L’opposizione che non c’è
di Renzo Foa
Toccò a François Mitterrand, più di un quarto di secolo fa, trovare una
buona definizione del ruolo dell’opposizione. Era il 1974, all’indomani
della vittoria di Valery Giscard d’Estaing, terzo presidente della V
Repubblica, e quindi all’indomani dell’ennesima sconfitta della gauche.
Il leader del Ps avrebbe dovuto aspettare ancora sette anni prima di
salire all’Eliseo, un’altra stagione di attesa in una Francia dove dal
1958 governava una destra che si era preso tutto. “Da un po’ di tempo –
disse Mitterrand, in un’intervista al Nouvel Observateur – si parla
molto di uno statuto dell’opposizione. Questa espressione è strana. In
una democrazia l’opposizione ha il suo statuto naturale: appartiene alla
vita della nazione, partecipa alle istituzioni, dispone del diritto e
dei mezzi di esprimersi, del diritto e dei mezzi per esercitare un
controllo. Semplicemente non governa e deve inchinarsi davanti alle
decisioni della maggioranza. Ma vorrei ricordare che per quindici anni
l’opposizione è stata esclusa dalla presidenza delle commissioni
parlamentari, non le è stata attribuita alcuna relazione su un bilancio
o su un progetto di legge, che le sue proposte di legge non sono state
mai messe all’ordine del giorno dei lavori dell’aula, che i suoi
emendamenti sono stati respinti senza neanche essere discussi, che non
siamo stati mai chiamati a rappresentare il nostro paese all’estero in
una delegazione ufficiale, che siamo stati incredibilmente maltrattati
alla radiotelevisione nazionale e cancellati da quella regionale... Ecco
perché lo statuto dell’opposizione non può essere altro – e sarebbe già
un progresso – che un codice di buon uso delle democrazia”. La polemica,
evidente, era nei confronti del modo in cui De Gaulle e i suoi
successori avevano costruito la loro organizzazione del governo e del
potere, con una totale esclusione della gauche.
Oggi quel giudizio, pronunciato in un’epoca storica che appare molto
lontana da uno dei fondatori della moderna sinistra europea, dovrebbe
essere proposto all’attenzione di Francesco Rutelli e di Piero Fassino.
Non certo per un parallelo storico, perché l’Ulivo sia stato in qualche
modo vittima di un’esclusione da parte del centrodestra. Ma più
semplicemente per ricordar loro che proprio un “buon uso della
democrazia” richiede la presenza di un’opposizione, un suo ruolo, una
sua proposta. Già, perché alla domanda se ne esista una in Italia le
risposte sono univoche. Dice di no la storia dei primi sei mesi del
governo Berlusconi, ma dice di no anche lo stesso Fassino, almeno lo fa
da quando ha vinto la corsa alla segreteria dei Ds (basti pensare a
queste poche parole in una recente intervista a Panorama: “Per adesso
non siamo ancora riusciti a fare un’opposizione credibile…”, dove
nell’aggettivo “credibile” c’è tutto). I risultati del 13 maggio
continuano a lasciare nel centrosinistra un vuoto che appare non solo
molto più profondo di quello del ’94, ma anche di quello che nel ’96
mise per almeno due anni il Polo in un angolo. Pesa certamente, su
questa situazione, la legge elettorale maggioritaria che, ovunque
produca un risultato netto, è destinata a tramortire gli sconfitti. Ma
in questo caso c’è molto di più. C’è uno schieramento politico che ha
governato per sette anni – si può calcolare anche il periodo di Dini –
senza interruzione, occupando ogni centimetro quadrato del potere, e che
adesso non conta nulla in Parlamento, è escluso dai centri di decisione
e vive una situazione di totale impotenza. Ci sono forze politiche che
hanno preteso e pretendono ancora di esercitare un’egemonia culturale
sulla società e una sorta di supremazia morale sullo Stato e che non
sono in grado neanche di spiegarsi le ragioni del proprio fallimento,
trovandosi all’improvviso in una situazione di costante squilibrio. C’è
uno schieramento che si è convinto di svolgere un ruolo “superiore”, di
sedere nel sinedrio europeo e mondiale degli interpreti della modernità,
ma che si è sentito dire dal corpo elettorale di essere ormai il
rappresentante di interessi, ceti sociali e gruppi di potere minoritari
se non addirittura marginali, scoprendo di avere smarrito il senso di
una funzione nella società. Così la vasta area della sinistra italiana
appare oggi un territorio paludoso, dove tutto si confonde senza che
dalle nebbie riesca ad emergere qualcosa di nitido – una leadership, una
scelta, una proposta, anche un solo comportamento coerente. Mancano cioè
i requisiti fondamentali per essere opposizione.
Il problema irrisolvibile dell’identità smarrita
La sconfitta elettorale è stata per l’Ulivo qualcosa di molto più duro
della perdita del governo. Ha suonato come la fine di un ciclo. La
conferma si può trovare rileggendo, anche sommariamente, i suoi
comportamenti in questi mesi. Dopo la vittoria della Casa delle libertà,
il primo modo in cui si è espressa l’opposizione è stato il suo
comportamento a Genova nei giorni del G8. Il linguaggio della sua
leadership, il credito concesso al movimento no global, la stessa
analisi del processo di globalizzazione hanno rivelato il riemergere
della nostalgia della piazza. E’ stato un mix, dove accanto alla
tentazione di dare subito una spallata, di dimostrare che la
“contabilità dell’impegno”, cioè il numero di chi protestava per le
strade, poteva essere contrapposto alla “contabilità delle urne”,
conviveva con il richiamo salvifico al proprio codice genetico. Un
riflesso condizionato, come quando dopo la rottura della solidarietà
nazionale Enrico Berlinguer si rifugiò nella “questione morale”, nella
rivendicazione della “diversità” e soprattutto nella classe operaia,
spinta nella disastrosa battaglia in difesa della scala mobile; o come
quando, anche se in scala minore, Achille Occhetto subito dopo la prima
vittoria del Polo cercò di riaffermare un’identità e una presenza con la
marcia milanese del 25 aprile del ’94. Un riflesso condizionato
spiegabile forse alla luce della cultura politica del Pci, ma del tutto
ingiustificato dopo la stagione dei governi guidati da Romano Prodi,
Massimo D’Alema e Giuliano Amato, anzi in stridente contraddizione con
la storia più recente dell’Ulivo, con la rivendicazione riformistica
della “terza via” e, infine, con lo stesso fatto di aver preparato da
Palazzo Chigi un appuntamento poi rappresentato come il contrario della
democrazia globale. Non è un caso che il passaggio genovese abbia
trovato la sua conclusione nei riferimenti di Massimo D’Alema al “clima
cileno”, dimostrando l’incapacità di avere dall’opposizione la stessa
visione che si aveva stando al governo. Non era un problema di coerenza,
che spesso non fa rima con i comportamenti politici. Era piuttosto
l’esplosione del problema irrisolvibile dell’identità smarrita.
Nella stessa chiave, va interpretato il secondo atto che ha
contraddistinto l’opposizione in questi mesi, cioè l’“autunno caldo”
preannunciato da Sergio Cofferati. Ridotto troppo frettolosamente ad una
mossa in vista del congresso della Quercia, ad una pura fenomenologia di
partito, era in realtà il tentativo di evocare la costruzione di un muro
sociale e di proporre alla propria rappresentanza storica, il lavoro
dipendente, l’illusione di essere ancora il motore della società
italiana. Anche in questa circostanza c’era comunque la suggestione di
una possibile spallata, facendo suonare il replay dello sciopero
generale contro la riforma pensionistica che nell’autunno del ’94 dette
il colpo di grazia al primo governo Berlusconi. Ma soprattutto, come
qualche mese prima a Genova, era un messaggio più rivolto ad uno
“zoccolo duro” politico e ideologico che all’insieme dell’opinione
pubblica, con la ripetizione della stessa contraddizione: essere nella
stagione del centrodestra un sindacato profondamente diverso da quello
che si è stati negli anni del centrosinistra. Cioè la mobilitazione e
gli slogan, dopo un lungo periodo di brusii, di brontolii e di veti. Non
diverso è il discorso che riguarda il terzo atto, cioè la partecipazione
di Rutelli e di D’Alema alla marcia Perugia-Assisi. Stesso riflesso
condizionato, stessa preoccupazione, ma anche stessa contraddizione con
la storia e con il presente dell’Ulivo: con la sua scelta di campo, per
quello che riguarda le missioni in Albania e in Kosovo quando governava
e persino con il comportamento parlamentare dopo l’11 settembre, dove è
stata netta – e non poteva essere diversamente – l’accettazione del
concetto di guerra, guerra di risposta, guerra di libertà, ma in ogni
modo guerra. Questi sono stati i primi tre comportamenti pubblici, da
opposizione, di una sinistra sconfitta nelle urne dopo cinque anni di
governo. Due comportamenti sono sostanzialmente subalterni al movimento
no global, alla cultura pacifista, aperti alla contaminazione dei gruppi
che maggiormente contestano “il mondo che c’è” ed uno – velleitario,
l’“autunno caldo” che non c’è stato – contrassegnato da un’idea
prevalente di antagonismo sociale, in difesa dell’impianto storico di un
welfare che viene riformato perfino dove sono al potere partiti della
“terza via”, come in Gran Bretagna ed in Germania.
L’illusione dell’autosufficienza
Ma la caratteristica costante della risposta dell’Ulivo alla sconfitta
elettorale – sullo sfondo di Genova, del pacifismo e del tentativo di
promuovere una protesta sociale – è stata quella di contestare la
legittimità della nuova maggioranza. Non di interagire in qualche modo
con la Casa delle libertà sul problema decisivo di questa fase della
storia, ovvero come chiudere “la transizione italiana” e cominciare a
costruire insieme quel pacchetto di regole sufficienti a garantire una
nuova stabilità. Benché il 13 maggio abbia dato per la prima volta, da
quando si vota con il maggioritario, un risultato nitido e probabilmente
capace di garantire un governo di legislatura, il problema delle riforme
per ridisegnare lo Stato, i suoi poteri e le sue articolazioni non solo
resta aperto, ma riaffiora in continuazione. L’atteggiamento del
centrosinistra non appare quello di uno schieramento intenzionato a dare
il suo contributo. Anzi, sembra quello di chi fa di tutto per evitare
che “la transizione italiana” possa essere chiusa. In particolare sui
due fronti principali, quello della delegittimazione del presidente del
Consiglio – in quanto titolare di un progetto politico e in quanto
rappresentante di interessi sociali reali – e quello, collegato, della
“questione giustizia”. L’unica idea del centro sinistra resta quella di
far fronte contro Berlusconi. E’ questo l’unico vero collante di un’area
che non riesce a liberarsi né della storia dell’ultimo decennio né degli
schemi di cui è caduta prigioniera nell’ultima campagna elettorale. E’
il collante che, alla fin fine, consente di tenere insieme uno
schieramento di partiti e partitini, spesso semplici sigle, che non è
proponibile all’elettorato, che è già stato reso virtuale dal risultato
del 13 maggio, ancora di recente confermato in Sicilia e nel Molise, ma
che rappresenta soprattutto un autoinganno.
Non è certo un’opposizione quella che si illude di agitare “l’ossessione
di Berlusconi” per tenere insieme personalità e forze politiche non solo
in competizione tra loro sulla leadership e sulla forma politica che il
centrosinistra può assumere, ma anche in contraddizione su tutte le
grandi scelte che riguardano il presente e il futuro della società.
Appare poco più di una simulazione lo sforzo di ricostruire sotto le
bandiere di questo “fronte di liberazione” un’alleanza che raccolga
Antonio Di Pietro e Armando Cossutta, Francesco Rutelli e Alfonso
Pecoraro Scanio, Piero Fassino e Vittorio Agnoletto, Sergio Cofferati e
Massimo D’Alema, Fausto Bertinotti e Eugenio Scalfari. Cioè
giustizialisti e operaisti, riformisti e verdi, vetero-comunisti e
ulivisti, no global e moderati che hanno già giocato questa carta – fa
testo l’ultima campagna elettorale – e che hanno perso. E che continuano
a giocarla secondo “un codice di cattivo uso della democrazia”, per
capovolgere la felice formula di Mitterrand. Se c’è un punto dove si può
vedere con particolare chiarezza perché non è decollata l’opposizione, è
proprio questo: è “l’ossessione di Berlusconi”. Qui non c’è solo lo
strascico di una campagna elettorale in cui l’eccesso di
personalizzazione contro il leader della Casa delle libertà –
soprattutto attraverso la tv e le connessioni con una parte della stampa
europea – aveva addirittura illuso Rutelli e Fassino di poter recuperare
il ritardo. Qui c’è il maggior peso negativo del decennio passato. In
primo luogo sul piano culturale. Il decennio iniziato con le
teorizzazioni di Norberto Bobbio sulla televisione “naturaliter di
destra”, snodatosi sulla diffusione dell’idea della superiorità del
“mandato etico”, quello che può avere un pubblico ministero o
l’opinionista di un giornale, rispetto all’espressione della sovranità
popolare, e approdato ora ai continui, ripetuti ed imbarazzati richiami
al capo dello Stato a intervenire per smentire la maggioranza
parlamentare e il suo governo.
In un recente editoriale di un ex grande giornale europeo, Le Monde,
c’era una sintesi esemplare di questa cultura politica: “Silvio
Berlusconi – vi si scriveva – non è un euroscettico ideologico, come lo
era Margaret Thatcher, anche se le sue simpatie sono più atlantiche che
europee. Egli è un egoista che vuole gestire il suo paese come
un’impresa, che confonde l’Italia con i suoi interessi. Il dramma è che
questa sua mancanza di scrupoli non ha incrinato la sua popolarità in
patria, anzi”. Non sono questi giudizi “esterni”, parigini, scaturiti da
un’analisi autonoma e originale. Sono, al contrario, il condensato più
genuino della cultura politica che ha impregnato la sinistra italiana e
i suoi alleati nell’ultimo decennio e che l’ha progressivamente portata
al disastro. Una cultura – la cultura del giustizialismo e del
massimalismo – che ha pregiudizialmente rinunciato a leggere, con
realismo, i processi politici e sociali che hanno portato alla nascita
di questo nuovo soggetto che si chiama Casa delle libertà e che,
attraverso l’azione di governo, sta ulteriormente evolvendo. Una
cultura, cioè, che ha sempre catalogato questo del tutto inedito
centrodestra non per quello che è, ma per come lei se lo rappresenta
(raggiungendo il massimo del paradosso – questo va sempre ricordato –
nel trattare la Lega, portatrice di istanze legittime quando fa cadere
Berlusconi e xenofoba ed estremista quando è invece alleata con lui).
Le conseguenze di questo atteggiamento sono molto pesanti. Da qui, ad
esempio, è dipeso un comportamento parlamentare suicida, anche sui
provvedimenti più discutibili che la maggioranza ha approvato, come la
legge sulle rogatorie, risultato peraltro dell’esasperante scontro fra
giustizialismo e garantismo. Da qui è dipeso l’errore di considerare il
“problema Giustizia” poco più che un affare privato del presidente del
Consiglio, perdendo di vista la sostanza della questione, che è il suo
decisivo peso nella conclusione della “transizione italiana”. Da qui è
derivato, in particolare, un fenomeno unico nella storia delle
democrazie occidentali degli ultimi vent’anni: nel nome dei propri miti
e dei propri schemi mentali e con l’intento di delegittimare un
avversario politico più forte di lei l’opposizione si è autoesclusa dal
sistema politico collocandosi, per di più quasi senza accorgersene,
sull’Aventino. Restano alcune domande. Può funzionare e come il sistema
politico italiano senza un’opposizione? Si può arrivare in modo
unilaterale alla conclusione della “transizione”? Il centrodestra ha
bisogno di un contrappeso? Prima di rispondere a questi interrogativi,
si deve ricordare che l’illusione dell’autosufficienza è un male duro a
morire. Ad esempio, l’Ulivo di Prodi, proprio alla vigilia della sua
crisi, trovò davanti a sé un grande vuoto per scoprire subito dopo di
avere al suo interno non tanto uno stimolo e un contrasto – che è il
ruolo istituzionale di un’opposizione – quanto un’insidia mortale. Nella
Casa delle libertà, i numeri della maggioranza parlamentare e la
compattezza della coalizione possono far sorgere la stessa illusione che
accecò l’attuale presidente della Commissione europea. Certo, è
improbabile che il problema si ponga negli stessi termini, ma davvero il
governo Berlusconi – per quanto solido, sufficientemente coeso,
tranquillo del suo rapporto con l’elettorato e convinto di poter portare
a termine il proprio programma – può essere sicuro di rappresentare e di
rassicurare l’insieme della società e di manovrare al meglio nei meandri
della globalizzazione politica? C’è poi un’altra questione più
specifica, quella della chiusura della “transizione” iniziata ormai
dieci anni fa. Davanti all’apertura del dossier delle riforme, che per
di più toccheranno anche la Costituzione, può essere pericolosa
l’illusione di poter far da soli. Basti un esempio: il decentramento
approvato dal centrosinistra nella scorsa legislatura è oggi motivo di
tensioni e di conflitti. Se si fosse cercato un consenso più vasto – e
se ci fosse stata contemporaneamente la disponibilità a darlo –
probabilmente il percorso federalista sarebbe in una fase più avanzata.
Come uscire dalla transizione?
E’ questo, comunque, un campo in cui non basta il buon senso. L’Ulivo –
per come è costituito, per la sua storia recente, per la cultura che
esprime – non sembra oggi in grado di dare un contributo vero in termini
di proposta, di idee e, soprattutto, di assunzione di responsabilità
nella prospettiva delle riforme. Il dubbio è consistente, al di là delle
intenzioni che ogni tanto alcuni dei suoi esponenti – essenzialmente
Rutelli e Fassino – si lasciano sfuggire. E’ il dubbio che nasce dalla
profondità della crisi della sinistra. I Ds sono paralizzati dal ritardo
di un decennio durante il quale hanno cercato di imboccare la “terza
via”, ma sono rimasti soprattutto prigionieri di una vecchia cultura del
welfare e della vague giustizialista e l’“ossessione di Berlusconi”,
alimentata dal costante messaggio lanciato da un giornale come
Repubblica, sembra un ostacolo insuperabile. Al punto che sotto la
Quercia nessun leader ha finora saputo lanciare una battaglia politica a
tutto campo per uscire dal pantano delle invettive e della
demonizzazione dell’avversario e approdare al tavolo del confronto. A
sua volta, la Margherita appare come l’espressione arruffata non tanto
di un’area moderata – il centro dell’opposizione – quanto di culture e
forze diverse, un’alleanza eterogenea dove convive tutto e il contrario
di tutto, da zone responsabili della vecchia Dc fino all’integralismo
ulivista che può arrivare fino ai no global. E’ davvero difficile
prevedere quanto in assenza di un chiarimento questa sinistra possa
assumersi la responsabilità di diventare un’opposizione politica. Che
significa stare nei codici “di buon uso della democrazia”, cominciando
se non altro a rispettare i risultati della sovranità popolare, a capire
che la politica italiana non può dipendere dalle grida di un giornale
straniero, a uscire dal girone infernale della criminalizzazione
dell’avversario e a rinunciare all’illusione che ci possa essere qualche
scorciatoia per evitare che il governo del centrodestra duri una
legislatura. Sarebbe una svolta rispetto all’ultimo decennio. Ma sarebbe
soprattutto il ritorno del centrosinistra nel contesto costituzionale da
cui tende in continuazione ad uscire, non riconoscendo le regole del
gioco. Forse non è questo un passaggio obbligato per arrivare alla
seconda Repubblica. Ma se Ds e Margherita continueranno a restare sul
loro Aventino il vero rischio non è per la maggioranza, ma per loro, per
la loro credibilità e la loro stessa esistenza. Potranno sopravvivere
alla conclusione della “transizione” se non vi contribuiranno in qualche
modo?
15 febbraio 2002
(da Ideazione 1-2002, gennaio-febbraio)
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