Dopo le Torri gemelle. Chi può evitare la Torre
di Babele
di Paolo Del Debbio
La globalizzazione non significa né la fine della politica, né la fine
dello stato-nazione. Anzi, proprio perché supera il fondamento dello
stato-nazione, un territorio geograficamente determinato sul quale esso
esercita la propria sovranità, la globalizzazione apre un tempo nel
quale la politica torna centrale. Non è finito un modello. Serve che
esso si adatti a una realtà che pur travalicando i propri confini ha
effetti anche al loro interno: la globalizzazione, appunto. Questo
problema era anteriore ai fatti di New York dell'11 settembre del 2001.
Ma il crollo delle Twin Towers e l'attentato al Pentagono lo hanno reso
ancora più grande. Anche perché, come scrive Angelo Panebianco:
la globalizzazione richiedeva e richiede la pace. La globalizzazione,
che ha avuto il suo epicentro nel mondo occidentale, può essere
considerata come la proiezione esterna della società aperta (in senso
popperiano). E la società aperta è tale, e resta tale, se e finché non
insorgono sfide devastanti alla sua sicurezza ... e poiché le società
aperte, per restare tali, necessitano di condizioni interne e esterne di
sicurezza, l'insorgenza di una sfida bellica può compromettere l'intero
processo: il grado di apertura della società, inevitabilmente, si
riduce, e la spinta alla proiezione esterna, per conseguenza, si smorza.
Qui si tratta del tema della sicurezza che, pur essendo importante,
resta pur tuttavia uno dei temi. Ma ciò che è interessante è il legame
tra questo tema e tutti gli altri e, soprattutto, la necessità di
ripensare, anche in questo caso, lo stato nazionale in un rapporto
cooperativo con gli altri stati e istituzioni internazionali. In altre
parole, la sovranità non può essere più quella di prima o, meglio, solo
quella di prima. Ma la sovranità della politica sui fenomeni di varia
natura che porta con sé il mondo globale è assolutamente necessaria e
insostituibile: necessaria perché insostituibile.
Abbiamo disegnato un circolo che parte dalla rilettura di alcune regole
comuni, prevede un presidio locale per la sua applicazione e vigilanza e
presuppone, inoltre, la cessione di parti di sovranità, bilanciata dal
fatto che, laddove non si riesca ad applicare le regole comuni, si possa
chiedere un intervento sussidiario. Tutto questo significa ridisegnare
le relazioni tra istituzioni nell'epoca globale e dovendolo fare in un
tempo dove l'egemonia non è più patrimonio di alcuno (o di vari che se
la sono spartita), occorre farlo attraverso un processo di accordi
comuni allargato a più soggetti istituzionali possibili, tendenzialmente
tutti quelli interessati, a diverso titolo, al processo, o anche solo
agli effetti, della globalizzazione. Da qualche parte viene invocata
un’azione dell'Europa per dare il via a tutto ciò. Crediamo che sia
necessaria una dose forte di realismo: si può veramente pensare che
l'Europa, oggi, possa assumere questa iniziativa di ridisegno del
governo del mondo quando, a stento, sta tentando di ridisegnare se
stessa?
Se non c'è l'egemonia c'è un'altra possibile alternativa. Si chiama
leadership. E la domanda è: c'è una possibile leadership globale, che
non siano gli Stati Uniti d'America, che possa dare l'avvio e spingere
perché il processo necessario di global governance giunga a compimento?
Questa leadership gli Stati Uniti l'hanno già esercitata un'altra volta
garantendo la cosiddetta Pax Americana nel secondo dopoguerra. Ci fu un
accordo forte che determinò un ordinamento tra democrazie. Esso si
costituì attorno a quattro idee guida:
Un impegno fondamentale fu l'apertura economica
tra le regioni; cioè: il capitalismo sarebbe stato organizzato secondo
un'ottica internazionale e non secondo linee nazionali, regionali o
imperiali ... il capitalismo doveva essere organizzato su base globale.
Negli anni Quaranta funzionari americani di varia estrazione associarono
l'interesse nazionale con l'apertura economica ... la prosperità
americana a lunga scadenza richiedeva mercati aperti, accesso senza
impedimenti alle materie prime e la conversione di parte dell'Eurasia se
non di tutta a linee capitaliste liberali. Accesso a risorse e mercati,
stabilità socioeconomica, pluralismo politico e interessi di sicurezza
americani erano legati tra loro. I funzionari americani sostennero che
un sistema aperto era essenziale per la stabilità dell'ordinamento
politico mondiale, impedendo rivalità economiche dannose, protezionismo
e blocchi commerciali discriminanti che erano stati all'origine della
Depressione e della guerra negli anni Trenta.
Questa la prima idea guida. Che evidentemente è valida anche oggi. La
seconda idea guida era che “le nuove disposizioni dovevano essere
gestite tramite istituzioni e accordi internazionali. La creazione del
sistema non sarebbe stata sufficiente ... Si dovevano inventare nuove
forme di cooperazione intergovernamentale”. La terza idea guida
riguardava la necessità di un nuovo patto sociale che “doveva stare alla
base del sistema democratico occidentale; questo per il messaggio che
Roosevelt e Churchill comunicarono al mondo con la Carta Atlantica del
1941 ... se i cittadini di questi paesi dovevano vivere in un'economia
mondiale più aperta, dunque i loro governi avrebbero contribuito a
stabilizzare e proteggere queste persone tramite lo stato sociale”. La
quarta idea guida indicava che “tutto l'Occidente doveva essere
salvaguardato da un sistema di sicurezza e cooperazione... Un sistema di
sicurezza basato sulla cooperazione incorporato in un’istituzione di
alleanza formale avrebbe reso il potere degli Stati Uniti più
prevedibile. Tale Potere sarebbe stato costretto entro istituzioni, così
da rendere la potenza americana più affidabile e vicina all'Europa e
all'Asia Orientale”. Questo ordinamento, nato grazie alla leadership
americana dopo il 1945, camminò sulle quattro gambe qui enunciate:
Un tale ordinamento emerse nei regni
dell'economia, della politica e della sicurezza. Negli anni Quaranta e
in seguito, i leader americani e le loro controparti europee e asiatiche
crearono un ordine condiviso basato su istituzione, impegni,
consuetudini e principi organizzativi che produssero un notevole
ordinamento politico.
La domanda centrale oggi è: possono gli USA, dopo il crollo delle Torri
gemelle, non assumere di nuovo questa leadership con forza e decisione?
In altri termini ancora: Possono pensare di mantenere la loro
(auspicabile per tutti) forza economica senza assumersi la
responsabilità di ridisegnare insieme agli altri le forme della
convivenza globale, sedendosi per primi al tavolo che deve tracciare le
linee di questa nuova figura dei rapporti internazionali per il mondo
del XXI secolo? E, rovesciando l'interrogativo in una versione che
potremmo definire utilitaristica, non è che questo farsi carico insieme
a tutti dell'urgenza della questione globale rappresenti l;unica via
certa e giusta. di favorire anche il permanere della loro, lo ripetiamo,
auspicabile da tutti, forza economica? Per il futuro si presenta lo
stesso insieme di problemi che si presentò dopo la Seconda guerra
mondiale. Ha scritto Robert Gilpin:
La premessa della strategia americana per il XXI
secolo deve essere che un'economia globale unificata rappresenta
l'interesse primario degli Stati Uniti sul piano economico come su
quello politico. Tale strategia deve riconoscere che il protezionismo e
il regionalismo mettono a repentaglio questo interesse … un’economia
mondiale unificata fa gli interessi politici, di sicurezza, oltre che
economici, degli Stati Uniti… La capacità e la volontà degli Stati Uniti
di continuare a dirigere il mondo nei decenni futuri sono in seria
discussione… Ciò nonostante, gli Stati Uniti restano l'unica nazione me
in grado di fornire leadership e di scongiurare i pericoli derivanti da
accordi regionali escludenti.
Cioè, accordi che tendono a chiudere in se stessi gli stati che ad essi
aderiscono. Sulle macerie delle Torri gemelle potrebbe anche rinascere
la torre di Babele e ci potremmo trovare nella situazione di un mondo
globale che, proprio nel momento in cui si lega nella sorte, si divide
sul senso da dare a questa destino comuni, in una serie di lingue
diverse e tra loro incomprensibili. La strada alternativa c'è. Bisogna
incamminarcisi, ma prima bisogna che qualcuno, in grado di farlo, apra
il cammino.
25 aprile 2002
(da Paolo
Del Debbio, "Global", Mondadori, Milano, pp. 208, € 16)
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