"Colmare il divario, anche in casa nostra"
intervista a Lucio Stanca
di Andrea Mancia
Dopo una vita passata all’IBM, con incarichi sempre più prestigiosi ed
impegnativi, Lucio Stanca affronta, come ministro per l’Innovazione e le
Tecnologie, la “missione impossibile” di traghettare l’Italia e la sua
burocrazia nel mare agitato della rivoluzione digitale. Una sfida che
l’ex presidente di IBM Italia affronta con insospettabile ottimismo,
spinto un approccio schiettamente imprenditoriale alla risoluzione dei
problemi concreti, ma anche – e questa è una sorpresa – da una visione
“globale” del mondo e del progresso tecnologico che non sembrano
appartenere alla tradizione di mediocrità instaurata dai
ministri-tecnici che hanno partecipato al governo del nostro Paese.
Gli ultimi dati sul “gap” tecnologico che separa
il nord e il sud del mondo sono allarmanti. Meno dell'1 per cento degli
africani e degli asiatici (Giappone escluso), ha accesso ad Internet. E
nella sola New York ci sono più accessi che in tutto il continente
africano. Nel 2001 l’Italia, con la presidenza del G8, è stata a capo
della task force che si occupa del “digital divide”. Quali sono le
iniziative che il nostro governo intende portare avanti?
Il tema è interessantissimo. E in Italia è poco compreso o seguito in
modo disattento. Il “digital divide”, però, non riguarda solo il nord e
il sud del mondo. Si tratta di un divario che può assumere tante forme
diverse: tra gli anziani e i giovani, per esempio, ma anche tra i ricchi
e i poveri, il centro e la periferia, il nord e il sud dell’Italia.
Cercare di comprendere quali possano essere le politiche più appropriate
per eliminare o almeno ridurre questo divario mi sembra un tema di
grandissima attualità, soprattutto per un Paese come il nostro che vive
in un’era post-industriale come quella della società dell’informazione.
Partiamo dall’Italia, allora. Quali sono le
politiche che potrebbero aiutare a colmare il “digital divide” interno?
Sicuramente una “politica dell’attenzione” nei confronti di
questo fenomeno. Poi bisogna imparare ad utilizzare le risorse
finanziarie in modo giusto. Proprio su questo tema, per esempio, oggi
sono a disposizione grandi quantità di risorse finanziarie, soprattutto
stanziate dall’Unione europea. Ma non sempre si è capaci di utilizzarle
in modo efficace. E lo stesso discorso si può fare per le risorse messe
a disposizione del Mezzogiorno a livello nazionale. L’efficienza è una
priorità, dunque, perché si può spendere molto, ma senza riuscire a
ridurre il divario in maniera rilevante.
Lei fa spesso riferimento al benchmarking come
metodo di misurazione dei risultati…
Il benchmarking è fondamentale e ha un valore politico enorme. La
competizione, anche tra enti pubblici o locali, è uno strumento
particolarmente efficace che noi abbiamo intenzione di usare molto
spesso in questo ministero, una volta definiti gli obiettivi strategici,
per capire come e a che velocità le varie amministrazioni si muovono
verso questi obiettivi.
Uno degli obiettivi del suo ministero è quello di
potenziare la rete nazionale della pubblica amministrazione, ma in tutte
le sue dichiarazioni si avverte anche una forte spinta verso il
decentramento. Come intende conciliare questa voglia di decentramento
con l’esigenza di questa standardizzazione a livello nazionale?
Se vogliamo che l’Italia resti un unico Paese, abbiamo bisogno di
standard nazionali. Io uso sempre, in questo caso, l’esempio delle
autostrade. Vogliamo che ogni regione stabilisca autonomamente i propri
codici stradali? Naturalmente no. Gli standard nazionali facilitano la
coesistenza, soprattutto quando parliamo di una infrastruttura digitale
in cui la rete nazionale deve convivere con reti locali e regionali. E
non è solo un problema di reti, ma anche di tanti altri standard. Ma
questi sono fattori di base che non incidono sull’autonomia, sulla
capacità e la responsabilità politica. Perché decidere di offrire un
servizio invece di un altro o di affrontare una priorità invece di
un’altra, resta compito di chi ha le responsabilità politiche, a livello
locale, regionale o nazionale. Bisogna distinguere i fattori
“abilitanti”, che favoriscono la nascita e lo sviluppo di una società
dell’informazione in Italia (fattori che sono tecnologici e non solo
tecnologici, basti pensare alla formazione) dalle scelte politiche che
devono essere compiute ai vari livelli. L’obiettivo non è la rete, che è
e deve restare uno strumento, ma la trasformazione della pubblica
amministrazione, centrale e locale, per migliorare la sua efficienza
complessiva. E risparmiare il denaro dei contribuenti.
Qualche esempio concreto?
L’e-procurement: grazie alle aste elettroniche siamo riusciti ad
acquistare un grande numero di proiettori per le università, ad un
prezzo inferiore del 30 per cento rispetto a quello che gli atenei
avevano speso acquistando ognuno per conto suo con metodi tradizionali.
Ma l’efficienza dimostrata in questo esempio, come in molti altri casi,
non è il nostro unico obiettivo. Puntiamo molto, infatti, anche a
migliorare la qualità dei servizi offerti al cittadino e alle imprese.
Il concetto di poter usufruire di servizi in rete è una piccola
“rivoluzione copernicana”, perché mette la pubblica amministrazione a
disposizione del cittadino ventiquattr’ore su ventiquattro, anche a casa
sua.
Questo, però, presuppone altre due “rivoluzioni”:
permettere a tutti di avere le stesse opportunità di accesso e formare
in modo adeguato il personale della pubblica amministrazione…
Anche i cittadini devono essere formati adeguatamente. Anche se questo
colloquio con la pubblica amministrazione non deve essere costruito
soltanto attraverso i computer. Dobbiamo cercare di prevedere gli
sviluppi tecnologici futuri. Nel caso di alcuni servizi particolarmente
semplici, per esempio, è anche possibile sperimentare un utilizzo della
telefonia cellulare e della televisione digitale interattiva. Penso
inoltre alla creazione di “call center” raggiungibili semplicemente
attraverso il telefono che abbiamo, al proprio interno, una
infrastruttura informatica “invisibile” all’utente finale. Dobbiamo
prevedere una molteplicità di di accessi, insomma, anche se sono
convinto che tra pochi anni la stragrande maggioranza degli italiani
avrà almeno almeno un personal computer in casa. Anche la pubblica
amministrazione, iniziando ad offrire questi servizi in rete, potrà
contribuire alla formazione dei cittadini.
Quali sono gli strumenti più efficaci per
contribuire ad uno sviluppo dell’alfabetizzazione informatica in Italia?
Prima di tutto la scuola. E la riforma Moratti, molto attenta
all’innovazione tecnologica, è sicuramente un grande passo in avanti. Ma
non dobbiamo affidarci soltanto alla pubblica istruzione: dobbiamo anche
facilitare l’accesso alla rete dei cittadini più anziani. Vedo con
favore, per esempio, il progetto della Confcommercio di collegare in
rete gli 800mila punti di vendita al dettaglio per trasformare i
registratori di cassa in altrettanti terminali collegati ad Internet. I
modi di accesso, insomma, possono essere diversi, insomma, e molti di
essi possono anche essere di aiuto a chi non sa utilizzare queste
tecnologie.
Quando poi arriverà la carta d’identità
elettronica…
La carta d’identità elettronica è uno dei due principali fattori
“abilitanti” per arrivare ad una trasformazione completa della pubblica
amministrazione italiana. Uno già esiste, la firma digitale, che ha
anche valore legale. L’altro, anch’esso uno strumento di riconoscimento
digitale, è proprio la carta d’identità elettronica. Un documento che
non avrà più caratteristiche soltanto fisiche ma che ci servirà per
connettersi con la pubblica amministrazione in rete, grazie alla
memorizzazione di alcuni dati personali su un microchip.
Per l’accesso da casa, però, diventa necessario
acquistare un lettore aggiuntivo per il proprio personal computer…
Sì, un piccolo lettore dal costo di poche decine migliaia di lire. Ma si
tratta di un fastidio di poco conto, se si pensa ai vantaggi che
potremmo ricevere dal salto di qualità di una pubblica amministrazione
che inizia ad occuparsi anche di transazioni online, come pagare le
tasse, fare una denuncia, cambiare residenza.
Un modello quasi “business”, che prevede dei
grossi investimenti anche in termini di potenziamento della sicurezza…
Certamente. Una rete con standard elevatissimi di sicurezza è uno dei
fattori “abilitanti” di cui parlavo prima. E, visto che si tratta di una
una rete nazionale che mette in collegamento amministrazione centrale e
amministrazioni locali, si tratta di uno sforzo complessivo che deve
prevedere anche piani e strategie regionali. La sicurezza, in ogni caso,
non è soltanto un problema tecnologico. Il problemà è più di competenze,
organizzazione e metodologie. Dopo l’11 settembre, poi, bisogna pensare
anche alla sicurezza “fisica” dei sistemi e alla necessità di sviluppare
sistemi di “backup remoto”.
Che tempi di attuazione possiamo prevedere?
I tempi sono un fattore fondamentale. Nel “Testo unico delle
disposizioni legislative in materia di documentazione amministrativa”
elaborato dal governo precedente, invece, di tempi non se ne parla
proprio… Il ministro Bassanini ha lavorato bene su questo versante e ha
prodotto un enorme (forse troppo) sforzo legislativo, ma in tutto il
Testo unico non cè una sola data d’attuazione. Non voglio assolutamente
criticare chi mi ha preceduto, ma ci è stata lasciata una sfida
imponente che noi adesso dobbiamo essere in grado di raccogliere. Per
fissare obiettivi e date credibili. Faccio un esempio pratico: il
“protocollo informatico”, che dovrebbe servire a controllare una pratica
amministrativa in ogni fase per misurarne esattamente il workflow, il
flusso di lavoro. Uno strumento eccezionale reso ancora più eccezionale
dalla possibilità che avrà il cittadino di sapere, attraverso un
semplice collegamento online, a che punto dell’iter burocratico si trova
la pratica che lo riguarda. Questa, oggettivamente, sarebbe una
bellissima applicazione…
Sarebbe?
Sarebbe. Perché nel Testo unico manca una data. Si tratta di cinque,
dieci o vent’anni? Anche perché, se il “protocollo informatico” sarà
attivo entro 3 anni si tratterà di una grande rivoluzione per la
pubblica amministrazione del nostro Paese. Ma se ci vuole qualche
decennio è tutta un’altra storia. Il nostro sforzo, dunque, sarà quello
di definire tempi fattibili e poi mettere in piedi le capacità per
raggiungere questi obiettivi.
Parlando di tutti gli argomenti contenuti nel
testo unico, quali sono le priorità?
Qui non c’è quella che io considero la priorità fondamentale, e cioè
portare tutti i servizi della PA su Internet.
Affrontiamo un problema delicato. Il suo ministero
ha da poco pubblicato il rapporto elaborato dalla task force sulla banda
larga. Quali sono le conclusioni a cui siete giunti?
Abbiamo capito che la la banda larga è un “ambiente”, non solo un fatto
tecnologico. La banda larga è un insieme di infrastrutture tecnologiche
e di servizi. Noi ci siamo concentrati su tutti e due gli aspetti,
ascoltando il parere di 36 attori a livello nazionale e degli esperti
internazionali. Un buon lavoro per capire a che punto il Paese si trova
in questo momento.
E a che punto ci troviamo, precisamente?
Siamo in una situazione peggiore rispetto agli altri Paesi
tecnologicamente sviluppati. L’assenza di totale della televisione via
cavo ci fa partire svantaggiati, naturalmente, ma in Italia possiamo
contare su rete telefonica avanzata capace, potenzialmente, di sfruttare
fino in fondo le tecnologie xDSL. E’ vero che la fibra ottica garantisce
una larghezza di banda quasi illimitata, ma è altrettanto vero che il
doppino telefonico può essere sufficiente per la maggior parte delle
applicazioni.
Per sfruttare fino in fondo la rete telefonica
nazionale, però, il “collo di bottiglia” diventa Telecom…
Anche per risolvere questo problema il nostro rapporto si rivolge
all’Autorità Antitrust e non solo a quella per le Telecomunicazioni.
Dobbiamo essere certi che ci siano tutte le condizioni di competitività
e di apertura del mercato, a partire dallla liberalizzazione dell’ultimo
miglio, che è una condizione fondamentale.
La liberalizzazione dell’ultimo miglio non
dovrebbe essere già operativa da tempo?
Sì, ma si tratta di un processo particolarmente difficil, non solo in
Italia. Esistono mille ostacoli burocratici invisibili che rallentano
gli sforzi delle imprese. Si tratta di un problema comune a tutta
Europa.
Torniamo al “digital divide”, ma questa volta
sotto il profilo delle relazioni internazionali. A parte le iniziative
assunte con gli altri Paesi del G8, l’Italia ha intenzione di seguire
una propria strategia specifica?
L’Italia si sta concentrando sull’e-government. Abbiamo messo in piedi
un gruppo di una quindicina di ottimi consulenti, provenienti
dall’industria privata, che ha lavorato per elaborare un “modello di
riferimento” partendo dalle migliori esperienze mondiali in questo
campo. Ora stiamo contattando alcuni paesi, soprattutto dell’area
mediterranea e balcanica, per offrire loro la nostra collaborazione
nell’attuare, in tutto o in parte, questo modello. Si tratta di un modo
assolutamente nuovo – ed estremamente concreto - per aiutare i Paesi in
via di sviluppo a sfruttare al meglio le possibilità di crescita offerte
dal progresso tecnologico. Meglio, molto meglio, che distribuire
finanziamenti solitamente utilizzati per l’acquisto di armi o per
l’arricchimento personale della classe politica. In più bisogna tenere
conto che spesso, in questi Paesi, il vero traino per lo sviluppo è
rappresentato dalle stesse pubbliche amministrazioni locali. E avere una
burocrazia più trasparente ed efficiente può essere un fattore decisivo
per attrarre investimenti dall’estero e produrre ricchezza per il Paese.
Questo è il senso profondo della nostra iniziativa. All’inizio di
aprile, poi, organizzeremo una grande conferenza a Palermo proprio sul
tema del “digital divide”, mentre a giugno, nel corso del summit G8, il
presidente Berlusconi presenterà una relazione sul nostro progetto di
e-government per i Paesi in via di sviluppo.
E il divario che separa l’Italia dal Nord America
e dai Paesi europei ad alta alfabetizzazione informatica potrà mai
essere colmato?
Io sono ottimista. Pensi alle esperienze che ha fatto questo paese in
altre tecnologie, come la televisione, la telefonia mobile o l’industria
automobilistica: siamo partiti indietro, ma abbiamo recuperato in fretta
il tempo perduto. Anche nel caso dell’informatica e delle
telecomunicazioni ci siamo mossi con grave ritardo, ma se si analizzano
i tassi di crescita delle industrie italiane ICT (Information
Comunication Technology) nel 2001, si vede come abbiamo già superato la
media europea. Sono convinto, sunque, che presto arriveremo ai livelli
dei Paesi più avanzati. Non esiste alcuno motivo particolare per cui gli
italiani, che utilizzano tutte le tecnologie che la scienza ci h messo a
disposizione negli ultimi cinquant’anni, non debbano essere all’altezza
anche nel campo dell’informatica e delle telecomunicazioni.
Un motivo potrebbe essere la lingua.
Ormai il versante italiano della rete è estremamente sviluppato, e poi i
ragazzi imparano l’inglese proprio grazie ad Internet. Esiste, questo è
vero, un problema generazionale. Probabilmente poche persone anziane,
oggi, hanno la voglia o le capacità di imparare ad utilizzare un
personal computer, questo è normale. Ma un televisore interattivo
digitale o un telefono sono molto più semplici da usare.
Lei prevede un futuro non solo fatto dai computer,
dunque?
Io sono convinto che i personal computer rimarranno sulle nostre
scrivanie, perché si tratta di strumenti potenti e versatili. Ma la
maggior parte dell’elettronica è destinata a siventare “invisibile” agli
occhi dell’utente finale, come sta accadendo con le automobili
dell’ultima generazione. Tutto, o quasi tutto, sarà gestito da
microprocessori, ma il digitale sarà sempre più “under the cover”.
Almeno fino a quando durerò l’attuale fase di
espansione del progresso tecnologico…
Gli scienziati, almeno per i prossimo dieci o quindici anni, non
prevedono rallentamenti nelle curve di miglioramento della potenza e
della miniaturizzazione dei microprocessori. Si tratta di uno sviluppo
tecnologico senza limiti, che fa quasi paura. Il limite vero, in ultima
analisi, è la capacità dell’uomo di utilizzare la tecnologia, di
dialogare con le macchine, di progettare le applicazioni giuste invece
di quelle inutili. Il vero problema non è lo sviluppo tecnologico in sé,
ma il rapporto tra l’uomo e la propria conoscenza.
15 marzo 2002
anmancia@tin.it
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