Il prezzo della demonizzazione dell’avversario
di Giuseppe Pennisi
Conoscevo Marco Biagi dalla metà degli anni Ottanta, quando eravamo
ambedue docenti al Bologna Center della Johns Hopkins University.
Avevamo interessi professionali convergenti; Marco era un giuslavorista
di grande spessore e i miei studi si stavano orientando sempre più dalla
teoria e politica della valutazione degli investimenti all’economia del
lavoro. Era, quindi, naturale che la nostra frequentazione non fosse
solo occasionale. Appartenevamo anche al filone culturale comune dei
riformisti, che vedevano nell’integrazione internazionale dell’Italia e
nel riassetto strutturale ad essa conseguente la strada per una società
non solo più prospera (per tutti) ma anche più moderna e più giusta. Era
il percorso che veniva allora ostacolato da chi tentava di mantenere
invariato il meccanismo di indicizzazione della scala mobile e di
irrigidire ulteriormente le regole del mercato del lavoro, a favore dei
pochi insider (ossia coloro che vi erano entrati e godevano di un posto
di lavoro a tempo indeterminato) contro il crescente numero di outsider
(il crescente numero che restava fuori dallo steccato, principalmente
donne, giovani e senza lavoro). La nostra frequentazione si fece più
intensa negli anni in cui dirigevo l’ufficio per l’Italia
dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) che nel libro
“Flessibilità e disoccupazione: il caso Italia” conduceva una critica
serrata contro quelle forze reazionarie che dello steccato avevano fatto
il proprio vessillo. Biagi era approdato a Roma, nella veste di
consulente del ministero del Lavoro, con il governo Prodi e vi era
rimasto sia durante i quattro governi a guida centrosinistra sia dopo il
cambiamento di maggioranza: nella seconda metà degli anni Novanta e nel
primo scorcio del nuovo secolo, la sua opera di consulenza per le
autorità pubbliche (che gli aveva anche comportato una drastica
riduzione dell’attività professionale) aveva un tema fondante: il
riassetto della normativa del lavoro e degli ammortizzatori sociali come
passo essenziale per quell’Italia, al tempo stesso, più prospera, più
moderna e più giusta su cui i riformisti puntavano sino dalla fine della
“notte della Repubblica”, all’inizio degli anni Ottanta.
Perché è diventato il simbolo da eliminare fisicamente? “I nemici della
modernità”, documenta Luciano Pellicani in un libro recente, possono
cambiare nome, simbolo, imparare il lessico, ma restano sempre tali: non
avendo altri argomenti nei confronti del nuovo sempre e costantemente in
arrivo, si abbarbicano all’indignazione permanente ed alla
demonizzazione dell’avversario. Tale demonizzazione, scrive Roberto
Toscano, una delle menti più lucide della nostra diplomazia nel libro
“Il volto del nemico”, comporta inevitabilmente l’eliminazione fisica
dell’avversario, come dimostrato dal lungo filo rosso dalle tribù
primitive ai totalitarismi, e al totalitarismo più crudele (il
comunismo) di cui molti oggi sedicenti “liberali” si sono nutriti.
Parafrasando il titolo di un romanzo di alcuni anni fa, Marco era
“l’uomo che doveva morire”; così come lo erano Ezio Tarantelli, Massimo
D’Antona e tanti altri. Rappresentava quel paese più prospero, più
moderno e più giusto che vuole soprattutto dire “più libero”. Era,
quindi, il nemico, non l’avversario, di chi vede nelle libertà
l’antidoto alla propria concezione del mondo e della politica, di chi
utilizza la violenza verbale e di piazza (unitamente alle congiure di
palazzo) per rovesciare i governi risultanti da libere elezioni, di chi
cerca di isolare l’Italia dall’integrazione economica internazionale
(dopo averlo fatto nel 1958, opponendosi al Trattato di Roma, e nel
1978, agli Accordi di Cambio europei alla base dello Sme, il Sistema
monetario europeo).
Su ItaliaOggi del 19 marzo ho ricordato una delle recente pubblicazioni
di Policy Network, il pensatoio della “sinistra riformista europea”, per
sottolineare come le tesi di sostanza e le strategie di demonizzazione
delle sinistre italiane (tanto di quelle riunitesi quel giorno al Teatro
Eliseo quanto di quelle presenti al Teatro Quirino) siano lontane dal
pensiero d’Europa – così distanti da essere diventate un gruppuscolo
giacobino (nel quadro complessivo europeo) di fatto autoesclusosi dal
movimento riformista del resto del continente. Proprio la sera del 19
marzo, veniva ucciso Biagi quasi a provare che il giacobinismo colpisce
gli individui quando non ha strumenti per colpire le idee e il
funzionamento dei sistemi democratici. E’ il giacobinismo – scrive Daron
Acemoglu in un bel saggio con dimostrazione econometrica (oltre che
storica) – dei “politicamente perdenti”, intrinsecamente reazionari,
pronti ad utilizzare qualsiasi arma per bloccare il progresso.
Il sangue di Biagi dovrebbe indurre chi ha alimentato la campagna di
odio, chi ha travisato i fatti in materia di riforme del mercato del
lavoro, degli ammortizzatori sociali e della previdenza ad
autoesiliarsi, ove non dall’Italia, dalla vita politica e sindacale per
riflettere sulle conseguenze delle proprie parole e azioni e
sull’avvelenamento della società che hanno comportato. Dovrebbe indurre
il sindacato a prendere la rotta del dialogo sociale per facilitare la
transizione verso il cambiamento, non la difesa (a qualsiasi costo e
prezzo) di un passato sempre più remoto; lo afferma la stessa Oil che
non può certo venire demonizzata come organizzazione padronale. Non
farlo potrebbe dire altro sangue. Il conto di essere “politicamente
perdenti” sarebbe più salato. Perderebbero lo stesso, forse anche più
rapidamente. La storia dell’umanità ci insegna che il cambiamento può
essere frenato, che si possono imporre contraccolpi nel suo percorso ma
che la modernizzazione non può essere impedita.
22 marzo 2002
gi.pennisi@agora.it
(da ItaliaOggi)
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