La destra e l’anomalia italiana
forum con A. James Gregor, Pasquale Serra, Dino Cofrancesco, Roger Griffin a cura di Riccardo Paradisi

Il percorso che la destra democratica italiana ha intrapreso dal congresso di Fiuggi del 1995 – da quando cioè dalle ceneri del Msi è nata Alleanza nazionale – è ancora in corso. Si tratta di un fenomeno che, per le sue importanti implicazioni politiche – An è un partito di governo, i suoi uomini siedono ai vertici delle istituzioni e governano in importanti realtà comunali e regionali – ha cominciato a destare un interesse non superficiale tra i politologi e gli studiosi. L’inclusione di quello che Piero Ignazi aveva definito il “polo escluso” ha rimesso in moto un ambito di ricerca che oltre a poter contribuire all’analisi del presente della destra italiana, potrebbe offrire spunti circa le ipotesi del suo futuro. Sarà quello di Fini un partito liberal-conservatore o un movimento di destra cattolico-sociale? An entrerà nel Partito popolare europeo? Manterrà la sua autonomia oppure deciderà di confluire in una più vasta aggregazione di centro-destra? Quale di queste prospettive dovrebbe essere la più coerente, quella più utile al Paese, quella più conseguente alla tradizione storica, quella più conveniente al successo politico? In questo forum ne abbiamo parlato con quattro studiosi che da anni analizzano le dinamiche e la cultura della destra italiana: A. James Gregor, docente di Scienza della politica all’Università di Berkeley; Pasquale Serra, storico del pensiero politico e ricercatore al Centro per la Riforma dello Stato; Dino Cofrancesco ordinario di Storia del pensiero politico all’Università di Genova; Roger Griffin, professore di Storia moderna dell’Università di Oxford.

Domanda – Partiamo da un paradosso: nel ’900 italiano non è esistita una forza politica dichiaratamente di destra. La “destra storica” – al di là della formula – ha germinato la sinistra radicale e il liberalismo laico. Quanto al fascismo si percepiva come movimento con origini rivoluzionarie e di sinistra e al limite come esperienza di superamento delle categorie di destra e sinistra. Non si è mai definita di destra la Dc. Con la nascita di An può dirsi superata l’anomalia italiana di una destra latitante o se vogliamo dispersa?

Gregor – A mio giudizio non è la storia la guida migliore per orientarsi nella politica italiana anche perché chi cerca nella storia nazionale dell’Italia può trovarvi davvero ciò che vuole. Giovanni Gentile per esempio ha trovato due anime nel Risorgimento, una delle quali, quella nazionalista, eroica, e tragica, si sarebbe incarnata nel fascismo. Norberto Bobbio invece ha identificato due Italie: una sofisticata, laica e politicamente liberale e l’altra retrograda e pervasa dal familismo amorale. Credo che Giuseppe Prezzolini sia stato più corretto sostenendo, invece, come in Italia sia sempre esistita una corrente sotterranea di conservatorismo emerso in diversi momenti in forme diverse. In circostanze estreme questa corrente si è potuta manifestare anche in forme radicali, come nel caso dell’estrema destra. Mi sembra, però, che Gianfranco Fini abbia cercato di fare di An lo strumento politico moderno del conservatorismo descritto da Prezzolini: pragmatico, riformista, politicamente realista, rispettoso della memoria storica, incline ai valori tradizionali, attento alla giustizia e all’equità.

Tutto ciò passa per la rinuncia alle velleità di ogni genere di utopia o di radicalismo. E questo dimostra che Alleanza nazionale ha assunto una chiara posizione politica che non ha nulla a che fare col fascismo storico. Il quale d’altra parte deve ormai essere riconosciuto e studiato come una manifestazione storica e non attraverso un approccio demonologico e strumentale. Se il nodo del problema è capire che cosa sia stato realmente il fascismo e che cosa del fascismo sopravvive nella cultura politica italiana, sono i luoghi della ricerca intellettuale che devono rispondere a una simile domanda. Per quanto riguarda, invece, la dimensione politica oggi nessuno in buona fede può avere problemi a sostenere che An sia una forza di destra che con piena legittimità partecipa al confronto politico nel duro contesto – fatto di così grandi idiosincrasie – dell’Italia democratica di oggi.

Serra – Penso che il problema della destra sia stato riproposto all’attenzione del pubblico intellettuale in maniera fuorviante. Vi accenna la stessa domanda, del resto, quando suggerisce che la sostanza del problema non verte più sui rapporti tra destra e fascismo, anche se io sarei più cauto nel considerare tale rinnegamento del fascismo come una novità o una prerogativa di An, perché lo stesso discorso, forse, potrebbe essere fatto anche per quanto riguarda il Msi o per alcuni settori di esso. Sottolineo questo punto, perché sono convinto che il modo come si configura, nella modernità, il rapporto tra presente e tradizione (un modo, per dirlo in una battuta, che è tutto sbilanciato sul presente e su di noi, su come noi ci prospettiamo il futuro) fa sì che la domanda centrale che dobbiamo porci nell’analisi della destra non è tanto «a quale fonte» questo soggetto si riferisce, quanto, piuttosto, «che cosa vuol dire» quel soggetto politico quando si riferisce a quella fonte. Per la stessa ragione non riesco ad essere d’accordo quando si afferma che nel ’900 italiano non è mai esistita una forza politica dichiaratamente di destra, perché non solo ritengo che possono esistere e darsi destre che non si definiscono tali semplicemente perché il contesto in cui operano sconsiglia l’uso di questa etichetta, ma ritengo anche che esiste una varietà di destre, e che la novità dell’oggi consiste semplicemente in un mutamento radicale della sua forma: dopo il 1995 noi siamo passati da una destra che teneva conto del dato di massa della società ad una che, forse, pensa che può finalmente non tenerne più conto, se non nella forma del populismo, di un populismo non più pensato, però, come l’ombra della democrazia, ma come uno strumento da giocare contro di essa.

E vengo al tema del fascismo, che è il versante implicito della domanda, per ribadire, molto brevemente, che l’evoluzione di An, di cui stiamo parlando, non coincide con la fine della questione del fascismo, sia perché non è la destra ma la società, il soggetto o il motore in grado di decidere la chiusura o l’apertura di questo problema, sia perché la storicizzazione del fenomeno fascista, che pure deve esserci, non può spingersi fino al punto di prospettare una sorta di strutturale incomunicabilità fra tempi storici diversi, perché questo vorrebbe dire non solo respingere il fascismo fuori dalla storia, ma decretare la fine di ogni interesse del nostro presente per il fascismo stesso, il che, credo, non è, nel senso che è possibile, invece, che la nostra società, nella sua odierna disperazione, possa approssimarsi alle soglie di esso. Il punto che andrebbe indagato, dunque, non è tanto come la destra si colloca di fronte al fascismo, ma come si colloca, invece, e quali funzioni svolge, rispetto alla odierna crisi della democrazia. E qui la situazione non mi sembra molto incoraggiante: perché vi è da un lato una sinistra che continua a sradicare la società e dall’altro una destra che sta lì ad aspettare gli esiti di questo processo. È esattamente in questa cultura dello stare ad aspettare che io vedo, oggi, il “problema-An” e, insieme, il suo limite.

Cofrancesco – Partirei dalla comparazione col “caso francese”. Che la destra in Francia, a differenza che in Italia, abbia sempre posseduto una sua precisa fisionomia è infatti vero, ma solo a livello culturale. Per quanto riguarda, invece, il sistema politico, la Francia presenta una caratteristica inequivocabile di delegittimazione sostanziale di ogni partito e movimento politico di destra che l’accomuna sostanzialmente all’Italia. Né da loro, né da noi c’è mai stata una vera destra di governo, a meno che nella categoria non si vogliano comprendere le formazioni parlamentari moderate, notabiliari e liberal-conservatrici. Il fatto è che il momento cruciale, nello sviluppo di un sistema politico, che gli studiosi designano come “costruzione della nazione”: la Rivoluzione francese, il Risorgimento italiano, è stato segnato da un’ideologia decisamente progressista (ispirata al momento individualistico e razionalistico dell’illuminismo) in base alla quale era la capacità di innovazione – il mutamento radicale – l’unico parametro di legittimità di un governo e di una classe politica.

Ne è derivato che la legittimità riguardasse quasi esclusivamente il “regime politico” – le istituzioni e i valori etico-politici e costituzionali che ne sono a fondamento – non la “comunità politica” e la sua storica “ragion di Stato”. C’è però una differenza cruciale tra la Francia e l’Italia. Nella prima, in virtù della “costruzione dello Stato”, che ha preceduto di secoli quella della nazione, la comunità politica non è mai stata messa seriamente in discussione; nella seconda, a causa della sovrapposizione delle due fasi (costruzione dello Stato e costruzione della nazione avvenute negli stessi anni), ogni insuccesso del regime politico ha fatto vacillare il senso stesso dell’appartenenza allo Stato nazionale.

Va detto – contrariamente ad una corrente, sia pure ragguardevole, dell’ormai ampia storiografia revisionista – che il fascismo italiano si collocò ontologicamente a destra, non in riferimento ai significati classici della dicotomia destra/sinistra, bensì in riferimento al disegno dichiarato di voler fondare consenso e obbedienza su una legittimità riferita, prevalentemente, alla “comunità politica” e non al “regime politico” (dove trovano posto i conflitti tra conservazione e progresso). La tragedia della dittatura e della sconfitta militare ha però, com’era inevitabile, quasi azzerato lo spazio di una destra che, come quella conservatrice inglese, rappresentasse la continuità della nazione attraverso le generazioni, il senso delle tradizioni, stili di vita e di governo la cui scomparsa sarebbero una perdita netta non solo per gli inglesi ma per l’intero Occidente.

Per quanto riguarda Fini, Alleanza nazionale oggi è politicamente un partito, per tanti aspetti, come gli altri – An ha espresso buoni ministri e sottosegretari – ma culturalmente è rimasto, per così dire, in mezzo al guado. Non a caso molte sezioni del vecchio Msi, dopo Fiuggi, si sono date come nome Giorgio Perlasca, uno straordinario “uomo della strada” ma del tutto estraneo all’arena politica (anche se combattente in Spagna e con tessera del Pnf). Un segno inequivocabile di disagio.

Griffin – Dobbiamo essere cauti di fronte all’idea secondo cui ci sarebbe una via naturale verso un sistema democratico che comprende partiti politici di destra e sinistra distinti, maturi e ideologicamente consistenti. Ogni Stato-nazione europeo ha avuto il suo percorso particolare che ha visto il passaggio da organizzazioni politiche dinastiche a reggimenti politici democratici e ospita una configurazione particolare di forze e partiti di destra alcuni dei quali anche con radici storiche in correnti ideologiche che sarebbero adesso considerate antidemocratiche. La maggior parte dei partiti politici ha, al suo interno, componenti e tendenze conflittuali che potrebbero addirittura accostarsi, nelle ali estreme, a forme di estremismo illiberale o antiparlamentare. Uno studio comparativo dei partiti in paesi differenti come Spagna, Olanda, Austria e America ne darebbe una conferma.

La nozione di un’“anomalia italiana” va dunque trattata con cautela. A mio avviso, date le origini di buona parte dei suoi membri e dei suoi leader, e data l’ideologia del Msi, non si può dire che Fiuggi abbia visto la nascita di una destra democratica italiana se non nel senso della democratizzazione di un preesistente partito neofascista. E questo, almeno all’origine, forse soprattutto per ragioni tattiche e programmatiche (malgrado l’arrivo di alcuni sinceri non fascisti provenienti dalla Dc) funzionali a coprire il vuoto lasciato dal collasso della Dc. Da quel momento Fini ha dovuto fare attenzione a tenere fuori il fascismo (come del resto il post-socialista Blair è stato abile ad emarginare l’ala di socialismo intransigente nel New Labour) ma è significativo che debba la sua credibilità e la sua legittimazione all’alleanza con un partito di destra liberale come Forza Italia di Berlusconi.

Si dovrebbe anche sottolineare che ogni nazione europea è così legata a uno spazio economico politico globale che lo spazio di manovra di qualsiasi partito con aspirazioni rivoluzionarie di rinascita nazionale o di creazione di un’alternativa radicale al moderno Stato-nazione capitalista e parlamentare, è limitato (persino la concezione di Tony Blair di una “terza via” è straordinariamente utopica e non realizzabile in pratica: nessun politico moderno può apportare cambi strutturali in uno Stato che fa parte di una comunità globale di nazioni ed economie senza poi essere ostracizzato da quella stessa comunità e da qui essere destinato al tracollo). Ipotizzare una deriva fascista in qualsiasi nazione europeizzata sarebbe oggi totalmente anacronistico e utopico, così che l’esplicita abiura nelle tesi di Fiuggi è forse segno più di pragmatismo e di buon senso che di una reale mutazione. Tuttavia è quanto di più vicino ci possa essere ad una “Bad Godesberg” della destra italiana: un’abiura, cioè, di quella ideologia rivoluzionaria di palingenesi nazionale che era propria del fascismo.

All’interno di An hanno trovato domicilio tre filoni di pensiero che oggi sono considerati gli elementi costitutivi della destra italiana: il filone liberal-nazionale, quello cattolico-sociale e quello nazional-conservatore. Esiste un denominatore comune tra queste anime? Il dibattito che si è aperto dentro An sull’opportunità di entrare nel Ppe è l’indice che esistono differenti impostazioni. Come spiegare questa situazione?

Gregor – Quando noi parliamo in termini generali di gruppi politici in una società democratica cerchiamo di identificare gli elettori potenziali ai quali un partito politico potrebbe fare appello. Negli stessi Usa, come nel caso dell’Italia, c’è una particolare area di opinione che in generale sostiene la riduzione della pressione fiscale, le virtù civiche del lavoro, della responsabilità e della famiglia, che si oppone alle libertà sessuali, allo spreco dei fondi pubblici e al dilagare del crimine. I conservatori poi, generalmente, coltivano un sentimento di orgoglio nazionale pur essendo lontani dagli estremismi sciovinisti e dalla xenofobia. Negli Usa il movimento conservatore trova espressione nel partito repubblicano e partecipa alle regole della normale alternanza al potere. Io immagino che An esiti ancora a entrare nel contenitore europeo dei conservatori perché un’alleanza comporterebbe delle difficoltà per un partito che è ancora considerato neofascista. Agli occhi di molti europei infatti – inclusi molti italiani – An appare come un partito su cui graverebbe un peso di responsabilità storiche. E non manca chi arriva a considerare An erede di un movimento che si era alleato con la Germania di Hitler. Molti intellettuali di sinistra insistono propagandisticamente su questi aspetti soprattutto dopo il totale collasso del marxismo internazionale. An per il momento non dispone dei mezzi per respingere questo tipo di grossolanità e di generalizzazioni, purtroppo potenti e efficaci perché continuamente e universalmente ripetute.

Serra – Non credo che tra i tre filoni vi sia realmente un denominatore comune (né credo, d’altronde, che i singoli filoni rappresentino realmente qualcosa di più delle elaborazioni di singole personalità), non solo perché non può esistere un denominatore comune senza una sintesi culturale, ma anche perché dalla politica dello stare ad aspettare non è possibile elaborare una cultura intesa come qualcosa di diverso dagli umori della società. Da qui, forse, lo scetticismo e le resistenze di alcuni settori del partito; uno scetticismo, credo, legittimo e giustificabile (e che investe punti essenziali della politica e della antropologia di An), anche se non mi è chiaro né dove va o vuole andare tale resistenza, né il modo come si configura, poi, il rapporto tra resistenza e politica.

Cofrancesco – Debbo essere sincero, non credo che le tre anime, alle quali si fa cenno, siano davvero così distinte e rilevanti; anche se per coloro che partecipano intensamente alla vita di An, si tratta di questioni cruciali. Scommetto che un lettore medio del Secolo d’Italia non se ne sia neppure accorto. Quelle distinzioni diventano qualcosa quando si fondano su simboli, su tradizioni, su “individualità cosmico-storiche”, per dirla col vecchio Hegel, che hanno forgiato l’anima della nazione. Nella ridotta misura in cui anche in Italia hanno avuto qualche significato, si tratta, oltretutto, di filoni assimilati ma in gran parte ideologicamente estranei al fascismo storico. I liberal-nazionali erano, sic et simpliciter, la “destra” del più ampio movimento liberale; i nazional-conservatori costituivano la componente autoritaria e antidemocratica del movimento nazionalista; i social-cattolici rappresentavano quella parte del cattolicesimo militante che, dinanzi alle lacerazioni sociali e culturali indotte dalla modernizzazione, pensavano a una nuova comunità organica – caratterizzata da qualche forma di corporativismo. Il rifiuto di molti quadri e militanti di An di confluire in un grande contenitore europeo alternativo alla sinistra – in cui ciascuno di quei tre filoni, se avessero una reale consistenza, troverebbe il proprio “luogo naturale” – è la dimostrazione dell’accennata difficoltà di raggiungere la sponda occidentale.

Griffin – Il denominatore comune di queste anime è l’anticomunismo, l’avversione all’egualitarismo e l’esaltazione – in spirito, però, radicalmente anti-thatcheriano – del primato della società sull’individuo. L’unione, però, è cementata soprattutto dal pragmatismo: questi filoni sono cioè uniti da ciò che non vogliono piuttosto da ciò che sono. La loro prospettiva è del resto la costruzione di un nuovo partito che traduca in consenso il peso politico acquisito nell’era post-tangentopoli. C’è da dire che la componente che resiste all’associazione o all’assimilazione con il conservatorismo britannico tiene indubbiamente un profilo più ideologicamente coerente rispetto a coloro che invece caldeggiano questa scelta, dato il tipo diverso di destra rappresentata dall’autentica tradizione conservatrice liberale (che nel suo passato e nel suo presente ha anche una componente razzista ed elitaria ma mai fascista). Il punto è che il partito conservatore britannico è più antistatalista di quanto potrà mai essere An, non perché più di destra ma perché esso è, in virtù di un’ormai assimilata tradizione storica, più genuinamente liberale, nell’accezione cavouriana che nel diciannovesimo secolo si è data a questo termine.

In Italia si è ormai consolidato un polo di centro-destra, denominato Casa delle Libertà e composto da Lega, Forza Italia, Ccd e da Alleanza nazionale. Il problema che si sta ponendo però An in questo momento è quale dovrebbe e potrebbe essere l’apporto specifico della destra all’interno della coalizione. Di quali princìpi specifici An potrebbe e dovrebbe farsi portatrice all’interno dell’area del centro-destra italiano?

Serra – Sono convinto che la destra potrebbe fare molto o molto di più: potrebbe, per esempio, porre con forza il tema della nazione e della tradizione nazionale; pensare, poi, all’interno di questo tema il problema del pluralismo e quello dell’eguaglianza sociale, economica, territoriale fuori dalla retorica populistica; potrebbe inoltre mettere al centro il tema della sovranità rispetto ad un mondo sempre più dominato dal disordine; potrebbe anche porre legittimamente il tema dell’autorità o dell’ordine, se solo fosse capace di legarlo integralmente alla tematica dello Stato di diritto, piuttosto che usarlo contro di esso; potrebbe, infine, uscire dalla cultura del rancore e della vendetta, che ancora in essa permane, anche perché con tale cultura non è possibile affrontare nessuno dei temi che ho prima elencato. Potrebbe fare, ma, forse, non riesce a fare: ed è questo il punto che andrebbe spiegato.

Cofrancesco – Per svolgere un ruolo specifico e significativo, An dovrebbe diventare un partito liberal-conservatore nazionale, inteso soprattutto a rifondare (ma in senso decisamente a-fascista se non antifascista) una contestata legittimità comunitaria – l’Italia come comunità di destino innanzitutto! – in un’epoca in cui gli Stati nazionali debbono, da un lato, rinunciare a molte prerogative della vecchia sovranità e, dall’altro, attrezzarsi seriamente al fine di ritagliarsi, nel nuovo ordine sovranazionale europeo e atlantico, uno spazio e un ruolo adeguati. An, in altre parole, dovrebbe essere il partito custode delle idealità risorgimentali e determinato a farle valere in ogni grande occasione della vita nazionale, sia pure reinterpretandole alla luce di nuovi tempi e di nuove esigenze.

Fedeltà al Risorgimento significa farsi carico dei bisogni e delle aspettative di tutta la nazione, nelle sue varie articolazioni orizzontali e verticali (sociologiche e geografiche, tanto per intendersi): ad esempio, mettere da parte il mercato e i suoi imperativi quando sono in gioco i posti di lavoro di migliaia di italiani ma, altresì, intervenire con forza allorché alleati di governo, come la Lega Nord, non sembrano rispettare la bandiera italiana. Va detto che davanti ai vilipendi al tricolore, An si è mostrata piuttosto sobria e pragmatica, non ha difeso Mazzini e Cattaneo e, poi, esaltando i caduti di El Alamein, per bocca del ministro Tremaglia, si è ben guardata dal ricordare che, grazie anche a quella sconfitta, oggi viviamo in una democrazia che, per quanto carente, è saldamente legata all’Europa e all’Occidente.

Griffin – Considero false le premesse di questa domanda perché implicherebbero che An sia oggi un partito con un alto grado di coerenza ideologica e di credenziali democratiche tipiche di una tradizionale formazione liberale. Personalmente, credo in realtà che il ruolo che ora occupa An all’interno della politica italiana sia un esempio notevolmente riuscito di “entrismo”. Nel caso specifico del Msi-An questa strategia ha implicato la tattica di usare una politica democratica e di alleanza con forze genuinamente di destra (ieri i monarchici oggi i cristiano-democratici) come un modo di porre fine all’estrema marginalizzazione del fascismo a cui il Msi aveva dovuto necessariamente resistere sin dalla sua fondazione nel 1946. Appropriandosi del ruolo di forza democratica e postfascista molti elementi in An hanno seriamente cominciato a crederci, sicchè oggi molti sinceri democratici possono trovare rispettabile An.

A proposito di legittimità e presunto passato fascista non sono stati pochi a contestare ad An la frettolosità con cui a Fiuggi è stata archiviata una tradizione politica che aveva strutturato la cultura e la mentalità del Msi. Non ci sarebbe stato, secondo questi critici, un dibattito articolato all’altezza della svolta avvenuta. A Fiuggi – è stato detto – il Msi da partito di ispirazione neofascista è diventato, nel volgere di una notte, un partito postfascista e addirittura antifascista (recuperando Croce, Sturzo, addirittura Gobetti). Alla luce di queste considerazioni, l’evoluzione di An è davvero un dato reale e compiuto? E al di làdelle petizioni di principio come giudicare An alla luce dell’azione politica dispiegata nelle amministrazioni comunali e regionali dove la destra governa?

Gregor – Il congresso di Fiuggi ha reso esplicito quello che ormai nella destra italiana era diventato sempre più evidente lungo il corso degli anni. Ricordo quando, molti anni fa, Giorgio Almirante fu ospite a Berkeley all’istituto di studi internazionali dell’Università della California: in una risposta a una domanda che gli venne rivolta apparve evidente a chi lo ascoltava che i cambiamenti nelle posizioni politiche del Msi non erano né superficiali né occasionali ma già profondi e strutturali. Prima di Fiuggi i corporativisti avevano già preso una posizione indipendente nei confronti del Msi, così come i radicali di destra si erano sentiti gradualmente sempre più estranei a questa realtà e gli evoliani, infine, avevano finito col darsi alle pratiche misteriosofiche e alla contemplazione delle verità trascendenti più che alla politica.

Dall’inizio degli anni Novanta era insomma evidente che il Msi stava sviluppando prospettive nuove. A quel punto la composizione del partito era già cambiata anche attraverso il ricambio generazionale. Fini ha semplicemente preso atto di questa realtà. In ultima analisi quindi, secondo me, questo nuovo corso di Fini non solo è reale ma è anche corretto: An ha definito se stessa come una forza di centro-destra all’interno di un sistema di competizione democratica. Il rischio, naturalmente – come ha rilevato Stenio Solinas alcuni anni fa – è che in questo nuovo corso politico manchino “visioni del mondo” e passioni ideali. Ma in fondo è questo che si richiede a una forza politica di centro-destra o a un partito di destra liberal-conservatrice che si muove all’interno di un sistema politico di democrazia rappresentativa.

Serra – Nel volgere di una notte An non ha archiviato la tradizione politica fascista, ma la tradizione impolitica e la cultura del ghetto che aveva strutturato sin dalle origini l’esperienza del Msi. Secondo me, però, lo ha fatto senza pensarci, perché in quel passaggio ha pensato a tutto la società, la quale nel giro di un paio di mesi ha portato il ghetto al governo, semplicemente cambiandolo di segno. Questo è, secondo me, An: una invenzione della società. Non vi è, dunque, un problema di legittimità, per quanto riguarda An, quanto, piuttosto, un problema di responsabilità, la quale si dà solo fuori dal ghetto, laddove si esce dal recinto del proprio sé e si incomincia a definire un proprio ruolo nazionale. In questo senso, e forse, solo in questo senso, si può dire che l’evoluzione di An non è ancora compiuta.

La cosa, come è ovvio, è penalizzante innanzitutto per la stessa An, la quale rischia di offrire di sé un’immagine sempre più sfuocata, o comunque sempre meno distinguibile da quella dei suoi stessi alleati di governo, i quali non a caso – penso innanzitutto a Forza Italia – stanno erodendo parte dei suoi consensi e dei suoi insediamenti tradizionali al Sud. Su questo punto i malumori e le critiche della cosiddetta destra sociale credo che colgano nel segno. E qui diventa cruciale il problema della revisione culturale, nel senso che se An non riesce a fare nessuna delle cose che elencavo nella risposta precedente, e che sarebbe suo interesse fare, è proprio perché non ha compiuto una vera revisione culturale, una rielaborazione del proprio sé, del proprio rapporto col mondo, con gli altri, con la storia, in assenza della quale è semplicemente il ghetto che va al governo, mentre per pensare fino in fondo nazione e democrazia è esattamente la cultura e l’antropologia del ghetto che occorrerebbe mettere radicalmente in questione.

Cofrancesco – A Fiuggi, il partito avrebbe dovuto, per usare celebri metafore, risollevare la bandiera nazionale caduta nel fango, per colpa del fascismo, del suo attacco alle libertà statutarie, delle sue alleanze, delle sue guerre. Ripeto ancora una volta, avrebbe dovuto giocare la difficile carta di una legittimazione riferita alla “comunità nazionale” (“siamo il partito che ha a cuore gli interessi storici e permanenti della nazione e, proprio per questo, condanniamo il ventennio che li ha compromessi”). In tal modo, non sarebbe stata rinnegata del tutto l’eredità del fascismo (interpretabile, ad esempio, come “risposta sbagliata a problemi drammaticamente reali”) ma, nello stesso tempo, si sarebbe lanciato un segnale inequivocabile di accettazione senza riserve della democrazia liberale.

Griffin - Non sono in condizione di giudicare il comportamento di An nel governo. Non fa parte del resto del mio campo di ricerche. Nel 1995 però ho pubblicato nel Journal of Political ideology un’analisi dettagliata delle tesi di Fiuggi. L’articolo dimostrava che An rappresentava ancora un ibrido di liberalismo di destra (o almeno dichiaratamente anti-socialista), di fascismo storico e di neofascismo (del resto i riferimenti nelle tesi ad alcune figure come Giovanni Gentile, il più importante filosofo del regime fascista, Carl Schmitt e Julius Evola ne sono la dimostrazione). Il risultato sarebbe un “fascismo democratico”; il che è storicamente una contraddizione non meno di quanto lo fosse una volta un marxismo democratico o lo siano stati, sin dal loro primo apparire, un monarchismo e un cattolicesimo democratici.

Questo equivoco tra l’altro non riguarda solo la profonda contraddizione tra il ruolo che An vuol giocare adesso sul palcoscenico parlamentare e le origini del partito che affondano nel Msi; ma implica anche le tensioni irrisolte tra un radicalismo antidemocratico – implicito in una concezione organicistica della nazione italiana come nel bisogno urgente di rigenerazione – e un gradualismo democratico che si limita a contrastare le conseguenze della disgregazione sociale e il tramonto delle identità culturali sotto la spinta di forze come la globalizzazione, il materialismo e il multiculturalismo.

In Italia, periodicamente si torna a parlare di cultura di destra. Prezzolini diceva che le anime della destra sono un’infinità. Tra le tante destre possibili quale, secondo voi, dovrebbe essere il filone culturale più utile allo sviluppo di una destra democratica?

Gregor – Il catalogo dei nomi nella tradizione della destra italiana è noto a ogni studente italiano: per limitarsi ai più rappresentativi, ci sono Machiavelli e Guicciardini, Vilfredo Pareto e Roberto Michels, e poi Prezzolini assieme a tutti gli altri realisti e anti-utopisti della tradizione italiana. Meno chiara è la lista dei portavoce della tradizione idealista che costituisce una forte componente antiscientista (non antiscientifica) della cultura della destra italiana. Comunque, qui dobbiamo sicuramente annoverare almeno Croce e Gentile oltre a Ugo Spirito, la cui rilettura non arrecherebbe nessun danno morale o culturale agli italiani. Comunque, in un paese democratico nessun governo e nessun partito politico possono e devono rappresentare tout court una tradizione culturale. Il movimento delle idee va lasciato agli individui e alle scelte personali.

Serra – Secondo me una cultura di destra, in senso specifico, elaborata, cioè, autonomamente dalla destra, non solo non sembra esprimersi, ma quando essa stava, in qualche modo, prendendo forma (penso ad alcune esperienze legate negli anni Ottanta alla rivista Proposta o allo stesso tentativo di revisione culturale elaborato e sperimentato da Rauti nella seconda metà degli anni Settanta), con l’intento di portare consapevolmente la destra sul terreno della democrazia e su quello, non meno impegnativo, della modernità, è stata anche combattuta dalla teorica dell’immobilismo di Almirante, dalla quale discende questa destra: una destra che quanto più non è in grado di fare i conti fino in fondo col passato tanto più è incapace di farli col presente e, cioè, di proporre una idea complessiva dell’Italia, di definire una politica nazionale.

Questa è la destra reale, una destra che non ha mai fatto i conti con la propria storia e che, proprio per questo, non ha la libertà (la quale si da solo quando si ha certezza di sé e del proprio posto nel mondo), di prendere decisioni difficili, come quelle che prima elencavo, o di assumersi responsabilità e, cioè, di rischiare, di osare, di cambiare. Non è solo questione di potere, che pure c’è, ma qualcosa di più: è questione di cultura, in assenza della quale si può anche stare al governo per vent’anni, ma, per dirla con Gramsci, non si fa epoca.

Cofrancesco – Il revisionismo storiografico alla Renzo De Felice e quello all’Augusto Del Noce offrono solidi materiali intellettuali di riflessione e di rifondazione culturale, ma – a parte Marcello Veneziani e qualcun altro – non se n’è accorto nessuno. Alleanza nazionale, in definitiva, ha senso come torysmo italiano: al di fuori di questa collocazione ideologica non avrebbe, secondo me, alcun avvenire. Il guaio è che, il suo, sarebbe un torysmo senza Disraeli e senza Churchill giacché anche quei pochi simboli che potrebbe trovare nella nostra storia – penso a Sidney Sonnino – non hanno alcuna presa sull’immaginario collettivo. La scommessa è difficile, me ne rendo conto, ma, come dicevano gli antichi: hic Rhodus, hic salta.

Griffin – Non possiamo confondere il tentativo in atto sin dagli anni Settanta di creare in Italia una cultura di destra con la necessità di creare una cultura politica di destra democratica. Il primo – indagato anni fa in un ottimo libro di Furio Jesi che si chiamava appunto Cultura di destra – si è sviluppato come risposta all’eurocomunismo e alla nuova sinistra europea sotto l’influenza, da una parte, della Nouvelle Droite francese e, dall’altra del tentativo – successivo al fallimento nostalgico – di creare una cultura intellettuale appropriata alla realtà degli anni Sessanta e al nuovo ingresso dei giovani sulla scena politica. Un tentativo di colmare un deficit storico della società civile italiana che può essere fatto risalire al Risorgimento quando le forze di destra (la Chiesa e gran parte dell’aristocrazia) erano quasi interamente antidemocratiche. In più, non possiamo dare per scontato il fatto che sia possibile identificare a destra una cultura ideologica utile alla costruzione di una destra democratica.

Questa mi sembra francamente una visione semplicistica di come le tradizioni democratiche autentiche si sono sviluppate nel passato (come se alcune nuove pubblicazioni, libri o congressi possano creare un nuovo tipo di cultura politica, una visione dell’importanza delle idee nel plasmare la realtà sociale che si avvicina più all’utopismo idealista che alla vera tradizione liberale europea). Io penso invece che il fattore più importante per creare una vera cultura democratica in Italia, nel senso più idealistico e umanistico del termine e che abbracci naturalmente i poli della destra e della sinistra, debba essere un processo generale che inserisca la storia italiana contemporanea in un più vasto contesto storico europeo e globale. Per il momento le risposte del grande pubblico ai grandi eventi – come per esempio il G8 di Genova, l’immigrazione di massa extracomunitaria, la guerra del Golfo, gli attacchi di Al Quaeda negli Usa o l’emergenza ambientale – sono troppo condizionate dalla miopia, che in inglese viene chiamata ‘brevetempismo’, difetto che il sistema scolare e la cultura media di massa tendono a rafforzare piuttosto che a combattere. Se le reazioni del pubblico fossero invece determinate da una reale comprensione della tragedia umana ed ecologica che si sta producendo a livello globale e dalla necessità di soluzioni sopranazionali – oltre la destra e la sinistra tradizionali – l’Italia sarebbe finalmente in grado di creare una vera destra democratica “sana”, cioè conservatrice di cose che valgono la pena di essere conservate per il bene dell’intera umanità. È una critica che vale per tutte le democrazie occidentali e la Gran Bretagna non è un’eccezione.

4 aprile 2002

(da Ideazione 2-2002, marzo-aprile)