An tra politica e cultura
di Marcello Veneziani


Che rapporto c’è tra Alleanza nazionale e la cultura di destra? E’ la domanda che mi è stata rivolta dopo aver scritto il saggio dedicato a La cultura della destra uscito da Laterza. E’ anche l’occasione per provare su strada, calandola nella realtà di un partito alla vigilia di un congresso, le riflessioni sul rapporto tra cultura e politica nel presente e nel versante destro del nostro paese. Il clamore di un divorzio, con scambio di accuse tra la cultura e la politica a sinistra, esige che si guardi anche alla rive droite per scorgere analogie e differenze. Comincerei col dire che la simmetria tra le due situazioni non regge, per varie ragioni. La prima, e più evidente, è che non esiste un compiuto e ramificato ceto intellettuale di destra, non esiste la casta sacerdotale della cultura di destra, ma solo poche, disorganiche personalità. La seconda ragione è il diverso clima che si respira in una sinistra sconfitta e in una destra al governo: alla prima si può imputare di aver perso insieme sia la partita che la coerenza; alla seconda, al più, si potrebbe imputare di aver ottenuto la vittoria politica al prezzo del disarmo ideale. Ma la terza e decisiva differenza è che la cultura della destra non è un organigramma, un “Intellettuale collettivo” organico, non è un corpo militante di autori, testi e tesi; ma è una mentalità, una visione del mondo, una sensibilità diffusa e fluttuante. Per questo non si può stabilire un nesso causale tra cultura e politica, tra ragione intellettuale ed effetto strategico. La sinistra ha una vocazione al progetto intellettuale, la destra ha una tendenza al realismo decisionale; cultura per la sinistra è elaborazione teorica ad opera di un “Intellettuale collettivo”; cultura per la destra è una via di mezzo tra culto e coltivazione, ovvero tra fede (o mito) e concretezza, è un humus, una predisposizione. Sfaterei dunque un pregiudizio ancora resistente: che la destra abbia una vocazione elitaria e la sinistra una vocazione popolare. E’ più vero il contrario: la cultura popolare sorge più facilmente su tematiche per così dire “di destra”. Perché a destra trova più agevole spazio l’immaginario collettivo, il mito e il simbolo, la comunicazione diretta ed emotiva, il sentire comune tramandato nel tempo e confermato dall’esperienza, il senso della realtà. Cultura popolare vuol dire anche religione, tradizione e perfino televisione.

Per questo non mi aspetto che Alleanza nazionale sia una specie di braccio secolare della cultura di destra, che Fini sia la prosecuzione di Jünger con altri mezzi. Dico in questo caso cultura di destra e non mi riferisco al più vario humus culturale della destra. Non credo che tocchi ad un partito – che vuol far politica e non elaborazione teorica, che vuol governare e non testimoniare – il compito del revisionismo storico e culturale. Diciamolo chiaramente: An non è in grado o non è più in grado di garantire la rappresentanza di temi culturali, ideali, storici. E’ un partito, per giunta di governo; aderisce ad un sistema di alleanze interne e internazionali; non è un cenacolo, un ordine cavalleresco, un istituto di ricerca. An non è un partito ideologico. Non è sconfortante che la destra politica non rappresenti e non garantisca la cultura di destra, semmai può essere perfino positivo perché libera entrambi da un nesso innaturale, inibitorio e controproducente. Quel che sconforta è che non esistano altri luoghi in cui sia possibile ricercare, esprimere e rappresentare idee, istanze e culture di destra. Mi riferisco all’assenza di istituti culturali, di giornali, di riviste, di fondazioni, di cattedre universitarie, di reti televisive, di case di produzione che esprimano questi orientamenti o quantomeno li accolgano. Per fare un esempio estremo sul lato più scabroso e sul nervo più scoperto, a me sembra inevitabile che Fini ritiri i suoi giudizi su Mussolini come il maggior statista del Novecento. Non si può stare al governo, in Europa, nel 2002 e conservare integre quelle dichiarazioni che nascevano nell’epoca dei partiti ideologici, del Msi di opposizione eterna e di testimonianza perenne. Quel che dispiace non è la ritirata di Fini ma che non vi siano adeguate fonti storiografiche, accademie, mass-media, in grado di fondare storicamente e non apologeticamente un’affermazione di questo tipo, dimostrando che al di là del giudizio di valore, Mussolini fu realmente uno dei maggiori statisti del secolo (come Churchill, De Gaulle, come Stalin).

Certo, vi è un’indiretta responsabilità politica, una miopia strategica e perfino un corto respiro culturale nel non favorire la fioritura di un habitat, di un clima culturale di destra nel paese. Questa, semmai è la responsabilità della destra politica: di non aver favorito, alimentato, pensato lo sviluppo di quest’area culturale. Che avrebbe avuto una triplice utilità: far circolare argomenti, idee e uomini di destra nella società civile; costituire un laboratorio culturale ma anche professionale per la destra e per la selezione del suo personale politico; e compensare su un altro piano la perdita identitaria della destra che il realismo duttile della politica inevitabilmente comporta, incanalando, peraltro, il dibattito culturale in ambiti che ne scoraggiano il velleitarismo, l’estremismo, la semplificazione. Ma non si può pensare ad un’assunzione diretta di An del ruolo di imprenditore culturale, di committente ideologico, o peggio di braccio secolare della cultura di destra.

Sul piano delle culture politiche qual è il compito principale della destra? Direi quello di innestare la destra italiana nell’alveo delle destre europee. Le tradizioni culturali di centro-destra compatibili con l’Europa di oggi sono sostanzialmente tre: la tradizione conservatrice britannica, la tradizione cattolico-popolare ispano-tedesca, la tradizione nazional-presidenzialista francese. Thatcher, Kohl (e Aznar) e De Gaulle. Non si tratta di riconoscersi in una di queste tradizioni, ma di elaborare una propria linea che sia compatibile con queste tradizioni. In primo luogo bisogna liberarsi dal complesso di esprimere un’anomalia nel panorama europeo: non è vero che la destra italiana sia l’eccezione, la malattia e gli altri siano la norma. In primo luogo perché ogni destra, come dimostrano già le quattro destre citate, è profondamente radicata nel proprio paese e dunque esprime la storia, il carattere e la specificità del proprio popolo. Infatti una destra è liberista e l’altra è sociale, una è di ispirazione cattolica, l’altra è laica, una è filoatlantica e l’altra no, una è europeista e l’altra è nazionalista, una è federalista e l’altra centralista, una proviene dall’antifascismo l’altra no, e si potrebbe ancora continuare. La croce e la delizia della destra è che non esiste un prototipo mondiale di Destra, un “modello” scritto nei cieli a cui attenersi e nemmeno un “internazionalismo” di destra. Ogni destra fa storia a sé. In secondo luogo perché l’eredità del fascismo non può pesare sulla destra italiana più di quanto non pesi l’eredità del franchismo su Alianza popular in Spagna o l’eredità del nazismo (e del comunismo) sui partiti della Germania riunificata. In terzo luogo perché se la destra italiana è anomala e parvenu rispetto alla destra liberale d’Occidente, anche la sinistra italiana è anomala e parvenu rispetto alla sinistra socialdemocratica d’Occidente, provenendo per tre quarti dal comunismo e dall’ultrasinistra. Siamo stati per mezzo secolo l’unico paese europeo con una sinistra largamente egemonizzata da un partito comunista legato a doppio filo a Mosca: non è un’anomalìa anche questa? Dunque, si dovrebbe più compiutamente parlare di caso italiano, sia relativo alla destra che alla sinistra in un paese che, unico in Occidente, non ha mai avuto alternanza al governo.

E allora, il compito di elaborare una cultura politica di destra richiede da un verso di confrontarsi con le tradizioni preminenti della destra europea e, dall’altro, di confrontarsi con le tradizioni più significative del nostro paese. Il riferimento al fascismo ha ostruito non solo il collegamento con le prime, ma anche il riferimento alle seconde: avere radici, avere memoria, avere una storia si traduceva, nel vecchio Msi, nel fermarsi all’esperienza fascista. Ed invece una destra compiuta, larga e radicata nel proprio paese deve innestarsi nella tradizione nazionale, non può prescindere dalla cultura e dalla storia del proprio paese. Nel 1987, in pieno neofascismo missino, pubblicai un libro, La rivoluzione conservatrice in Italia, che mirava proprio ad allargare lo sguardo, a non fermarsi al ventennio fascista ma a cogliere il senso di una linea italiana, una storica culturale e civile italiana, o come allora si diceva, “un’ideologia italiana” più antica che costituiva il riferimento solido per una tradizione politica di destra. Se, per esempio, la destra italiana ha una più spiccata tendenza sociale rispetto alla destra anglosassone di caratura più liberista, ciò non deriva semplicemente dall’esperienza fascista, ma dal carattere popolare e nazionale ereditato dalla tradizione italiana e dall’intersecarsi con il solidarismo cattolico, che caratterizza e distingue la destra continentale da quella anglosassone. Non a caso da noi i moderati si raccolsero intorno alla Dc e non ad un Partito liberale e liberista. Ed anche i liberali da noi erano più per lo Stato che per il mercato. Anche De Gaulle animò una destra sociale e nazionale con forte senso dello Stato; pure Kohl ha puntato col modello renano su un’economia sociale di mercato. Anche Aznar. E persino Bush insiste su un conservatorismo sociale, che negli Usa si chiama compassionevole. Nel quadro europeo, la destra italiana è culturalmente più vicina all’esperienza del gollismo e alla sua Europa delle patrie, mentre Forza Italia è culturalmente più vicina al popolarismo di Kohl. Rispetto alla tradizione conservatrice anglosassone, Forza Italia è più vicina al suo liberismo economico, e An dovrebbe esserlo al suo conservatorismo etico e nazionale. Ciò vale sia per l’esperienza thatcheriana che per quella bush-reaganiana.

Sul piano nazionale, invece, ho l’impressione che An, oggi, in Italia, soffra di una particolare collocazione: pur essendo l’unica forza dichiaratamente di destra nel nostro paese, è la forza che più si è trovata in una posizione di centro su alcune questioni cruciali. Mi riferisco ai grandi temi della giustizia, della politica estera e dell’Europa, dell’economia e dell’articolo 18, della scuola e del servizio pubblico. In tutti questi temi la destra ha assunto una posizione equidistante dagli statalisti e dai liberisti, dagli euroscettici e gli euroentusiasti, dai forcaioli e dagli ipergarantisti, dai sindacalisti e dagli imprenditori, dagli arciamericani e dagli antiamericani, dai sostenitori della scuola pubblica e i fautori della scuola privata. Il rischio è di perdere visibilità e di trovarsi schiacciata nello stesso bipolarismo che l’ha rilanciata e sdoganata. Perché assumere una posizione mediana indebolisce l’appartenenza e l’incisività nel mondo urlato dei media e la destina alla sindrome dell’Asino di Buridano che morì di fame per non aver saputo scegliere tra il bere e il mangiare. Ovvero, tra la propria base elettorale (il consenso popolare) e l’agibilità politica (l’assenso dell’establishment). Il grande compito a cui è chiamata la destra è di trasformare questo centrismo in centralità, giocando un ruolo di equilibrio tra le opposte radicalizzazioni. Ma ruolo d’equilibrio non implica, naturalmente, la perdita della propria caratterizzazione culturale. Ma questa come si concretizza? Esprimendo i temi che caratterizzano la destra e che le appartengono in modo peculiare se non esclusivo. Quali? Il sentimento nazionale e la tutela dell’italianità. Il primato della politica e della sovranità popolare. La salvaguardia dei centri storici e dei beni culturali e ambientali. La difesa della famiglia. Il rispetto del sentire religioso, della bioetica e il primato della tradizione cattolica. La difesa della scuola e del servizio pubblico nel quadro di una promozione culturale e civile del paese. In altri termini tocca alla destra interpretare, in sintonia con i tempi e con i linguaggi odierni, una cultura che valorizzi il senso della tradizione, della comunità e dello Stato. Questo ritaglia un ruolo e uno spazio specifico alla destra che difficilmente può esser intercettato da altri, alleati inclusi. Forza Italia, ad esempio, si è assunta il compito di salvare l’individuo dallo Stato invadente, di modernizzare il paese, di liberare il mercato. E’ inutile sovrapporvisi o farne il verso.

Oggi Alleanza nazionale oscilla, per così dire, tra la destra naturale e la destra artificiale. La prima è la destra germinata spontaneamente dagli umori e i malumori popolari, la destra che intercetta sentimenti e pulsioni diffuse. Ma che ha bisogno di incontrare una sensibilità culturale se non vuole degradare nel basic instinct della destra selvatica o nel pragmatismo cinico o emotivo della destra d’occasione. Non si tratta di dare presentabilità sociale alla destra, semmai di darle credibilità. La destra artificiale, invece, è quella partorita dai teoremi di qualche velleitario stratega e – soprattutto – dalle sollecitazioni di alcuni osservatori e avversari: una destra neoliberale, new global e ultramericana, che ricalca goffamente Forza Italia, risultandone la copia scadente e scaduta, priva di consenso popolare e di profilo identitario, una destra in carriera senza ragione sociale, che piace a chi non la vota. Per An si tratta di dar spessore, consapevolezza e credibilità culturale alla destra naturale che abita nell’Italia profonda. Che ci riesca non è detto, ma dovrebbe almeno provarci.

4 aprile 2002

(da Ideazione 2-2002, marzo-aprile)