La destra e l’anomalia italiana
forum con A. James Gregor, Pasquale Serra, Dino
Cofrancesco, Roger Griffin a cura di Riccardo Paradisi
Il percorso che la destra democratica italiana ha intrapreso dal
congresso di Fiuggi del 1995 – da quando cioè dalle ceneri del Msi è
nata Alleanza nazionale – è ancora in corso. Si tratta di un fenomeno
che, per le sue importanti implicazioni politiche – An è un partito di
governo, i suoi uomini siedono ai vertici delle istituzioni e governano
in importanti realtà comunali e regionali – ha cominciato a destare un
interesse non superficiale tra i politologi e gli studiosi. L’inclusione
di quello che Piero Ignazi aveva definito il “polo escluso” ha rimesso
in moto un ambito di ricerca che oltre a poter contribuire all’analisi
del presente della destra italiana, potrebbe offrire spunti circa le
ipotesi del suo futuro. Sarà quello di Fini un partito
liberal-conservatore o un movimento di destra cattolico-sociale? An
entrerà nel Partito popolare europeo? Manterrà la sua autonomia oppure
deciderà di confluire in una più vasta aggregazione di centro-destra?
Quale di queste prospettive dovrebbe essere la più coerente, quella più
utile al Paese, quella più conseguente alla tradizione storica, quella
più conveniente al successo politico? In questo forum ne abbiamo parlato
con quattro studiosi che da anni analizzano le dinamiche e la cultura
della destra italiana: A. James Gregor, docente di Scienza della
politica all’Università di Berkeley; Pasquale Serra, storico del
pensiero politico e ricercatore al Centro per la Riforma dello Stato;
Dino Cofrancesco ordinario di Storia del pensiero politico
all’Università di Genova; Roger Griffin, professore di Storia moderna
dell’Università di Oxford.
Domanda – Partiamo da un paradosso: nel ’900 italiano non è esistita una
forza politica dichiaratamente di destra. La “destra storica” – al di là
della formula – ha germinato la sinistra radicale e il liberalismo
laico. Quanto al fascismo si percepiva come movimento con origini
rivoluzionarie e di sinistra e al limite come esperienza di superamento
delle categorie di destra e sinistra. Non si è mai definita di destra la
Dc. Con la nascita di An può dirsi superata l’anomalia italiana di una
destra latitante o se vogliamo dispersa?
Gregor – A mio giudizio non è la storia la guida migliore per orientarsi
nella politica italiana anche perché chi cerca nella storia nazionale
dell’Italia può trovarvi davvero ciò che vuole. Giovanni Gentile per
esempio ha trovato due anime nel Risorgimento, una delle quali, quella
nazionalista, eroica, e tragica, si sarebbe incarnata nel fascismo.
Norberto Bobbio invece ha identificato due Italie: una sofisticata,
laica e politicamente liberale e l’altra retrograda e pervasa dal
familismo amorale. Credo che Giuseppe Prezzolini sia stato più corretto
sostenendo, invece, come in Italia sia sempre esistita una corrente
sotterranea di conservatorismo emerso in diversi momenti in forme
diverse. In circostanze estreme questa corrente si è potuta manifestare
anche in forme radicali, come nel caso dell’estrema destra. Mi sembra,
però, che Gianfranco Fini abbia cercato di fare di An lo strumento
politico moderno del conservatorismo descritto da Prezzolini:
pragmatico, riformista, politicamente realista, rispettoso della memoria
storica, incline ai valori tradizionali, attento alla giustizia e
all’equità.
Tutto ciò passa per la rinuncia alle velleità di ogni genere di utopia o
di radicalismo. E questo dimostra che Alleanza nazionale ha assunto una
chiara posizione politica che non ha nulla a che fare col fascismo
storico. Il quale d’altra parte deve ormai essere riconosciuto e
studiato come una manifestazione storica e non attraverso un approccio
demonologico e strumentale. Se il nodo del problema è capire che cosa
sia stato realmente il fascismo e che cosa del fascismo sopravvive nella
cultura politica italiana, sono i luoghi della ricerca intellettuale che
devono rispondere a una simile domanda. Per quanto riguarda, invece, la
dimensione politica oggi nessuno in buona fede può avere problemi a
sostenere che An sia una forza di destra che con piena legittimità
partecipa al confronto politico nel duro contesto – fatto di così grandi
idiosincrasie – dell’Italia democratica di oggi.
Serra – Penso che il problema della destra sia stato riproposto
all’attenzione del pubblico intellettuale in maniera fuorviante. Vi
accenna la stessa domanda, del resto, quando suggerisce che la sostanza
del problema non verte più sui rapporti tra destra e fascismo, anche se
io sarei più cauto nel considerare tale rinnegamento del fascismo come
una novità o una prerogativa di An, perché lo stesso discorso, forse,
potrebbe essere fatto anche per quanto riguarda il Msi o per alcuni
settori di esso. Sottolineo questo punto, perché sono convinto che il
modo come si configura, nella modernità, il rapporto tra presente e
tradizione (un modo, per dirlo in una battuta, che è tutto sbilanciato
sul presente e su di noi, su come noi ci prospettiamo il futuro) fa sì
che la domanda centrale che dobbiamo porci nell’analisi della destra non
è tanto «a quale fonte» questo soggetto si riferisce, quanto, piuttosto,
«che cosa vuol dire» quel soggetto politico quando si riferisce a quella
fonte. Per la stessa ragione non riesco ad essere d’accordo quando si
afferma che nel ’900 italiano non è mai esistita una forza politica
dichiaratamente di destra, perché non solo ritengo che possono esistere
e darsi destre che non si definiscono tali semplicemente perché il
contesto in cui operano sconsiglia l’uso di questa etichetta, ma ritengo
anche che esiste una varietà di destre, e che la novità dell’oggi
consiste semplicemente in un mutamento radicale della sua forma: dopo il
1995 noi siamo passati da una destra che teneva conto del dato di massa
della società ad una che, forse, pensa che può finalmente non tenerne
più conto, se non nella forma del populismo, di un populismo non più
pensato, però, come l’ombra della democrazia, ma come uno strumento da
giocare contro di essa.
E vengo al tema del fascismo, che è il versante implicito della domanda,
per ribadire, molto brevemente, che l’evoluzione di An, di cui stiamo
parlando, non coincide con la fine della questione del fascismo, sia
perché non è la destra ma la società, il soggetto o il motore in grado
di decidere la chiusura o l’apertura di questo problema, sia perché la
storicizzazione del fenomeno fascista, che pure deve esserci, non può
spingersi fino al punto di prospettare una sorta di strutturale
incomunicabilità fra tempi storici diversi, perché questo vorrebbe dire
non solo respingere il fascismo fuori dalla storia, ma decretare la fine
di ogni interesse del nostro presente per il fascismo stesso, il che,
credo, non è, nel senso che è possibile, invece, che la nostra società,
nella sua odierna disperazione, possa approssimarsi alle soglie di esso.
Il punto che andrebbe indagato, dunque, non è tanto come la destra si
colloca di fronte al fascismo, ma come si colloca, invece, e quali
funzioni svolge, rispetto alla odierna crisi della democrazia. E qui la
situazione non mi sembra molto incoraggiante: perché vi è da un lato una
sinistra che continua a sradicare la società e dall’altro una destra che
sta lì ad aspettare gli esiti di questo processo. È esattamente in
questa cultura dello stare ad aspettare che io vedo, oggi, il
“problema-An” e, insieme, il suo limite.
Cofrancesco – Partirei dalla comparazione col “caso francese”. Che la
destra in Francia, a differenza che in Italia, abbia sempre posseduto
una sua precisa fisionomia è infatti vero, ma solo a livello culturale.
Per quanto riguarda, invece, il sistema politico, la Francia presenta
una caratteristica inequivocabile di delegittimazione sostanziale di
ogni partito e movimento politico di destra che l’accomuna
sostanzialmente all’Italia. Né da loro, né da noi c’è mai stata una vera
destra di governo, a meno che nella categoria non si vogliano
comprendere le formazioni parlamentari moderate, notabiliari e
liberal-conservatrici. Il fatto è che il momento cruciale, nello
sviluppo di un sistema politico, che gli studiosi designano come
“costruzione della nazione”: la Rivoluzione francese, il Risorgimento
italiano, è stato segnato da un’ideologia decisamente progressista
(ispirata al momento individualistico e razionalistico dell’illuminismo)
in base alla quale era la capacità di innovazione – il mutamento
radicale – l’unico parametro di legittimità di un governo e di una
classe politica.
Ne è derivato che la legittimità riguardasse quasi esclusivamente il
“regime politico” – le istituzioni e i valori etico-politici e
costituzionali che ne sono a fondamento – non la “comunità politica” e
la sua storica “ragion di Stato”. C’è però una differenza cruciale tra
la Francia e l’Italia. Nella prima, in virtù della “costruzione dello
Stato”, che ha preceduto di secoli quella della nazione, la comunità
politica non è mai stata messa seriamente in discussione; nella seconda,
a causa della sovrapposizione delle due fasi (costruzione dello Stato e
costruzione della nazione avvenute negli stessi anni), ogni insuccesso
del regime politico ha fatto vacillare il senso stesso dell’appartenenza
allo Stato nazionale.
Va detto – contrariamente ad una corrente, sia pure ragguardevole,
dell’ormai ampia storiografia revisionista – che il fascismo italiano si
collocò ontologicamente a destra, non in riferimento ai significati
classici della dicotomia destra/sinistra, bensì in riferimento al
disegno dichiarato di voler fondare consenso e obbedienza su una
legittimità riferita, prevalentemente, alla “comunità politica” e non al
“regime politico” (dove trovano posto i conflitti tra conservazione e
progresso). La tragedia della dittatura e della sconfitta militare ha
però, com’era inevitabile, quasi azzerato lo spazio di una destra che,
come quella conservatrice inglese, rappresentasse la continuità della
nazione attraverso le generazioni, il senso delle tradizioni, stili di
vita e di governo la cui scomparsa sarebbero una perdita netta non solo
per gli inglesi ma per l’intero Occidente.
Per quanto riguarda Fini, Alleanza nazionale oggi è politicamente un
partito, per tanti aspetti, come gli altri – An ha espresso buoni
ministri e sottosegretari – ma culturalmente è rimasto, per così dire,
in mezzo al guado. Non a caso molte sezioni del vecchio Msi, dopo
Fiuggi, si sono date come nome Giorgio Perlasca, uno straordinario “uomo
della strada” ma del tutto estraneo all’arena politica (anche se
combattente in Spagna e con tessera del Pnf). Un segno inequivocabile di
disagio.
Griffin – Dobbiamo essere cauti di fronte all’idea secondo cui ci
sarebbe una via naturale verso un sistema democratico che comprende
partiti politici di destra e sinistra distinti, maturi e ideologicamente
consistenti. Ogni Stato-nazione europeo ha avuto il suo percorso
particolare che ha visto il passaggio da organizzazioni politiche
dinastiche a reggimenti politici democratici e ospita una configurazione
particolare di forze e partiti di destra alcuni dei quali anche con
radici storiche in correnti ideologiche che sarebbero adesso considerate
antidemocratiche. La maggior parte dei partiti politici ha, al suo
interno, componenti e tendenze conflittuali che potrebbero addirittura
accostarsi, nelle ali estreme, a forme di estremismo illiberale o
antiparlamentare. Uno studio comparativo dei partiti in paesi differenti
come Spagna, Olanda, Austria e America ne darebbe una conferma.
La nozione di un’“anomalia italiana” va dunque trattata con cautela. A
mio avviso, date le origini di buona parte dei suoi membri e dei suoi
leader, e data l’ideologia del Msi, non si può dire che Fiuggi abbia
visto la nascita di una destra democratica italiana se non nel senso
della democratizzazione di un preesistente partito neofascista. E
questo, almeno all’origine, forse soprattutto per ragioni tattiche e
programmatiche (malgrado l’arrivo di alcuni sinceri non fascisti
provenienti dalla Dc) funzionali a coprire il vuoto lasciato dal
collasso della Dc. Da quel momento Fini ha dovuto fare attenzione a
tenere fuori il fascismo (come del resto il post-socialista Blair è
stato abile ad emarginare l’ala di socialismo intransigente nel New
Labour) ma è significativo che debba la sua credibilità e la sua
legittimazione all’alleanza con un partito di destra liberale come Forza
Italia di Berlusconi.
Si dovrebbe anche sottolineare che ogni nazione europea è così legata a
uno spazio economico politico globale che lo spazio di manovra di
qualsiasi partito con aspirazioni rivoluzionarie di rinascita nazionale
o di creazione di un’alternativa radicale al moderno Stato-nazione
capitalista e parlamentare, è limitato (persino la concezione di Tony
Blair di una “terza via” è straordinariamente utopica e non realizzabile
in pratica: nessun politico moderno può apportare cambi strutturali in
uno Stato che fa parte di una comunità globale di nazioni ed economie
senza poi essere ostracizzato da quella stessa comunità e da qui essere
destinato al tracollo). Ipotizzare una deriva fascista in qualsiasi
nazione europeizzata sarebbe oggi totalmente anacronistico e utopico,
così che l’esplicita abiura nelle tesi di Fiuggi è forse segno più di
pragmatismo e di buon senso che di una reale mutazione. Tuttavia è
quanto di più vicino ci possa essere ad una “Bad Godesberg” della destra
italiana: un’abiura, cioè, di quella ideologia rivoluzionaria di
palingenesi nazionale che era propria del fascismo.
All’interno di An hanno trovato domicilio tre filoni di pensiero che
oggi sono considerati gli elementi costitutivi della destra italiana: il
filone liberal-nazionale, quello cattolico-sociale e quello
nazional-conservatore. Esiste un denominatore comune tra queste anime?
Il dibattito che si è aperto dentro An sull’opportunità di entrare nel
Ppe è l’indice che esistono differenti impostazioni. Come spiegare
questa situazione?
Gregor – Quando noi parliamo in termini generali di gruppi politici in
una società democratica cerchiamo di identificare gli elettori
potenziali ai quali un partito politico potrebbe fare appello. Negli
stessi Usa, come nel caso dell’Italia, c’è una particolare area di
opinione che in generale sostiene la riduzione della pressione fiscale,
le virtù civiche del lavoro, della responsabilità e della famiglia, che
si oppone alle libertà sessuali, allo spreco dei fondi pubblici e al
dilagare del crimine. I conservatori poi, generalmente, coltivano un
sentimento di orgoglio nazionale pur essendo lontani dagli estremismi
sciovinisti e dalla xenofobia. Negli Usa il movimento conservatore trova
espressione nel partito repubblicano e partecipa alle regole della
normale alternanza al potere. Io immagino che An esiti ancora a entrare
nel contenitore europeo dei conservatori perché un’alleanza
comporterebbe delle difficoltà per un partito che è ancora considerato
neofascista. Agli occhi di molti europei infatti – inclusi molti
italiani – An appare come un partito su cui graverebbe un peso di
responsabilità storiche. E non manca chi arriva a considerare An erede
di un movimento che si era alleato con la Germania di Hitler. Molti
intellettuali di sinistra insistono propagandisticamente su questi
aspetti soprattutto dopo il totale collasso del marxismo internazionale.
An per il momento non dispone dei mezzi per respingere questo tipo di
grossolanità e di generalizzazioni, purtroppo potenti e efficaci perché
continuamente e universalmente ripetute.
Serra – Non credo che tra i tre filoni vi sia realmente un denominatore
comune (né credo, d’altronde, che i singoli filoni rappresentino
realmente qualcosa di più delle elaborazioni di singole personalità),
non solo perché non può esistere un denominatore comune senza una
sintesi culturale, ma anche perché dalla politica dello stare ad
aspettare non è possibile elaborare una cultura intesa come qualcosa di
diverso dagli umori della società. Da qui, forse, lo scetticismo e le
resistenze di alcuni settori del partito; uno scetticismo, credo,
legittimo e giustificabile (e che investe punti essenziali della
politica e della antropologia di An), anche se non mi è chiaro né dove
va o vuole andare tale resistenza, né il modo come si configura, poi, il
rapporto tra resistenza e politica.
Cofrancesco – Debbo essere sincero, non credo che le tre anime, alle
quali si fa cenno, siano davvero così distinte e rilevanti; anche se per
coloro che partecipano intensamente alla vita di An, si tratta di
questioni cruciali. Scommetto che un lettore medio del Secolo d’Italia
non se ne sia neppure accorto. Quelle distinzioni diventano qualcosa
quando si fondano su simboli, su tradizioni, su “individualità
cosmico-storiche”, per dirla col vecchio Hegel, che hanno forgiato
l’anima della nazione. Nella ridotta misura in cui anche in Italia hanno
avuto qualche significato, si tratta, oltretutto, di filoni assimilati
ma in gran parte ideologicamente estranei al fascismo storico. I
liberal-nazionali erano, sic et simpliciter, la “destra” del più ampio
movimento liberale; i nazional-conservatori costituivano la componente
autoritaria e antidemocratica del movimento nazionalista; i
social-cattolici rappresentavano quella parte del cattolicesimo
militante che, dinanzi alle lacerazioni sociali e culturali indotte
dalla modernizzazione, pensavano a una nuova comunità organica –
caratterizzata da qualche forma di corporativismo. Il rifiuto di molti
quadri e militanti di An di confluire in un grande contenitore europeo
alternativo alla sinistra – in cui ciascuno di quei tre filoni, se
avessero una reale consistenza, troverebbe il proprio “luogo naturale” –
è la dimostrazione dell’accennata difficoltà di raggiungere la sponda
occidentale.
Griffin – Il denominatore comune di queste anime è l’anticomunismo,
l’avversione all’egualitarismo e l’esaltazione – in spirito, però,
radicalmente anti-thatcheriano – del primato della società
sull’individuo. L’unione, però, è cementata soprattutto dal pragmatismo:
questi filoni sono cioè uniti da ciò che non vogliono piuttosto da ciò
che sono. La loro prospettiva è del resto la costruzione di un nuovo
partito che traduca in consenso il peso politico acquisito nell’era
post-tangentopoli. C’è da dire che la componente che resiste
all’associazione o all’assimilazione con il conservatorismo britannico
tiene indubbiamente un profilo più ideologicamente coerente rispetto a
coloro che invece caldeggiano questa scelta, dato il tipo diverso di
destra rappresentata dall’autentica tradizione conservatrice liberale
(che nel suo passato e nel suo presente ha anche una componente razzista
ed elitaria ma mai fascista). Il punto è che il partito conservatore
britannico è più antistatalista di quanto potrà mai essere An, non
perché più di destra ma perché esso è, in virtù di un’ormai assimilata
tradizione storica, più genuinamente liberale, nell’accezione cavouriana
che nel diciannovesimo secolo si è data a questo termine.
In Italia si è ormai consolidato un polo di centro-destra, denominato
Casa delle Libertà e composto da Lega, Forza Italia, Ccd e da Alleanza
nazionale. Il problema che si sta ponendo però An in questo momento è
quale dovrebbe e potrebbe essere l’apporto specifico della destra
all’interno della coalizione. Di quali princìpi specifici An potrebbe e
dovrebbe farsi portatrice all’interno dell’area del centro-destra
italiano?
Serra – Sono convinto che la destra potrebbe fare molto o molto di più:
potrebbe, per esempio, porre con forza il tema della nazione e della
tradizione nazionale; pensare, poi, all’interno di questo tema il
problema del pluralismo e quello dell’eguaglianza sociale, economica,
territoriale fuori dalla retorica populistica; potrebbe inoltre mettere
al centro il tema della sovranità rispetto ad un mondo sempre più
dominato dal disordine; potrebbe anche porre legittimamente il tema
dell’autorità o dell’ordine, se solo fosse capace di legarlo
integralmente alla tematica dello Stato di diritto, piuttosto che usarlo
contro di esso; potrebbe, infine, uscire dalla cultura del rancore e
della vendetta, che ancora in essa permane, anche perché con tale
cultura non è possibile affrontare nessuno dei temi che ho prima
elencato. Potrebbe fare, ma, forse, non riesce a fare: ed è questo il
punto che andrebbe spiegato.
Cofrancesco – Per svolgere un ruolo specifico e significativo, An
dovrebbe diventare un partito liberal-conservatore nazionale, inteso
soprattutto a rifondare (ma in senso decisamente a-fascista se non
antifascista) una contestata legittimità comunitaria – l’Italia come
comunità di destino innanzitutto! – in un’epoca in cui gli Stati
nazionali debbono, da un lato, rinunciare a molte prerogative della
vecchia sovranità e, dall’altro, attrezzarsi seriamente al fine di
ritagliarsi, nel nuovo ordine sovranazionale europeo e atlantico, uno
spazio e un ruolo adeguati. An, in altre parole, dovrebbe essere il
partito custode delle idealità risorgimentali e determinato a farle
valere in ogni grande occasione della vita nazionale, sia pure
reinterpretandole alla luce di nuovi tempi e di nuove esigenze.
Fedeltà al Risorgimento significa farsi carico dei bisogni e delle
aspettative di tutta la nazione, nelle sue varie articolazioni
orizzontali e verticali (sociologiche e geografiche, tanto per
intendersi): ad esempio, mettere da parte il mercato e i suoi imperativi
quando sono in gioco i posti di lavoro di migliaia di italiani ma,
altresì, intervenire con forza allorché alleati di governo, come la Lega
Nord, non sembrano rispettare la bandiera italiana. Va detto che davanti
ai vilipendi al tricolore, An si è mostrata piuttosto sobria e
pragmatica, non ha difeso Mazzini e Cattaneo e, poi, esaltando i caduti
di El Alamein, per bocca del ministro Tremaglia, si è ben guardata dal
ricordare che, grazie anche a quella sconfitta, oggi viviamo in una
democrazia che, per quanto carente, è saldamente legata all’Europa e
all’Occidente.
Griffin – Considero false le premesse di questa domanda perché
implicherebbero che An sia oggi un partito con un alto grado di coerenza
ideologica e di credenziali democratiche tipiche di una tradizionale
formazione liberale. Personalmente, credo in realtà che il ruolo che ora
occupa An all’interno della politica italiana sia un esempio
notevolmente riuscito di “entrismo”. Nel caso specifico del Msi-An
questa strategia ha implicato la tattica di usare una politica
democratica e di alleanza con forze genuinamente di destra (ieri i
monarchici oggi i cristiano-democratici) come un modo di porre fine
all’estrema marginalizzazione del fascismo a cui il Msi aveva dovuto
necessariamente resistere sin dalla sua fondazione nel 1946.
Appropriandosi del ruolo di forza democratica e postfascista molti
elementi in An hanno seriamente cominciato a crederci, sicchè oggi molti
sinceri democratici possono trovare rispettabile An.
A proposito di legittimità e presunto passato fascista non sono stati
pochi a contestare ad An la frettolosità con cui a Fiuggi è stata
archiviata una tradizione politica che aveva strutturato la cultura e la
mentalità del Msi. Non ci sarebbe stato, secondo questi critici, un
dibattito articolato all’altezza della svolta avvenuta. A Fiuggi – è
stato detto – il Msi da partito di ispirazione neofascista è diventato,
nel volgere di una notte, un partito postfascista e addirittura
antifascista (recuperando Croce, Sturzo, addirittura Gobetti). Alla luce
di queste considerazioni, l’evoluzione di An è davvero un dato reale e
compiuto? E al di làdelle petizioni di principio come giudicare An alla
luce dell’azione politica dispiegata nelle amministrazioni comunali e
regionali dove la destra governa?
Gregor – Il congresso di Fiuggi ha reso esplicito quello che ormai nella
destra italiana era diventato sempre più evidente lungo il corso degli
anni. Ricordo quando, molti anni fa, Giorgio Almirante fu ospite a
Berkeley all’istituto di studi internazionali dell’Università della
California: in una risposta a una domanda che gli venne rivolta apparve
evidente a chi lo ascoltava che i cambiamenti nelle posizioni politiche
del Msi non erano né superficiali né occasionali ma già profondi e
strutturali. Prima di Fiuggi i corporativisti avevano già preso una
posizione indipendente nei confronti del Msi, così come i radicali di
destra si erano sentiti gradualmente sempre più estranei a questa realtà
e gli evoliani, infine, avevano finito col darsi alle pratiche
misteriosofiche e alla contemplazione delle verità trascendenti più che
alla politica.
Dall’inizio degli anni Novanta era insomma evidente che il Msi stava
sviluppando prospettive nuove. A quel punto la composizione del partito
era già cambiata anche attraverso il ricambio generazionale. Fini ha
semplicemente preso atto di questa realtà. In ultima analisi quindi,
secondo me, questo nuovo corso di Fini non solo è reale ma è anche
corretto: An ha definito se stessa come una forza di centro-destra
all’interno di un sistema di competizione democratica. Il rischio,
naturalmente – come ha rilevato Stenio Solinas alcuni anni fa – è che in
questo nuovo corso politico manchino “visioni del mondo” e passioni
ideali. Ma in fondo è questo che si richiede a una forza politica di
centro-destra o a un partito di destra liberal-conservatrice che si
muove all’interno di un sistema politico di democrazia rappresentativa.
Serra – Nel volgere di una notte An non ha archiviato la tradizione
politica fascista, ma la tradizione impolitica e la cultura del ghetto
che aveva strutturato sin dalle origini l’esperienza del Msi. Secondo
me, però, lo ha fatto senza pensarci, perché in quel passaggio ha
pensato a tutto la società, la quale nel giro di un paio di mesi ha
portato il ghetto al governo, semplicemente cambiandolo di segno. Questo
è, secondo me, An: una invenzione della società. Non vi è, dunque, un
problema di legittimità, per quanto riguarda An, quanto, piuttosto, un
problema di responsabilità, la quale si dà solo fuori dal ghetto,
laddove si esce dal recinto del proprio sé e si incomincia a definire un
proprio ruolo nazionale. In questo senso, e forse, solo in questo senso,
si può dire che l’evoluzione di An non è ancora compiuta.
La cosa, come è ovvio, è penalizzante innanzitutto per la stessa An, la
quale rischia di offrire di sé un’immagine sempre più sfuocata, o
comunque sempre meno distinguibile da quella dei suoi stessi alleati di
governo, i quali non a caso – penso innanzitutto a Forza Italia – stanno
erodendo parte dei suoi consensi e dei suoi insediamenti tradizionali al
Sud. Su questo punto i malumori e le critiche della cosiddetta destra
sociale credo che colgano nel segno. E qui diventa cruciale il problema
della revisione culturale, nel senso che se An non riesce a fare nessuna
delle cose che elencavo nella risposta precedente, e che sarebbe suo
interesse fare, è proprio perché non ha compiuto una vera revisione
culturale, una rielaborazione del proprio sé, del proprio rapporto col
mondo, con gli altri, con la storia, in assenza della quale è
semplicemente il ghetto che va al governo, mentre per pensare fino in
fondo nazione e democrazia è esattamente la cultura e l’antropologia del
ghetto che occorrerebbe mettere radicalmente in questione.
Cofrancesco – A Fiuggi, il partito avrebbe dovuto, per usare celebri
metafore, risollevare la bandiera nazionale caduta nel fango, per colpa
del fascismo, del suo attacco alle libertà statutarie, delle sue
alleanze, delle sue guerre. Ripeto ancora una volta, avrebbe dovuto
giocare la difficile carta di una legittimazione riferita alla “comunità
nazionale” (“siamo il partito che ha a cuore gli interessi storici e
permanenti della nazione e, proprio per questo, condanniamo il ventennio
che li ha compromessi”). In tal modo, non sarebbe stata rinnegata del
tutto l’eredità del fascismo (interpretabile, ad esempio, come “risposta
sbagliata a problemi drammaticamente reali”) ma, nello stesso tempo, si
sarebbe lanciato un segnale inequivocabile di accettazione senza riserve
della democrazia liberale.
Griffin - Non sono in condizione di giudicare il comportamento di An nel
governo. Non fa parte del resto del mio campo di ricerche. Nel 1995 però
ho pubblicato nel Journal of Political ideology un’analisi dettagliata
delle tesi di Fiuggi. L’articolo dimostrava che An rappresentava ancora
un ibrido di liberalismo di destra (o almeno dichiaratamente
anti-socialista), di fascismo storico e di neofascismo (del resto i
riferimenti nelle tesi ad alcune figure come Giovanni Gentile, il più
importante filosofo del regime fascista, Carl Schmitt e Julius Evola ne
sono la dimostrazione). Il risultato sarebbe un “fascismo democratico”;
il che è storicamente una contraddizione non meno di quanto lo fosse una
volta un marxismo democratico o lo siano stati, sin dal loro primo
apparire, un monarchismo e un cattolicesimo democratici.
Questo equivoco tra l’altro non riguarda solo la profonda contraddizione
tra il ruolo che An vuol giocare adesso sul palcoscenico parlamentare e
le origini del partito che affondano nel Msi; ma implica anche le
tensioni irrisolte tra un radicalismo antidemocratico – implicito in una
concezione organicistica della nazione italiana come nel bisogno urgente
di rigenerazione – e un gradualismo democratico che si limita a
contrastare le conseguenze della disgregazione sociale e il tramonto
delle identità culturali sotto la spinta di forze come la
globalizzazione, il materialismo e il multiculturalismo.
In Italia, periodicamente si torna a parlare di cultura di destra.
Prezzolini diceva che le anime della destra sono un’infinità. Tra le
tante destre possibili quale, secondo voi, dovrebbe essere il filone
culturale più utile allo sviluppo di una destra democratica?
Gregor – Il catalogo dei nomi nella tradizione della destra italiana è
noto a ogni studente italiano: per limitarsi ai più rappresentativi, ci
sono Machiavelli e Guicciardini, Vilfredo Pareto e Roberto Michels, e
poi Prezzolini assieme a tutti gli altri realisti e anti-utopisti della
tradizione italiana. Meno chiara è la lista dei portavoce della
tradizione idealista che costituisce una forte componente antiscientista
(non antiscientifica) della cultura della destra italiana. Comunque, qui
dobbiamo sicuramente annoverare almeno Croce e Gentile oltre a Ugo
Spirito, la cui rilettura non arrecherebbe nessun danno morale o
culturale agli italiani. Comunque, in un paese democratico nessun
governo e nessun partito politico possono e devono rappresentare tout
court una tradizione culturale. Il movimento delle idee va lasciato agli
individui e alle scelte personali.
Serra – Secondo me una cultura di destra, in senso specifico, elaborata,
cioè, autonomamente dalla destra, non solo non sembra esprimersi, ma
quando essa stava, in qualche modo, prendendo forma (penso ad alcune
esperienze legate negli anni Ottanta alla rivista Proposta o allo stesso
tentativo di revisione culturale elaborato e sperimentato da Rauti nella
seconda metà degli anni Settanta), con l’intento di portare
consapevolmente la destra sul terreno della democrazia e su quello, non
meno impegnativo, della modernità, è stata anche combattuta dalla
teorica dell’immobilismo di Almirante, dalla quale discende questa
destra: una destra che quanto più non è in grado di fare i conti fino in
fondo col passato tanto più è incapace di farli col presente e, cioè, di
proporre una idea complessiva dell’Italia, di definire una politica
nazionale.
Questa è la destra reale, una destra che non ha mai fatto i conti con la
propria storia e che, proprio per questo, non ha la libertà (la quale si
da solo quando si ha certezza di sé e del proprio posto nel mondo), di
prendere decisioni difficili, come quelle che prima elencavo, o di
assumersi responsabilità e, cioè, di rischiare, di osare, di cambiare.
Non è solo questione di potere, che pure c’è, ma qualcosa di più: è
questione di cultura, in assenza della quale si può anche stare al
governo per vent’anni, ma, per dirla con Gramsci, non si fa epoca.
Cofrancesco – Il revisionismo storiografico alla Renzo De Felice e
quello all’Augusto Del Noce offrono solidi materiali intellettuali di
riflessione e di rifondazione culturale, ma – a parte Marcello Veneziani
e qualcun altro – non se n’è accorto nessuno. Alleanza nazionale, in
definitiva, ha senso come torysmo italiano: al di fuori di questa
collocazione ideologica non avrebbe, secondo me, alcun avvenire. Il
guaio è che, il suo, sarebbe un torysmo senza Disraeli e senza Churchill
giacché anche quei pochi simboli che potrebbe trovare nella nostra
storia – penso a Sidney Sonnino – non hanno alcuna presa
sull’immaginario collettivo. La scommessa è difficile, me ne rendo
conto, ma, come dicevano gli antichi: hic Rhodus, hic salta.
Griffin – Non possiamo confondere il tentativo in atto sin dagli anni
Settanta di creare in Italia una cultura di destra con la necessità di
creare una cultura politica di destra democratica. Il primo – indagato
anni fa in un ottimo libro di Furio Jesi che si chiamava appunto Cultura
di destra – si è sviluppato come risposta all’eurocomunismo e alla nuova
sinistra europea sotto l’influenza, da una parte, della Nouvelle Droite
francese e, dall’altra del tentativo – successivo al fallimento
nostalgico – di creare una cultura intellettuale appropriata alla realtà
degli anni Sessanta e al nuovo ingresso dei giovani sulla scena
politica. Un tentativo di colmare un deficit storico della società
civile italiana che può essere fatto risalire al Risorgimento quando le
forze di destra (la Chiesa e gran parte dell’aristocrazia) erano quasi
interamente antidemocratiche. In più, non possiamo dare per scontato il
fatto che sia possibile identificare a destra una cultura ideologica
utile alla costruzione di una destra democratica.
Questa mi sembra francamente una visione semplicistica di come le
tradizioni democratiche autentiche si sono sviluppate nel passato (come
se alcune nuove pubblicazioni, libri o congressi possano creare un nuovo
tipo di cultura politica, una visione dell’importanza delle idee nel
plasmare la realtà sociale che si avvicina più all’utopismo idealista
che alla vera tradizione liberale europea). Io penso invece che il
fattore più importante per creare una vera cultura democratica in
Italia, nel senso più idealistico e umanistico del termine e che
abbracci naturalmente i poli della destra e della sinistra, debba essere
un processo generale che inserisca la storia italiana contemporanea in
un più vasto contesto storico europeo e globale. Per il momento le
risposte del grande pubblico ai grandi eventi – come per esempio il G8
di Genova, l’immigrazione di massa extracomunitaria, la guerra del
Golfo, gli attacchi di Al Quaeda negli Usa o l’emergenza ambientale –
sono troppo condizionate dalla miopia, che in inglese viene chiamata
‘brevetempismo’, difetto che il sistema scolare e la cultura media di
massa tendono a rafforzare piuttosto che a combattere. Se le reazioni
del pubblico fossero invece determinate da una reale comprensione della
tragedia umana ed ecologica che si sta producendo a livello globale e
dalla necessità di soluzioni sopranazionali – oltre la destra e la
sinistra tradizionali – l’Italia sarebbe finalmente in grado di creare
una vera destra democratica “sana”, cioè conservatrice di cose che
valgono la pena di essere conservate per il bene dell’intera umanità. È
una critica che vale per tutte le democrazie occidentali e la Gran
Bretagna non è un’eccezione.
4 aprile 2002
(da Ideazione 2-2002, marzo-aprile)
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