Giustizia, il modello spagnolo non fa per
noi
di Giuseppe Sacco
“Non ci piace - ha scritto Sergio Romano sul Corriere della Sera -
che un magistrato cerchi di usare la stampa per i suoi fini,
scriva libri autobiografici, lasci la carriera per entrare in
politica e lasci la politica per tornare in carriera.” Non gli è
piaciuta, in sostanza, l’invettiva pronunciata dal dottor
Borrelli, presentatosi come una specie di reincarnazione
dell’anarchico Bresci, un tirrannicida romantico degno della penna
di Vittorio Alfieri, o addirittura uno degli eroici insorti del
ghetto di Varsavia.
Sarebbe difficile non concordare con Romano, e con la lunga lista
da lui redatta delle cose poco belle che ci fa vedere il sistema
giudiziario nazionale. C’è solo da notare il pericolo ormai serio
di queste iperboli retoriche, che finiscono per banalizzare, e in
definitiva riabilitare il male, quello vero. Paragonare la vanità
e le velleità frustrate di qualche magistrato - una minoranza, per
fortuna - all’estremo e disperato coraggio dei resistenti ebrei al
nazismo, sarà pure un’ingenua e patetica furbata del dottor
Borrelli per assimilare il governo eletto dagli italiani alla
feroce dittatura nazista, ma è in realtà sacrilego e immorale nei
confronti delle vittime dell’Olocausto. E dimostra solo
l’ignoranza e la rozzezza di chi, mescolando impropriamente
giustizia e politica, ricorre a tali meschini mezzi polemici.
Su giustizia e politica, sul delicato equilibrio che tra esse deve
esistere in una società libera, c’è oggi in Italia un vivace
dibattito, ed una ricerca di modelli, soprattutto all’estero, e
persino nei paesi da cui c’è meno da apprendere. E, in ciò, appare
del tutto paradossale che un gruppo di deputati - come fa la
giunta per le autorizzazioni a procedere di Montecitorio -
presieduta dal diessino Vincenzo Siniscalchi vada in giro a spese
del contribuente per vedere da vicino il “modello spagnolo”. La
Spagna gode, nel nostro paese, di una popolarità non sempre
meritata. Per quel che riguarda specificamente la giustizia, basta
pensare al caso del giudice Garzon, che si guarda bene dall’andare
a rovistare negli armadi del franchismo, a cerca di scheletri, ma
monta in cattedra sparando ai quattro angoli del globo terracqueo
accuse caratterizzate solo dal grande rimbombo mediatico. Che
cos’è infatti l’ineffabile Garzon se non un prete mancato, e un
ex-sottosegretario socialista, riconvertitosi a inquisitore del
politically correct? Se non uno che - per riprendere la formula di
Sergio Romano - alternativamente lascia la carriera per entrare in
politica e lascia la politica per tornare in carriera?
L’ imbarbarimento della Giustizia, ridotta a strumento politico, è
purtroppo un male contagioso. L’esempio spagnolo sembra infatti
già essersi esteso al Belgio, i cui tribunali si arrogano il
privilegio di emettere sentenze non solo sui sudditi di quella
monarchia, ma anche sui cittadini di repubbliche indipendenti,
persino per presunti reati commessi fuori dal Belgio e senza
implicazione di sudditi belgi. C’è da chiedersi se un tale
contagio - nonostante le esistenti garanzie di legge - non rischi
di estendersi anche all’Italia. Un giudice di forti sentimenti
nazionali potrebbe infatti esser tentato di fare un uso
politico-diplomatico della giustizia, e andare sollevare il caso
di Melissa Russo.
Figlia di emigrati, la piccola Melissa potrebbe infatti, secondo
la legge della Repubblica, rivendicare il diritto alla
cittadinanza italiana. Potrebbe. Se non fosse morta a otto anni di
violenze sessuali, di torture e di fame in Belgio, nello
scantinato di un pedofilo, ed a causa della malavoglia e della
scarsa solerzia con cui la polizia del Royaume ne ha perquisito la
casa. Seguendo l’esempio di Garzon, e con molte più fondate
ragioni, un giudice italiano potrebbe aprire un’inchiesta. E così
chiarire una volta per tutte come mai a sei anni di distanza
dall’assassinio della povera Melissa, il presunto colpevole non è
stato ancora portato in giudizio, e che cosa c’è di falso nelle
accuse di complicità con giri pedofili e di giochi di puro stile
nazista, rivolte da due giornalisti belgi - che vivono in
Lussemburgo - a una parte dell’establishment del loro paese, sino
a sfiorare la famiglia reale.
18 gennaio 2002
saccogi@hotmail.com
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