluppo.

Allora, in quale direzione devono procedere gli attori del processo globale?

Bisogna fare in modo che nasca un ethos globale. Un’etica che si raggiunge quando si fissano degli obiettivi comuni, un quadro entro cui camminare costituito da valori condivisi. E questa è la direzione verso cui dobbiamo dirigerci.

25 aprile 2002

c.vivenzio@libero.it