Prodi si perde nella terra di nessuno
di Massimo Lo Cicero
Romano Prodi si interroga, con Antonio Polito, sul fatto che l’Europa
venuta fuori da Barcellona debba essere considerata più liberista e meno
sociale (La Repubblica del 18 marzo 2002). Il presidente della
commissione non pronuncia mai, nel testo nell’intervista, le parole che
compaiono tra virgolette nel sommario: “Diversi dall’America, no al
mercato selvaggio”. Ma si avvertono sia il suo disagio nel riconoscere
il valore intrinseco dell’economia di mercato che la sua abilità ad
uscire dal dilemma tra mercato (cattivo) e solidarietà (buona).
Normalmente questa fuga nella terra di nessuno, che dovrebbe separare
queste due presunte realtà, è la riproposizione di una chiara evidenza.
Memorabile, nel mettere a nudo questa impassibile capacità di predicare
l’ovvio, è una famosa parodia di Lopez, il comico che, anni addietro, lo
interpretava come un semaforo: impassibile rispetto alla congestione del
dibattito politico come un semaforo può esserlo rispetto alle code del
traffico automobilistico.
Prodi, incalzato da Polito, ad esempio, rivendica come un successo che
nel documento di Barcellona si scriva che si debba realizzare in Europa
una “evoluzione dei salari in funzione della produttività”: cioè una
scontata riproposizione di un principio, giusto ed evidente, della
relazione che dovrebbe legare produttività e remunerazione dei fattori
produttivi in un mercato ordinato. Ma, allora, perché il mercato sarebbe
una realtà da rifiutare in nome della politica sociale? Se la politica
sociale è capace, al meglio, solo di fare quello che farebbe il mercato,
sarebbe più intelligente lasciare che il mercato faccia quello che deve
fare. Entusiasmante, ancora e per l’equilibrio da funambolo del percorso
logico, è il seguente principio enunciato dal professore Romano Prodi.
La liberalizzazione, cioè l’aumento della competizione, è la base
economica su cui edificare un sistema di giustizia sociale.
In altre parole, se non c’è l’efficienza della produzione, su cui vigila
la disciplina della competizione e dello scambio, non ci può essere la
tutela dei deboli e l’equità della redistribuzione fiscale delle risorse
prodotte. “Chi si batte per questa idea d’Europa – conclude il
presidente – deve dunque essere anche essere franco, onesto, e
riconoscere che nel mondo di oggi non si può avere una situazione in cui
l’età media di chi va in pensione è di 58 anni. Bisogna allungare la
vita lavorativa” ed a Barcellona si auspica che questo possa avvenire,
aggiungendo alla media attuale almeno altri cinque anni. Ma Polito
diffida di queste pericolose aperture di Prodi al fronte liberista ed
incalza per ricordare quanta gente in Europa, dai no global ai
sindacati, chieda politiche diverse ed antagoniste.
E Prodi raccoglie e rilancia, rivendicando la diversità europea dagli
Stati Uniti e la vocazione per le politiche sociali, che affonda nella
storia del Vecchio Continente insieme con la elevata propensione al
corporatismo: la concertazione tra le parti sociali ed i Governi.
Principi cui non si può rinunciare perché, altrimenti, “l’Europa
verrebbe meno alla sua storia”. Questa la cronaca, ironica ma fedele,
dell’intervista: veniamo al commento. Ci sono due punti che bisogna
ricordare: il primo di carattere storico ed il secondo di natura
politica. Questa storia sociale e corporatista dell’Europa è solo il suo
passato prossimo: dalla fine della seconda guerra mondiale alla caduta
del muro di Berlino. La breve parentesi felice, di cui si discute, è
stata resa possibile dagli eserciti americani prima e, poi, dall’impegno
economico che ed organizzativo che gli Stati Uniti hanno messo nella
ricostruzione e nella guerra fredda. Le politiche sociali, di cui Prodi
va fiero sono state realizzate con la ricchezza che il mercato americano
produceva, efficientemente, e che il Governo di quel paese redistribuiva
per difendere l’Europa da se stessa. Visto che le basi teoriche
dell’impero sovietico affondavano nella cultura europea: appunto. La
storia europea, precedente, è storia di ambizioni imperiali e di
protagonismo degli Stati nazionali che si opponevano, di volta in volta,
al titolare di quelle ambizioni imperiali.
Non è una storia di sensibilità sociale. A meno che non si ritenga che
anche la sensibilità dei faraoni egiziani alla sopravvivenza degli
schiavi, per costruire piramidi ed opere pubbliche, fosse una
manifestazione di spiccata sensibilità sociale. La migliore cultura
europea liberale, del resto, che pure fiorì nelle case e nelle strade di
Vienna durante l’impero austro-ungarico, dovette precipitosamente
cambiare domicilio, trasferirsi negli Stati Uniti e dare corpo e seguito
alle intuizioni liberali della Costituzione di quel paese. Perché in
Europa, negli anni trenta, il pensiero liberale e la sua attenzione al
destino della società civile non erano affatto di moda. C’è, infine,
anche una considerazione politica. Prodi è il fiduciario dei Governi
nazionali: nel suo incarico di presidente della Commissione. È nata la
Convenzione che dovrebbe redigere una ipotesi di costituzione europea.
C’è un Parlamento di eletti dal popolo che inizia la faticosa marcia
verso un linguaggio politico comune ed una legislazione comune per
nazioni ancora molto diverse tra loro. Che i Governi, da cui Prodi è
designato siano in parte laburisti ed in parte liberali è noto. Che il
numero di quelli liberali sia crescente e quello dei laburisti
decrescente, nel corso del mandato di Prodi, è altrettanto noto. Forse
sarebbe meglio lasciare il campo alla Convenzione nella definizione del
modello di Europa e concentrare il lavoro della Commissione sulla
gestione, al meglio, delle istituzioni esistenti. Ma, in questo caso, il
bilancio sarebbe preoccupante per la Commissione stessa.
La banca Centrale Europea e l’euro la fanno da protagonisti e le
politche regionali di sviluppo, dopo l’allargamento, saranno destinata
altrove. Lo spazio operativo della Commissione si riduce, in presenza di
una unificazione economica che prevale oggettivamente sul processo di
convergenza politica, per ora. Ovviamente anche Romano Prodi avrebbe
molto da dire su questi temi, per la sua storia di cattolico democratico
e di economista, ma, allora, dovrebbe anche cambiare mestiere.
Diventando un eletto dal popolo e non un grand comis, delegato da coloro
che sono nominati dai parlamenti eletti dai popoli: come, con grande
dignità, si trova ad essere ora.
29 marzo 2002
maloci@tin.it
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