Il tramonto dello stato nazione e l'etica della società aperta
di Massimo Lo Cicero


Paolo Del Debbio ha pubblicato un interessante volume dedicato agli effetti positivi della globalizzazione ed al rapporto tra etica e capitalismo: che rappresenta la tensione morale che innesca la relazione virtuosa tra la globalizzazione ed il progresso. La globalizzazione, insomma, rientra nel percorso, random walking, che l’umanità segue nella ricerca di una migliore convivenza con se stessa e non è l’ennesimo “piano del capitale monopolistico” per dannare gli individui, opprimendoli in nome e per conto della potenza estranea del denaro. E’ interessante che in un volume, che non è dedicato agli specialisti ma si rivolge ad un largo pubblico, si prenda coraggiosamente posizione su una questione così delicata: ma è anche utile presentare qualche ragionamento che ci consenta di allargare ulteriormente le tesi proposte dalla coraggiosa scelta di campo di Del Debbio.

Il mondo in cui viviamo porta ancora i segni delle ferite e delle lacerazioni di due guerre mondiali, scatenate dai conflitti tra europei, e di una lunga estenuante stagione di guerra fredda. Ma è anche un mondo che somiglia sempre di più ad una “società aperta”: un ordine sociale capace di assorbire e tollerare le novità e le differenze, che provengono dall’esterno delle strutture costituite, e di essere, nel medesimo tempo, una organizzazione continente. Una organizzazione che contiene e trattiene gli individui, alla quale si aderisce per scelta e perché essa ci appare come un sistema in cui la nostra libertà di azione viene completata ed implementata dalle opportunità che ci offrono il dialogo e lo scambio con gli altri. Le società chiuse ed autoritarie, al contrario, sono intolleranti, impermeabili ed incontinenti: non capiscono la diversità, non accettano lo scambio e perdono consenso progressivamente. Gli individui, in mancanza di meglio, votano con i piedi e le abbandonano al loro destino migrando verso mondi più tolleranti ed ospitali. Per condividere questo giudizio bisogna essere convinti di una cosa: del fatto che il linguaggio, cioè la conversazione, e lo scambio, di ogni altro valore che non sia solo la conoscenza, sono le basi fisiologiche dell’incontro tra gli individui e della esistenza della comunità.

Se si accetta questo punto di vista, fino in fondo, si capisce anche che il potere gerarchico delle imprese, il regime dei contratti e l’esistenza di autorità che aiutino il mercato ad evitare i propri fallimenti sono tutte e tre costruzioni intellettuali, o meglio esperimenti sociali, che consentono al progresso ed allo sviluppo economico di manifestare i suoi effetti positivi. La globalizzazione, vista da un economista, è un passo positivo, in quel random walking dell’umanità alla ricerca del proprio destino, perché si fonda proprio sulla generalizzazione condivisa di questi tre principi: la utilità sociale dell’impresa, la necessita di temperare il potere dell’impresa con mercati competitivi, la necessaria presenza di un regime giuridico che dia sicurezza e legittimità agli scambi. Il vero sconfitto dal processo di globalizzazione è lo Stato Nazionale, nella sua lunga esperienza europea: lo stato che ha preteso di dominare il mercato con la forza, che ha trasformato la rappresentanza democratica in un delirio di onnipotenza della politica, che ha tentato di organizzare una colossale ridistribuzione delle modalità di uso della ricchezza, garantendo dalla culla alla tomba i propri cittadini.

E’ questa organizzazione che oggi deve dichiarare fallimento ed è l’assenza di una soluzione condivisa, capace di sostituire la presenza, opprimente e rassicurante insieme, dello Stato, che genera incertezza ed insicurezza in tutti quelli che si sentono minacciati da un ordinamento sociale troppo flessibile e permeabile. L’etica, come spinta ai valori di solidarietà e sussidiarietà tra deboli e forza, c’entra ma fino ad un certo punto con un simile processo. E’ evidente che esiste una spinta etica nel tentativo di dare vita a numerose organizzazioni non governative che, al posto dello Stato, danno vita ad un vero e proprio mercato dei beni pubblici, dalla sanità all’istruzione. E’ evidente che esiste un trade off drammatico tra la durezza dell’efficienza, realizzata dalla morsa della competizione, e la esigenza di condividere, anche con coloro che quella durezza non reggono, i vantaggi di una maggiore ricchezza. Resta aperto un problema di ridistribuzione ma resta aperta anche la crisi dello Stato che pretendeva il monopolio della fiscalità e non sapeva utilizzare le risorse, sottratte alla comunità, per soddisfare quei bisogni che le imprese e la regolamentazione dei mercati non riuscivano a coprire. Non è un caso, del resto, che la globalizzazione non sia interpretata, né da Del Debbio né da altri studiosi contemporanei, come l’effetto di una traiettoria lineare e progressiva.

Tra la prima stagione globale, quella del trapasso tra ottocento e novecento, e la nostra attuale esperienza c’è un secolo di ripiegamento autarchico delle nazioni, di aggressività e violenza reciproca, di mortificazione dei diritti individuali. E cè il fantasma di un paradigma intellettuale ancora troppo diffuso. Che il mercato sia solo un fantasma dietro il quale si cela il potere delle imprese che è lo strumento dei capitalisti: anzi del capitale, strumento alienato del quale sarebbero i singoli individui che sono capitalisti, appunto. Questo schema mentale mortifica il valore della responsabilità individuale e rende tutti schiavi di un destino prefigurato, anche quelli che dovrebbero tracciare il destino degli altri e sono solo lo strumento di una potenza estranea anche a loro stessi. La diffusione della globalizzazione, cioè la facilità degli scambio e degli incroci tra culture diverse, che non è compiuta ma che avanza giorno dopo giorno, è un valore da conservare: che cambia, con il suo solo manifestarsi, anche il modo di pensare e di agire di coloro che dicono di contrastarla. Il movimento no global è tipicamente globale ed usa gli strumenti della comunicazione e dello scambio in un grande mercato della conoscenza e dei risultati condivisi.

Ma proprio questa evidenza potrebbe farci tornare ad un'altra e pericolosa forma di fatalismo: alla convinzione che la globalizzazione sia cosa fatta. Non è così: la tolleranza e l’integrazione restano una tensione che bisogna alimentare e nutrire. Una modalità di relazione sociale da reinterpretare ed inventare quotidianamente. Ed il libro di Del Debbio è un utile contributo a questo processo collettivo di apprendimento sui vantaggi dello scambio reciproco: l’unico vero cemento sociale che l’uomo abbia mai sperimentato con successo effettivo.

25 aprile 2002

maloci@tin.it