Riformare la giustizia e chiudere l’emergenza
di Domenico Mennitti


La seconda volta le rivoluzioni si trasformano in farsa. E tale, una farsa, è apparsa la riedizione del putch che il pool di Milano mise in atto nel 1994, a reti unificate, per mettere al tappeto il primo governo Berlusconi. Questa volta a ciondolare di fronte alle telecamere dei Tg sono stati i componenti della giunta dell’Anm, l’Associazione nazionale magistrati, per protesta contro le dichiarazioni al Senato del ministro della Giustizia Castelli. Un coup de theatre che non ha preoccupato nessuno: “Spero ci ripensino”, ha risposto con pacata rassegnazione il ministro. Dalla mancata applicazione della legge sulle rogatorie da parte dei procuratori milanesi al lavorìo politico della sinistra al parlamento europeo, per il governo Berlusconi sembra tornata l’atmosfera del Novantaquattro. Ma non è così. Il governo ha risorse e consenso sufficiente per affrontare la riforma della giustizia che può dare un impulso di libertà alla vita del nostro paese pari a quello delle attese riforme economiche e sociali. Non può essere polemicamente ridotta a un interesse personale di Berlusconi: è una battaglia di libertà per tutto il paese. La riforma della giustizia, già delineata in campagna elettorale, ha raccolto il consenso degli elettori. Ha solo bisogno di volontà politica per essere messa in atto. Il presidente del Consiglio si è dato sei mesi di tempo.

Giova ricordare che il settore più politicizzato della magistratura italiana ha consumato da tempo il capitale di credibilità che aveva conquistato nelle prime fasi di tangentopoli. Ad una prospettiva storica, che ormai può essere adottata dopo dieci anni di transizione politica, appare evidente il tentativo dell’inizio degli anni Novanta di intervenire nella carne viva della politica putrefatta dalla corruzione per determinare il nuovo corso. Selezionare all’interno della classe dirigente della Prima Repubblica i condannati e i salvati, con un’operazione chirurgica che portasse al potere non una parte politica sana ma la sinistra post comunista. Un progetto nato negli anni della formazione sentimentale di una generazione e che, al caldo delle biblioteche giuridiche e delle aule giudiziarie, è sopravvissuto al grande freddo del comunismo. Le sue tracce riempiono i numeri speciali di quella che fu, agli inizi, una rivista di cultura politica della sinistra, MicroMega, e che oggi sembra diventato il bollettino ufficiale delle procure. Basta leggere.

Troppi processi dell’era di tangentopoli si sono conclusi con l’assoluzione degli imputati. Troppe vite e troppe vite politiche sono state spezzate per accuse mai provate. Nessuno ha pagato per quegli errori perché, se negli Stati Uniti (il paese della libertà spesso tirato fuori a sproposito) i giudici sono poi sottoposti al voto popolare, qui da noi sono sottoposti al giudizio di altri giudici che stanno bene attenti a mantenere solido uno degli impianti corporativi più solidi del nostro apparato pubblico. Chi sbaglia paga, salvo che non indossi la toga del procuratore. Eppure nella magistratura, a volte, è possibile intravedere linee diverse da quella rappresentata dalla procura di Milano, esigenze alternative. A queste bisognerà dare risposte con una riforma che non può più attendere. Anche perché la rivoluzione giudiziaria è un vicolo cieco, una strada senza uscita che ha già creato molti danni all’Italia. Il governo Berlusconi è nato anche per chiuderla definitivamente.

7 dicembre 2001

dmennitti@hotmail.com