Madrid-Roma-Londra, le capitali della nuova Europa
di Pierluigi Mennitti


All’improvviso è uscito allo scoperto. José Maria Aznar, l’artefice del tanto lodato miracolo spagnolo, ha approfittato della prima tribuna offertagli in qualità di presidente di turno dell’Unione Europea (da gennaio è iniziato il semestre spagnolo) per affondare la sua lama contro “le maggioranze socialiste europee” che frenano le politiche di liberalizzazione necessarie a dare un nuovo impulso all’economia continentale. Un attacco sorprendente, soprattutto perché giunge da un politico navigato ed esperto, sempre diplomatico nelle relazioni internazionali, da tempo buon amico di quegli stessi uomini di governo infilzati dalle sue accuse.

Sul banco degli imputati, appunto, i governi socialisti europei. La Germania di Gerhard Schroeder, appena salvata dal monito ufficiale per i conti pubblici pericolosamente fuori registro. La Francia di Lionel Jospin, la cui trovata delle 35 ore settimanali non ha prosciugato di un millilitro il grande mare della disoccupazione transalpina. Il Portogallo di Antonio Guterres, appollaiato in un immobilismo politico che ha portato in pochi anni il paese iberico dal miracolo alla stagnazione. Ma non tutti i governi socialisti. Fuori dal mirino è rimasto il britannico Tony Blair che da oggi è in visita a Roma per un summit con Silvio Berlusconi che si preannuncia ricco di convergenze sui temi economici. Gli esperti dei due governi hanno messo a punto un piano comune articolato in cinque capitoli: dal lavoro alle liberalizzazioni dei mercati energetici, dalle pensioni alle nuove tecnologie alle piccole e medie imprese. Aznar, Blair, Berlusconi. E’ attorno a questi vertici che si sta ridisegnando una nuova alleanza europea, che punta a introdurre riforme liberali nell’economia continentale per supportare la moneta unica appena finita nelle tasche di quasi tutti i cittadini europei.

Il rimescolamento degli equilibri europei assume un decisivo profilo politico. L’alleanza fra tre governi politicamente eterogenei, due di centrodestra e uno laburista, testimonia quanto il cleavage tradizionale “destra-sinistra” sia venuto meno anche in campo europeo. La distinzione è ormai tra quei leader che hanno compreso la necessità di porre mano a una riforma dell’economia in senso liberista e quanti invece pensano di mantenere protezionismi statali (come quello della Francia nell’energia e della Germania nell’auto). Tra coloro che ritengono indispensabile aprire il mercato del lavoro (Aznar: “Non c’è nemico peggiore per un disoccupato della rigidità del mercato lavorativo”) e quanti paiono rassegnati a subire una crescita della disoccupazione (Schroeder) o a inventare palliativi tipo 35 ore settimanali (Jospin). La competizione con gli Stati Uniti può essere sostenuta solo a patto di modernizzare l’economia europea. L’alternativa è la deriva giapponese, un lento e inesorabile abbandono verso le sponde della marginalizzazione.

15 febbraio 2002

pmennitti@hotmail.com