Mercato del lavoro: il nodo costituzionale
di Virgilio Ilari
Il
conflitto sociale sulla riforma del mercato del lavoro è divenuto ormai
un conflitto politico con un grave riflesso costituzionale, che verte
sul rapporto tra concertazione sociale e sovranità del parlamento. Non
si tratta di una questione astratta o formale, ma di un conflitto di
principio, sulla sede in cui debbono essere prese le decisioni
fondamentali, di carattere strategico e di rilievo internazionale,
relative al sistema produttivo. Era un conflitto annunciato. E' ingenuo
pensare che verta sul merito dell'articolo 18 o che sia stato innescato
dagli estremismi verbali delle parti. Il conflitto è, infatti, l'esito
assolutamente prevedibile dal processo che si è sviluppato nell'intero
decennio trascorso e del quale finora nessuno ha avuto il coraggio o
l'intelligenza di discutere davvero. All'inizio degli anni Novanta la
borghesia italiana, non i comunisti o i magistrati, si è lasciata
abbacinare da un estremismo liberista che puntava a sovvertire lo stato
democratico per sostituirlo con lo "stato di diritto". Uno stato cioè
puramente amministrativo ed esecutivo, privo di poteri politici,
strumento dell'autogoverno delle parti sociali. Questo progetto
liberista è stato accolto e sostenuto, con i propri specifici apporti,
anche dalle altre correnti ideologiche della "società senza stato", il
comunismo utopico e il cattolicesimo democratico. E' stata questa
ideologia, che si è espressa nel referendum maggioritario del 1993, a
imporre la fine dei partiti e la sostituzione della convergenza
parlamentare (bollata come "consociativismo") con la concertazione tra
le parti sociali.
Infelici sono stati la forma, e ancor più l'occasione dell'intervento
del ministro Martino a proposito della manifestazione della Cgil. Il suo
articolo poteva infatti dare l'impressione che egli contestasse la
natura democratica di una grande manifestazione solo perché, pur essendo
stata convocata da un sindacato, ha assunto un indubbio carattere
politico. Ma non aveva torto nel rilevare la connotazione oggettivamente
eversiva del veto sindacale contro l'autonomia del governo e la
sovranità del parlamento. Il problema è che tale diritto di veto,
estraneo alla costituzione formale, è stato inscritto nella costituzione
materiale del paese anche per volontà della Confindustria e con il
sostegno ideologico dell'estremismo liberista.
I governi di centrosinistra, espressi dalla rivoluzione borghese degli
anni Novanta, sono caduti perché la concertazione non è stata in grado
di governare la modernizzazione del paese. E' stata la crisi della
concertazione, evidente già nel 1998, a preparare la grande riscossa -
non del centrodestra, ma della politica e della sovranità popolare -
avvenuta il 15 maggio 2001. Ed è la perdita di capacità politica del
centrosinistra ad aver impedito un ripristino non conflittuale del
corretto sistema costituzionale. La Confindustria delle grandi imprese è
stata sostituita da quella delle piccole e medie rappresentate da
D'Amato. Ma non ha fatto alcuna autocritica. La mentalità non è
cambiata: non è stato riconosciuto alcun ruolo autonomo al governo e
alcun potere al parlamento. La Confindustria ha continuato a
considerarli meri esecutori delle parti sociali e, nell'intento
opportunistico di approfittare della larga maggioranza parlamentare di
cui (sulla carta) dispone il centrodestra, ha addirittura preteso di
trasformarlo in "comitato d'affari della borghesia", inchiodandolo ad
una questione di principio che, per soprammercato, si sta rilevando
sempre più controproducente. La rottura della concertazione da parte
della Confindustria è dunque avvenuta per ragioni contingenti, non per
una seria maturazione. Ma in tal modo ha spinto il sindacato (tutto il
sindacato: è stupido, oltre che profondamente antidemocratico e
impolitico, augurarsi la dissociazione di Cisl e Uil) a imboccare la
strada senza ritorno della supplenza politica e della rivolta di piazza.
Il governo ha il dovere costituzionale e la missione storica, in questo
momento drammatico ma decisivo per il futuro del paese e della sua
modernizzazione, di tenere la barra non sui diktat di D'Amato e
dell'oltranzismo parolaio e velleitario, ma sulla volontà del popolo
sovrano costituito in corpo politico alle elezioni e rappresentato
unicamente in parlamento. Deve, senza interferire o commentare, lasciare
che il processo che il sindacato sta attraversando si sviluppi non solo
nella piena libertà, ma anche in un clima di rispetto e di sicurezza,
affrontando l'emergenza terrorista col rigore della legge. E deve
serenamente e sollecitamente assumersi le sue responsabilità politiche
in parlamento, presentandogli non i diktat di una delle parti sociali,
ma le misure che ritiene discrezionalmente necessarie per il rilancio
dell'economia. Il dovere degli uomini di cultura, in parlamento e fuori,
è invece di avviare un serio e misurato dibattito costituzionale,
sorretto dalla più ampia analisi storica e politica degli anni Novanta,
con l'auspicio di una chiara e definitiva pronuncia del Quirinale. Senza
dimenticare che oggi vi siede l'uomo che ha retto il governo del paese
proprio nel momento storico in cui la costituzione formale è stata
sovvertita da una nuova costituzione materiale, matrice imprevista ma
prevedibile del conflitto in atto.
29 marzo 2002
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