Le ragioni politiche del caso Ruggiero
di Domenico Mennitti
C’è una ragione politica al fondo della crisi che ha investito il
governo e si è chiusa con le dimissioni di Ruggiero
dall’importante ministero che gli era stato affidato. Essa si
riassume nella cultura tecnica del personaggio che Berlusconi
aveva collocato alla Farnesina in considerazione anche del largo
credito guadagnato in ambito internazionale, dove Ruggiero ha
assolto, nel corso di una lunga e prestigiosa carriera, ad una
serie di alti e qualificati impegni, riuscendo a tessere anche una
fitta trama di rapporti. L’assenza dall’Italia negli anni del
cambiamento del quadro politico interno non gli ha però consentito
di recepire il significato e la portata delle modifiche
intervenute sul piano politico e di fatto anche su quello
costituzionale.
Modifiche non scritte e tuttavia intervenute a regolare la
organizzazione della nostra società, che le ha accettate e le
pratica come fossero codificate. Prima fra tutte l’indicazione del
nome del premier sui simboli elettorali una innovazione che
nessuna legge prescrive e che pure si è imposta nel corso
dell’ultima campagna elettorale senza provocare obiezioni. Da
questo elemento innovativo deriva la considerazione che non si può
oggi valutare il ruolo del governo e di ciascun membro di esso con
lo stesso criterio adottato nella fase precedente. Allora, nella
cosiddetta prima repubblica, il presidente del Consiglio era
scelto dai partiti e a questi egli pagava il tributo di trasferire
una parte importante di potere, che veniva assunto – in
proprozione con il peso interno – dai protagonisti di ciascuna
formazione. Perciò ogni ministro costituiva un centro di potere
che gestiva in proprio e sul quale lo stesso premier riusciva ad
esercitare un generico controllo e solo nel senso di uniformare le
decisioni dei singoli ministri all’indirizzo generale del governo.
Ora non siamo proprio alla formula americana degli “uomini del
presidente”, ma neppure a quella del “ministro gestore assoluto
del proprio dicastero”. Anche questo passaggio nessuno lo ha
tradotto in una norma scritta, ma è nei fatti, nella pratica
quotidiana, nel ruolo che il capo del governo effettivamente
svolge nei rapporti interni ed internazionali. L’affermazione di
Ruggiero d’essere un ministro bipartisan, con la quale ha inteso
attribuirsi una funzione autonoma rispetto alla linea
programmatica del governo e della maggioranza, manifesta la sua
estraneità all’evoluzione politica del paese, dove – nel quadro
del bipolarismo intervenuto – può se mai raffigurarsi una poltica
bipartisan e non un ministro che pratichi da sé e, nella
interpretazione di Ruggiero, addirittura da solo ed in dissenso
con il governo, una politica di tal genere sul delicato fronte
delle relazioni internazionali. Berlusconi è stato determinato nel
rammentargli che i rapporti dell’Italia con gli altri paesi hanno
come responsabile insostituibile il capo del governo, il quale
esercita tale funzione essendo investito della doppia legittimità
attribuitagli dagli elettori e dal parlamento. A parte le
strumentali polemiche dell’opposizione, questa a noi sembra una
riflessione preliminare ed importante: in un sistema bipolare
occorre che un ministro, anche se si definisce non politico (ma
c’è maggior tasso di politicità di quello che si esprime
nell’esercizio del governo dei rapporti internazionali?), sappia
perchè sta con uno e non con l’altro degli schieramenti
contrapposti.
Quanto all’Europa e all’atteggiamento dell’Italia, va rilevato che
anche su questo tema Ruggiero è apparso “datato”, nel senso che
egli ha espresso una posizione tutta dentro la fase che si può
considerare conclusa con l’avvento della moneta unica e quasi
indifferente rispetto all’esigenza di dare contenuti nuovi
all’intento del governo europeo di assumere una pregnante funzione
politica e militare. Sull’europeismo a parole di molti italiani si
è già detto e scritto in abbondanza, spesso eccedendo in
generalizzazioni sconvenienti e grossolane. Ma un dato è certo:
l’Europa economica ha raggiunto con l’emissione dell’euro un
traguardo decisivo mentre i cantieri di quella politica non si
segnalano per fervore di attività. A rendere faticoso questo
cammino non c’è soltanto una banale contrapposizione fra
euroscettici ed euroentusiasti; si pongono piuttosto esigenze di
approfondimento rese necessarie dal cambiamento degli scenari
dentro i quali la straordinaria idea dell’Europa unita è nata e si
è sviluppata. La fine della guerra fredda pone un quadro
notevolmente diverso da quello che ereditammo dall’ultima vicenda
bellica che coinvolse il mondo. Anche l’Europa non può svilupparsi
solo esaltando il richiamo ai padri fondatori: è tempo di mettere
in campo continuatori autorevoli e prestigiosi quanto quelli che
avviarono il processo, sperando che siano in grado di imprimere ad
esso una nuova spinta propulsiva sulla base di eventi che,
all’avvio della seconda metà del secolo scorso, non solo erano
assenti, ma anche assolutamente imprevedibili. La brevità di un
articolo consente appena di accennare alla questione, che tuttavia
è fondamentale se si svuole offrire alla costruzione dell’Europa
politica un contributo serio e responsabile. L’augurio che si deve
esprimere è che il dibattito di lunedì alla Camera possa essere
colto da tutti, maggioranza ed opposizione, come una occasione di
riflessione e di elaborazione, andando oltre Ruggiero il cui gesto
è apparso più isterico che ponderato.
11 gennaio 2002
dmennitti@hotmail.com
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