Una svolta liberista per competere con gli Usa
di Stefano da Empoli


“Making change happen” è lo slogan adottato dalla Commissione Europea per il consiglio Ue che si terrà a metà marzo a Barcellona, snodo essenziale sulla via delle riforme economiche nel Vecchio Continente. Un’espressione che contiene una critica neanche tanto velata alla ritrosia con cui i governi nazionali si stanno attrezzando al raggiungimento degli obiettivi stabiliti al vertice europeo di Lisbona due anni addietro. Dove trionfalmente l’Europa proclamò l’intenzione di diventare l’economia più competitiva e dinamica al mondo entro il 2010. Ambizione smodata, almeno a giudicare dai magri risultati degli anni Novanta, quando gli Usa hanno quasi doppiato l’Europa in termini di crescita del prodotto interno lordo (3,7% contro 2%). Che quindi richiederebbe mezzi straordinari affinché i risultati possano conformarsi alle speranze. Fin qui, invece, la Commissione europea è costretta a notare un delivery gap crescente rispetto ai buoni propositi lusitani. Gli unici che al momento si mostrano seriamente intenzionati a chiuderlo, tra i grandi paesi dell’Unione, sono Gran Bretagna, Spagna e da otto mesi a questa parte l’Italia. Che durante il governo D’Alema aveva messo in cantiere un documento comune sul lavoro con la Gran Bretagna di Blair. Qualche mugugno dell’allora ministro del lavoro e dei sindacati bastarono a riporre in soffitta le velleità dalemiane e così non se ne fece nulla.

Mentre da noi si brancolava nella più totale confusione, andava cementandosi l’asse Blair-Aznar. Il primo poteva godersi i dividendi delle politiche thatcheriane degli anni Ottanta, che, liberando l’economia dai lacciuoli sindacali e dall’inefficienza dei monopoli pubblici, aveva fatto della Gran Bretagna un paese finalmente competitivo, dopo decenni di declino. Il secondo era invece artefice diretto del miracolo economico spagnolo degli anni Novanta, decennio in cui la Spagna è stato l’unico grande paese europeo a crescere allo stesso ritmo degli Stati Uniti (3,6% contro 3,7%). Quello che alla Thatcher era riuscito al costo di duri scontri con le Trade Unions britanniche, ad Aznar è arriso in un clima di pace sociale invidiabile ed invidiata. In primo luogo dal predecessore Gonzales, che quando era alla Moncloa dovette subire da leader socialista l’onta di ben quattro scioperi generali. Contro lo zero che contraddistingue la casella di Aznar (anche grazie a sindacati di sinistra più illuminati che altrove). Fatto sta che l’attuale premier spagnolo ha traghettato la disoccupazione spagnola da livelli superiori al 20% a valori più vicini alla media Ue, intorno al 12%.

Ora la coppia diventa un tris, con l’aggiunta di Silvio Berlusconi. In attesa del possibile poker in autunno, quando la vittoria di Stoiber in Germania potrebbe ulteriormente contribuire a raddrizzare una macchina europea che tra colpi di freno e di acceleratore è sempre più fuori controllo. Nel frattempo, però, occorre ragionare al presente. Il documento comune Gran Bretagna-Italia fa proposte forti su tutti i temi più importanti in agenda a Barcellona. Nel segno di un liberalismo economico che è l’unico fattore in grado di far compiere all’economia europea quel salto di qualità richiestole a Lisbona. La Spagna rimane fuori per ovvie ragioni di opportunità, essendo il presidente di turno dell’Unione, ma non per questo è neutrale rispetto alle posizioni in campo. Liberalizzazione del mercato interno (energia e trasporti in primis) e maggiore flessibilità del mercato del lavoro sono due punti su cui la presidenza spagnola vuole giocarsi la partita di Barcellona. Blair e Berlusconi stanno servendo un buon assist. Spetterà soprattutto alla Spagna fare goal.

15 febbraio 2002

sdaempol@gmu.edu