Essere all’altezza della sfida terroristica
di Domenico Mennitti
Il terrorismo degli anni Settanta fu l’espressione finale e disperata
dei movimenti del ’68, nati nelle scuole, riversatisi nelle strade,
infine malinconicamente giunti alla conclusione che il mondo, questo
mondo, resiste a tutti gli assalti. Non si può cambiare tutto insieme e
a colpi di spallate. “Il problema dei giovani – sosteneva Benedetto
Croce – è quello d’invecchiare” e la saggezza del filosofo si abbatté
inesorabile anche sui giovani sessantottini. Dopo alcuni anni di
milizia, cominciò il riflusso nel privato e restarono sul campo gli irriducibili,
quelli che non sapevano darsi una ragione del destino ineluttabile e si
diedero alla clandestinità, nella quale confluirono gli esclusi da ogni
forma di partecipazione alla vita pubblica.
Naturalmente esprimevano tesi deliranti; soprattutto erano più comunisti
dei comunisti del Pci, ai quali ultimi essi facevano carico di dar
corpo, attraverso il compromesso storico, alla vocazione ad occupare il
potere. Non riuscendo ad arrivarci da soli, in forza delle proprie idee
e dei propri consensi, raggiungevano lo scopo alleandosi con la Dc, lo
strumento prescelto dalle forze del male per tenere l’Italia sotto
scacco. A parte il delirio del pensiero e la scia di sangue con cui il
terrorismo segnò il proprio cammino, esso fu la ridotta degli
emarginati, prodotti in gran misura da un sistema politico che, per
reggere le sue logiche perverse, era attento non a coinvolgere, anzi ad
isolare e criminalizzare larghe fasce dell’opposizione.
Gli eventi hanno avuto lo sbocco politico che conosciamo sino alla
sconfitta del terrorismo, che però nel nostro paese aveva a sua volta
prodotto una struttura organizzativa occupata da un piccolo esercito di
burocrati, che in parte si sono riciclati in nobili professioni,
soprattutto quella dell’informazione, in parte sono rimasti chiusi in
ambiti ristretti, dove ex giovani pur in età di canizie hanno
continuato a vivere come se la rivoluzione fosse sempre in atto. E’
sembrata, anche agli organi di polizia, una patetica sopravvivenza
nostalgica, la rivendicazione di una scelta esistenziale divenuta
irreversibile soprattutto nel linguaggio e nell’abbigliamento. Perciò
inoffensiva. In verità questi circoli definiti “sociali”, garantiti dal
generoso contributo degli enti locali, sono stati il luogo dove il virus
della violenza ha continuato a coltivarsi, si è sottratto alla
distruzione: si sa che sta lì, debole e all’uopo anche pericoloso. Chi
sa manovrare questo ordigno sa che lo si può fare esplodere in qualsiasi
momento.
Ora è difficile dire quanto l’assassinio possa riproporre in quantità e in
efferatezza il tema del terrorismo nella vicenda politica del paese;
però qualche misura di prevenzione è bene venga assunta, tenendo conto
di tutto quanto è cambiato dalla terribile stagione degli anni di
piombo. In positivo c’è che quella vicenda, nella quale alcune
generazioni hanno bruciato la loro giovinezza, è fallita. Politicamente
e operativamente. Se allora qualcuno sperava che l’assassinio potesse
partorire un cambiamento nella società, oggi nessuno più lo pensa, né
ufficialmente lo predica. Ma qualcuno forse pensa che possa servire a
bloccare la società, a conservarla ingessata, a paralizzare il processo
di modernizzazione. E siccome l’emarginazione è un malessere che la
politica non ha superato, anzi nelle sue espressioni più recenti ha
addirittura aggravato, ci può essere chi ritiene che eccitare i
disperati sia congeniale a un disegno di intimidazione.
E’ presto per trarre conclusioni, però qualche ammonimento alla classe
dirigente è opportuno. Questa società politica va organizzata: rispetto
agli anni Settanta, i partiti in Italia sono in crisi perché, efficienti
nell’organizzare la disciplina, si sono mostrati insufficienti ad
organizzare la libertà. E’ questo il salto di qualità che ha sprofondato
in una crisi ancora irreversibile i partiti, che è come fossero
inconsapevoli del grande cambiamento intervenuto nella società italiana,
nella quale la libertà, appunto, ha fatto irruzione quale esigenza
fondamentale ed insopprimibile. Questi partiti, che “battono” ancora
tessere e non garantiscono partecipazione, appaiono francamente
inadeguati a fronteggiare un fenomeno quale il terrorismo. E, senza la
loro mediazione, è difficile che la società civile possa esprimere da
sola una reazione concreta, popolare, diffusa. Ci sono momenti in cui i
palazzi delle istituzioni diventano sedi dalle quali i cittadini si
sentono lontani, addirittura esclusi. Sono questi i momenti in cui il
movimento politico assume il ruolo, che più gli è proprio, di
collegamento fra lo stato e la società. Il fatto che il tramite oggi non
ci sia e che i partiti si ritrovino, a sinistra ed a destra, isolati
nelle rappresentanze istituzionali costituisce una difficoltà per fronteggiare la
ferocia degli assassini. La disorganicità della società politica è il
terreno di coltura della loro isolata ferocia.
Questa riflessione è propedeutica all’altra che riguarda il tono del
dibattito politico. Noi non pensiamo che in democrazia si debbano
abbassare i torni della polemica per il timore che “le parole diventino
pallottole”. Il linguaggio della politica è uno dei misuratori della
responsabilità dei partiti e dei dirigenti. Però una cosa è il tono del
dibattito, altro è disconoscere all’avversario la legittimità ad essere
interlocutore. Questo è il peccato della sinistra, in particolare di
quel ceto intellettuale che, per conservare i privilegi, non esita a
criminalizzare l’avversario, insensibile al fatto che così si
criminalizzano le figure istituzionali, si legittima il ricorso all’uso
di “qualsiasi mezzo”. C’è chi fa il duro per mestiere, sapendo che non
dovrà mai passare dalle parole ai fatti, e chi non capisce la
strumentalizzazione dei furbi, li prende in parola e passa alle vie di
fatto. La storia dei furbi che eccitano e degli stupidi che li prendono
sul serio è vecchia, e però non si chiude mai.
22 marzo 2002
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