Perché la globalizzazione ci fa bene
di Cristiana Vivenzio
Mentre ci s’interroga sui nuovi scenari globali dopo l’11 settembre e si
prefigura un nuovo ordine internazionale; mentre si parla di
globalizzazione come l’ultima delle ideologie dell’Occidente,
contrapposta alla frammentazione del sistema non globale; mentre si
prende atto dell’assoluta indecifrabilità di un pensiero unico sulla
globalizzazione e s’incrina definitivamente quell’idea che lega la
globalizzazione ad una visione esclusivamente economica di questo
processo; mentre si moltiplicano gli interrogativi per cercare di
spiegare un fenomeno in corso e i tentativi di ovviare ai mali di una
globalizzazione senza regole, Paolo Del Debbio – docente di Etica
sociale e dei media allo Iulm di Milano ed editorialista del Giornale –
scrive: “Global. Perché la globalizzazione ci fa bene”. Un’analisi
“sì-global” che affronta questo tema, tanto demonizzato quanto esaltato,
partendo dall’assunto fondamentale che dalla globalizzazione non si
torna indietro.
Se globalizzazione significa interdipendenza – prima economica,
commerciale e finanziaria poi dell’informazione – questa interdipendenza
ha anche posto le basi “per una certa omogeneizzazione culturale, che
parte dalla cultura popolare e dai consumi”. Del resto, alcuni studi
analitici sull’argomento, condotti da gruppi di ricerca americani e
riproposti dall’autore, hanno dimostrato che tanto più alto è il tasso
di globalizzazione di un paese, tanto maggiori sono stati i tassi di
crescita di quel paese. E, sebbene la maggior globalizzazione accresca
anche il divario nella distribuzione del reddito, il beneficio derivante
dalla crescita ha sostanzialmente fatto migliorare le condizioni di vita
dei più poveri del mondo. Insomma, conclude Del Debbio, la
globalizzazione può essere un’opportunità per tutti. Ad avvalorare tutto
ciò un altro dato: anche in quei paesi investiti dalla globalizzazione
in cui si sono verificati i maggiori problemi di esclusione sociale ed
economica di fasce di popolazione, si è rilevato che quell’esclusione è
stata dovuta “più all’impreparazione dei destinatari (gli stati
nazionali) che non alla globalizzazione in se stessa”.
Eppure, gli argomenti di protesta portati avanti dai no global, che
hanno fatto dell’opposizione ad un pensiero unico, a loro volta,
un’altra forma di pensiero unico, rimarcano un problema universalmente
riconosciuto, che, in definitiva, è rappresentato dall’ampiezza dello
spazio che separa globalizzazione e politica. Là dove finiscono le
competenze direttamente attribuibili all’economia di mercato deve
intervenire la politica: reti di protezione sociale, tutela e garanzia
dei beni pubblici, riconoscimento dei diritti dei lavoratori, tutela
ambientale, salvaguardia del patrimonio culturale locale. Un’analisi,
questa, che Del Debbio conduce di pari passo con la riflessione che
negli ultimi tempi ha investito la riforma dello stato sociale. Allo
stato, quindi, il compito di favorire quanto più possibile la
partecipazione dei cittadini alla competizione del mercato; allo stato
il compito di assicurare la “copertura universale delle esigenze minime
e offrire ciò che è necessario perché tutti possano essere messi in
grado di entrare a pieno nella competizione della vita”; allo stato il
compito di creare pari opportunità; il compito di favorire e sostenere
le reti di solidarietà sociale. La risposta ai mali della
globalizzazione può essere rintracciata nella ricerca in un principio
etico globale che superi le facili strumentalizzazioni dell’universo
no-global, e affermi un governo della globalizzazione nella libertà, in
cui non venga meno l’individualità degli stati-nazione.
25 aprile 2002
c.vivenzio@libero.it
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